«Là tout n’est qu’ordre et beauté / luxe, calme et volupté»
Là tutto non è altro che ordine e bellezza / lusso calma e voluttà
– Invitation au voyage, Charles Baudelaire (in Les fleurs du mal)
Covid-19: all’invito a viaggiare di Baudelaire potremmo rispondere «contaci, ci risentiamo tra un po’», proiettando sul futuro quello che ora ci è impedito. E se tutte le tessere vengono spostate in avanti, qual è allora il contenuto di questo presente?
Alienazione. Incertezza. La novità che non avremmo voluto. Una dimostrazione di precarietà. Tutto ciò che abbiamo sempre dato per scontato – la normalità nella sua monotonia – trasfigurato. Le basi del nostro sistema hanno ceduto. Le lancette non scandiscono più l’ennesimo minuto, bensì un altro minuto verso chissà che cosa, un cosa nel quale chi siamo noi? Un cosa dove l’unica certezza diventa l’instabilità, il non sapere, il non fidarsi: non credo in niente perciò posso salvarmi.

La quotidianità si è trasformata in gabbia di limitazioni, una cella che, a tratti – negli intervalli tinti di giallo in cui il tutto del niente viene permesso – appare più larga. Così l’apnea di esperienze si traduce in apnea di emozioni; porta alla sfiducia di provare e al pensarlo sbagliato nel nostro tempo, che non coincide con la pienezza dei sentimenti, ma con un vuoto incolore che sa di privazione. Ci spogliamo per appartenere al presente perché ne abbiamo bisogno, altrimenti ci sentiremmo esclusi non solo dalla vita e dalle coordinate spaziali che ci sono negate, ma anche da quelle temporali. Così ci spegniamo: adesso siamo grigi e tutto è grigio, quindi è perfetto, è sicuramente questo il modo che farà funzionare le cose. Siamo spenti come tutto il resto e dev’essere giusto così.
Sappiamo ciò di cui abbiamo bisogno, ma siamo convinti di non poterlo afferrare: ordine, bellezza, calma… cosa sono? Come potrebbero appartenerci? Li scacciamo perché no, devono nascondere qualche peso invisibile, qualche condizione, perché il limbo nel quale siamo seduti, scandito dai colori di un semaforo che, nella loro intermittenza, ci indicano sempre di stare fermi, non può ammettere barlumi di speranza. Se il tempo è sospeso, ci convinciamo, noi stessi siamo sospesi, in rifiuto verso tutto e, nonostante ciò, in costante desiderio dell’oltre: vittime e carnefici. In questo modo sacrificare il bene per sfiducia e il costruire per un momento di presente appare più facile e digeribile, apparentemente gestibile, in rapporto a tutto il resto.
Siamo sempre assetati, eppure questa secchezza alla gola non viene mai colmata, bensì ingannata da un’incontrollabile bulimia di incertezze. Perché riflettere, in un tempo inghiottito dalla sospensione ma nel quale i minuti continuano a scorrere nella loro mortificante frenesia, è questo: dramma e immobilità, congiunti in un senso di impotenza, che porta inevitabilmente a un attaccamento verso il niente, ad un legame spoglio rafforzato dall’abitudine. Creiamo questa sorta di tossica relazione con un presente denso nella sua vuotezza, un tempo che vive nella contraddizione e ci porta dentro di lei rendendoci schiavi, vittime che non hanno scelta se non l’accettazione.
Siamo l’abbattimento del giovane Werther, l’aridità della brughiera descritta da Emily Brontë e tutto ciò che vediamo non è che la terra desolata delineata da Eliot. La luce verde di Gatsby appare come evidente illusione e, seduti sull’ermo colle (se fuori dalla zona rossa!), non cercheremo nella nostra immaginazione l’infinito dell’oltre, semmai inizieremo a contare le foglie della siepe che ci copre la vista. Questo perché il tempo incerto nel quale esistiamo senza sentirci davvero in vita ci spoglia da ogni senso di stabilità, dentro e fuori di noi, e ci convince della nostra incapacità di essere artefici: non possiamo costruire in modo sano in quanto architetti di sfiducia. Così ogni piano, ogni azione che sia sintomo di certezza, dev’essere destinata a nient’altro che al decadimento, perché è questo che ci insegna il presente. Questo sentiero che esclude il creare ci conduce soltanto alla scelta di agire per non rovinare e in questo modo restiamo fermi, perché non sappiamo più dove correre.

Ma noi non siamo questo tempo e non dobbiamo necessariamente deludere, non siamo necessariamente immobili né incapaci di costruire, perché ciò di cui abbiamo bisogno è dentro di noi, non al di fuori, e la certezza ci appartiene, nella sua forma di mille frammenti di caleidoscopio. Dobbiamo soltanto capirla, interpretarla per interpretarci, scoprire e scoprirci, darci fiducia e proiettarla al di fuori. La divisione spaziale non coincide per forza con la solitudine. L’isolamento non ci preclude la possibilità di essere capiti. I colori si possono sempre creare. Anche il bianco e il nero non sono mai davvero puri: sfumano costantemente, si amalgamano, creano le ombre di buio e i punti di luce. Niente è come appare, ma semplicemente come lo si vuole vedere. Una prospettiva è capace di semplificare la sostanza e il punto di vista si sceglie.
«Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo», scrisse Leopardi, «non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere non è tolto né possibile a togliere il desiderare.» Così ci sarà sempre una scintilla di noi, nella polvere dell’alienante assopimento che respiriamo dalle nostre mascherine, che ci ricorderà quanto in realtà siamo accesi, ricercando ininterrottamente l’utopia sospesa, il mondo di ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà, in cui magari abbiamo smesso di credere, ma non di sperare.


di Silvia Loprieno
Silvia Loprieno, al primo anno della facoltà di Lettere Moderne all’Università Statale di Milano. Comincio ogni presentazione su di me con la citazione di Oscar Wilde: «definire è limitare», che è soltanto un modo un po’ originale per giustificare la breve banalità del resto. Mi attrae tutto ciò che trovo particolare, tutto ciò che ritengo arte. Scrivo da sempre per esprimermi ed esprimere concetti dalle aspirazioni filosofiche, concepiti dalla mia testa un po’ per caso.