“Se vi frulla nella testa l’idea che la vita che state facendo non vi soddisfi e vorreste cambiarla, fatelo, non continuate a dirlo e basta. Passate dalle parole ai fatti.”
Queste frasi riassumono il consiglio che Elisa Anselmi si sente di rivolgere a tutt* quell* che, per un motivo o per l’altro, si sentono intrappolati in una quotidianità che non fa per loro. Infatti, insieme al suo compagno Riccardo, lei ha avuto “l’incoscienza” di provare a cambiare radicalmente la sua vita quando, circa dieci anni fa, ha lasciato il lavoro in azienda e la sua routine “tradizionale” per andare a lavorare la terra sulle splendide colline dell’Oltrepò pavese.
Ho avuto il piacere di fare con lei una chiacchierata molto interessante, durante la quale abbiamo parlato di molti argomenti, tra cui il coraggio di cambiare vita e l’importanza della noia.
Ciao Elisa, grazie per questa opportunità: innanzitutto, ti chiedo di presentarti ai nostri lettori.
Sono Elisa, ho quasi 35 anni, ho due bimbi (una di quattro anni e mezzo e uno di tre mesi) e un compagno, Riccardo. Mi sono laureata in Design del prodotto al Politecnico di Milano e, contrariamente a quello che mi sono sempre sentita dire (“non troverai mai un posto fisso”, “il lavoro non si trova”), subito dopo la laurea, ho trovato lavoro in una casa editrice scolastica a Milano. Tutti i giorni, quindi, sveglia alle sette, prendi il pullman, vai al lavoro, pranza con i colleghi, stacca alle diciotto, torna a casa e cena. Tutto ricomincia uguale ogni giorno. Alla fine, potevo ritagliarmi del tempo per ciò che amavo solo la sera. Insomma, la routine iniziava a starmi stretta e la stessa sensazione era condivisa dal mio compagno, Riccardo.
Mi racconti dell’inizio del cambiamento che avete deciso di intraprendere insieme, per migliorare la vostra quotidianità?
Mentre lavoravamo, abbiamo iniziato a fare “Wwoofing”. Per chi non la conoscesse, Wwoof è una rete che mette in comunicazione chi vuole fare volontariato nelle aziende agricole-biologiche e le aziende stesse. Dopo aver fatto due o tre esperienze di questo tipo durante le ferie, abbiamo deciso di prendere un anno sabbatico e passarlo come Wwoofers in giro per l’Italia. Il Wwoofing, per noi, è stato come una scintilla, perché ci ha dato la possibilità di vedere che la vita che volevamo era possibile. Era arrivato il momento di trovare un luogo dove iniziare il nostro progetto.
Secondo te, cosa ti differenzia da un cittadino italiano medio?
Sinceramente non saprei. Parlando con le persone che apprezzano quello che facciamo, quello che riscontro è che ci dicono: “Che bello, ma io non sarei in grado”. Noi ci abbiamo provato. Tante persone, magari, non sono contente della vita che fanno, ma non tentano di cambiare le cose. Noi, se non altro, abbiamo avuto l’incoscienza di provarci.
Tu sei nata e cresciuta in città o in campagna?
Io sono nata e cresciuta nel basso pavese, a Magherno, circondata dai campi di mais e di riso e dalle zanzare. Inoltre, la mia famiglia ha un allevamento di suini, quindi sono sempre stata a contatto con una realtà rurale. Riccardo, invece, è cresciuto a Pavia: è lui l’anima più cittadina.
Dopo l’iniziale inversione di rotta, come avete deciso dove stare?
Dopo l’anno sabbatico, avevamo bisogno di un posto per il nostro progetto. Grazie a dei contatti e ad una serie di coincidenze, siamo approdati a Sagliano, un paesino vicino a Varzi. Contemporaneamente, era arrivata un’altra famiglia di Milano, per cui abbiamo deciso di comprare il terreno lì, anche perché sembrava esserci un terreno “fertile” dal punto di vista sociale.
Quindi ad aver fatto questa scelta non siete i soli…
A me piace parlare di una rete di persone, siamo come dei puntini uniti dai legami. Preferisco usare la parola “rete”, rispetto alla parola “comunità”, perché qui ognuno ha una sua indipendenza e una sua autonomia, ma cerchiamo sempre di aiutarci e di collaborare tra noi. Questa rete è formata da persone che hanno compiuto più o meno il nostro stesso percorso, ovvero sono scappate da routine che sentivano strette, cercando una nuova dimensione. Tutto questo è successo circa dieci anni fa, dopo la crisi del 2008. Infatti, in quel periodo, è cominciato una sorta di esodo dalla città alla campagna, che sta proseguendo tutt’ora, tanto è vero che ogni anno accogliamo qualche nuovo componente.
Come vi organizzate nel quotidiano?
Le nostre idee sono cambiate negli anni. Siamo partiti con la prospettiva un po’ “fricchettona” di vivere totalmente in autosufficienza. Sono delle bellissime idee, ma nella pratica poco fattibili. Abbiamo iniziato coltivando l’orto solo per noi, poi ci siamo buttati nel progetto della casa in balle di paglia. Nel frattempo, però, io ho sempre mantenuto una collaborazione con la casa editrice. Tuttavia, abbiamo incontrato delle difficoltà: ci siamo accorti che non era così facile tradurre le nostre idee in qualcosa di concreto, perché, ad esempio, se continuavamo a fare la spesa al supermercato, nella pratica non cambiava nulla.
Quindi cosa avete deciso di fare nel concreto?
Nel 2019, abbiamo cominciato a coltivare ortaggi per la vendita e ora proseguiamo in questo senso. Contemporaneamente, io continuo la collaborazione con la casa editrice. Per quanto riguarda i nostri ortaggi, svolgiamo tutta una serie di pratiche e tecniche culturali che vanno oltre il biologico, decidendo di venderli secondo la modalità CSA (Community Supporter Agriculture, ndr).
Come funziona?
Il cliente sostenitore del progetto paga in anticipo un abbonamento annuale o bimestrale, così da dare un appoggio all’agricoltore e la garanzia di comprare gli ortaggi sempre da lui. L’agricoltore, quindi, sa già che tutto ciò che produrrà verrà venduto e questo permette di ridurre al minimo gli sprechi: è diverso dall’andare al mercato, dove magari mi trovo a tornare a casa con verdure da buttare via. Con questa modalità, ricevo addirittura soldi in anticipo, per cui tutte le spese (sementi, attrezzatura, ecc.) possono essere sostenute e riesco organizzarmi con precisione. Inoltre, un altro vantaggio è permettere al cliente di avere verdure freschissime e partecipare alla scelta degli ortaggi: ogni anno, infatti, facciamo dei sondaggi per capire cosa è piaciuto e cosa no, in modo da migliorare il nostro servizio.
Per quanto riguarda i ritmi del quotidiano, i tuoi sono cambiati molto, immagino…
Direi di sì. Molti amici che vengono dalla città, quando vengono a contatto con la nostra realtà, dicono che lavoriamo più noi qui in campagna che là in città. In effetti è vero, soprattutto in primavera e in estate non c’è un momento libero e c’è tantissimo lavoro da fare. In più, ci sono anche i bambini con noi. Le giornate rispetto a quando abitavo a Pavia sono diverse, sono molto più imprevedibili, ma sento di fare cose che mi riempiono la vita.
Come gestite l’educazione dei vostri bambini? So che avete avviato da qualche anno un progetto interessante…
Abbiamo un progetto che accoglie i bambini in età da scuola materna ed è stata una delle prime cose che ho fatto quando sono arrivata qui. Nel mio anno sabbatico, mi sono interessata personalmente all’educazione libertaria e alle alternative all’educazione tradizionale. Avendo lavorato in una casa editrice scolastica, c’erano alcune idee dietro i libri e la loro impostazione che non mi piacevano. Durante il mio anno sabbatico, ho trascorso qualche mese a Friburgo, in una scuola libertaria, come osservatrice: era una scuola aperta da una ventina d’anni, quindi era un progetto solido, che mi avrebbe permesso di capire se, effettivamente, questo tipo di educazione avrebbe funzionato. Sono arrivata qui in Oltrepò dopo quell’esperienza e, per combinazione, il gruppo di famiglie della nostra rete aveva tutti bambini piccoli, scontenti dell’asilo che veniva offerto in zona. Quindi, mi sono data disponibile per far partire un’esperienza di asilo nel bosco e abbiamo creato il progetto nel 2014. Ormai, io non faccio più la maestra lì, ma ho trovato altre figure che adesso portano avanti con me questo asilo nel bosco. È un’esperienza veramente bella, sia per i bambini, sia per i genitori, perché si riesce a fare rete e nascono anche una serie di legami.
Che tipo di attività proponete?
Alla materna, a causa del contesto, si è sempre costretti a dover creare ed inventare degli stimoli. Invece, qui è tutto ribaltato: se sono immersa in un bosco, cambia tutto da un momento all’altro e gli stimoli arrivano da soli. Ti faccio un esempio: una delle prime cose che abbiamo fatto con Laura, la ragazza che veniva da un asilo di Milano e ha lavorato con i nostri bambini, è stata raccogliere le bacche di rose canine: in questo modo, i bambini erano stimolati a contare le bacche e a confrontarle, concentrandosi per raggiungere anche quelle situate in mezzo alle spine. Laura mi ha detto che un’esperienza come quella comprendeva tutte le attività che lei, solitamente, doveva inventarsi quando organizzava i vari laboratori di manualità, di matematica e altre materie.
L’organizzazione dell’asilo prevede che alla mattina, di solito, si proponga un’attività, mentre il pomeriggio è libero. La parte di educazione spontanea è importantissima: nel nostro asilo non c’è un programma fisso, per cui, se capita qualcosa di imprevisto, ci si può fermare ad accoglierlo. L’altro elemento importantissimo è lo spazio per la noia: gli spazi in cui ci si può annoiare permettono al bambino di sviluppare la sua creatività. A casa, molto probabilmente, hanno una serie di proposte da rispettare, invece l’asilo nel bosco è un posto che permette al bambino di seguire il suo tempo, totalmente diverso da quello degli adulti. Ecco che la noia diventa qualcosa da preservare.
Parliamo di futuro: come pensi che si svilupperà col ricambio generazionale ciò che avete costruito?
Questa è una bella domanda. Si dice che spesso i figli fanno l’opposto dei genitori. Scherzando tra di noi, ci diciamo che i nostri non vorranno far altro che scappare da qui per trasferirsi nella metropoli più grande che possa esistere, fuggendo da ciò che abbiamo inseguito noi. Tra i figli più grandi dei nostri amici, qualcuno sta dimostrando questa tendenza, mentre altri sembrano seguire le orme dei genitori. Ora è ancora troppo presto per dirlo, mi auguro che le nuove generazioni facciano meglio di noi: la vita è sempre un bagno nel compromesso, noi cerchiamo solo di fare quello che pensiamo sia il meglio.
Ultima domanda: che consigli daresti ad una persona che volesse intraprendere un cambiamento simile?
Innanzitutto, il mio avvertimento è di non seguire i miei consigli: ognuno ha il proprio percorso, deve fare le proprie esperienze, deve sbattere il muso, procedere per tentativi ed errori. Uno spunto che posso dare è: se vi frulla nella testa l’idea che la vita che state facendo non vi soddisfa e vorreste cambiarla, fatelo, non continuate a dirlo e basta, passate dalle parole ai fatti! Se il mondo rurale vi interessa realmente, è meglio che andiate a fare delle esperienze, prima di investire soldi. Sporcatevi le mani, sudate in casa d’altri, vedete come funziona la vita in campagna e decidete se fa per voi o meno: in questo senso, il Wwoof può essere un’ottima opportunità. Poi, se siete ancora convinti che questa sia la vita per voi, tenete sempre nel cassetto un piano B. Siate realisti, perché un progetto può funzionare o meno per i motivi più diversi. Partite in piccolo, non con grossi progetti o grosse cifre. Questo è quello che abbiamo fatto noi e che mi sento di consigliare. Tra l’altro, qui, abbiamo avuto dei ragazzi che hanno fatto esperienze di Workaway o Wwoof. Chi è annoiato dalla vita in città ed è affascinato da quella rurale, ha un’idea molto bucolica di questa realtà: non è così, non è come fare un soggiorno in agriturismo. Bisogna sperimentare, avere voglia di sudare, alzarsi presto e andare a dormire tardi. Personalmente, io sono molto contenta della mia scelta e della mia vita ora.
di Eugenia Gandini
Nata a Milano, cresciuta a Pavia, mi sono trasferita a Torino per frequentare un corso di laurea di cui nessuno ricorda il nome (Scienze strategiche e della sicurezza, nel caso ve lo steste chiedendo). Uso l’autoironia come arma di difesa e mi credo più simpatica di quello che sono in realtà: se le mie battute non sono divertenti, vi prego, non ditemelo, ché mi offendo facilmente. Cerco sempre di vedere il lato positivo in tutto, fino a sfiorare (dicono alcuni) la positività tossica, e mi contraddico facilmente. Un esempio? Ho sempre detto di non volermi sposare, ma su Notion ho già progettato il mio matrimonio e su Pinterest ho una cartella dedicata che aggiorno settimanalmente. Mi piacciono tante (troppe) cose, ma sul podio metterei: la pianificazione e l’organizzazione (anche di questa rivista), Nanni Moretti e le mele gialle (se nella vita i miei progetti falliranno, mi troverete a coltivarle sulle Alpi orientali).