«Poirot era un ometto dall’aspetto straordinario.
Era alto meno di un metro e sessantacinque, ma aveva un portamento molto eretto e dignitoso. La testa era a forma di uovo, costantemente inclinata da un lato. Le labbra erano ornate da un paio di baffi rigidi, da militare. Il suo abbigliamento era inappuntabile. Penso che un granello di polvere gli avrebbe dato più fastidio di una ferita.»1
Grazie alle ripetute descrizioni nei romanzi di Agatha Christie e alla serie di film con David Suchet, l’immagine che ognuno di noi ha di Poirot, nonostante le sue prodigiose celluline grigie, è quella di un personaggio decisamente buffo, a volte quasi grottesco. Eppure, nell’adattamento cinematografico di Assassinio sull’Orient Express del 2017, Poirot ha il volto (e il fisico) di Kenneth Branagh: alto, biondo, occhi blu e un passato di ruoli da “bello” alle spalle, tra cui quello, probabilmente noto a moltǝ nostrǝ lettorǝ, di Gilderoy Allock nel secondo episodio della saga di Harry Potter.
Quindi, sembrerebbe che anche il caro, vecchio Poirot sia stato colpito da un morbo diffusissimo negli adattamenti di opere letterarie per il cinema, ovvero la cosiddetta “adaptational attractiveness” (letteralmente, “attraenza adattativa”, fenomeno che, in questo articolo, verrà citato solo nella sua forma inglese per ovvi motivi di eufonia). In sostanza, questa definizione indica quella pratica, molto comune ad Hollywood e dintorni, che consiste nel rendere molto più avvenenti personaggi altrimenti descritti come di aspetto ordinario, quando non direttamente brutto. Questi glow up di celluloide sono più frequenti nei protagonisti o comunque nelle parti positive, per via di una naturale tendenza alla calocagazia di ogni cantastorie, da Omero in avanti.
Ovvio, di attorǝ bruttǝ al cinema non se ne trovano a migliaia e, poi, non è detto che la loro piacenza influisca sulla qualità della recitazione o sulla loro credibilità in certi ruoli. Certo, però, che, per chi conosce il romanzo, fa molto strano vedere l’Anna Karenina dal «corpo pienotto», dalle «spalle piene e tornite» e «il petto e le braccia arrotondate» incarnata da una Kiera Knightley alla quale si vedono le ossa della schiena, quando volteggia nel suo abito tremendamente non ottocentesco. Allo stesso modo, mi riesce difficile visualizzare il professor Bhaer, «un tedesco qualsiasi, piuttosto grosso, capelli castani incolti, barba cespugliosa, un gran naso, occhi d’una dolcezza unica, bellissima voce, potente e insieme gradevole […]. Abiti spiegazzati, mani grandi e proprio niente di bello nel suo viso a parte i magnifici denti»2, con il volto e la mise impeccabili di Louis Garrel – anche perché è francese, non tedesco. Eppure, il Piccole Donne di Greta Gerwig cerca di farcela andare giù, in parte togliendo tempo e spessore ad un personaggio che, anche per il suo aspetto non convenzionale, è in realtà un motore di grande maturazione per Jo (un’altra bruttina e sgraziata, come tuttǝ sappiamo essere Saoirse Ronan).
Dato che l’industria cinematografica continua ad essere uno degli ambienti che più produce modelli di bellezza, non sarebbe per niente male avere finalmente la conferma che sì, si può essere magrǝ e bellǝ anche sopra la 34, anche senza addominali michelangioleschi, anche senza competere in altezza con i giocatori dell’NBA.
Di adaptational attractiveness la stampa, americana e nostrana, ha nuovamente parlato in merito a due delle miniserie di maggior successo del 2020: La regina degli scacchi e Normal people, entrambe tratte da romanzi (a proposito, consiglio caldamente sia le serie che i libri). Personalmente, eccezion fatta per il cambiamento fiammeo della sua chioma, non trovo la Beth Harmon del piccolo schermo totalmente fuori dai canoni in cui la iscrive il libro di Walter Tevis3: innanzitutto, l’unica descrizione del prodigio degli scacchi ci arriva dal suo stesso punto di vista ed è probabile che Beth sia un po’ troppo ingiusta con il suo aspetto. Inoltre, Anya Taylor-Joy ha una bellezza del tutto particolare, ben lontana dal fascino californiano di alcune sue colleghe, che, secondo me, funziona bene nella trasposizione dalle pagine allo schermo. Ultimo, ma decisamente non da ultimo: che Beth sia bella o meno, ai fini della trama, conta poco e niente.
Diverso è il caso di Marianne Sheridan, la protagonista femminile di Normal people, che dovrebbe essere bruttina e impopolare e invece ha il volto di Daisy Edgar-Jones, che assomiglia molto ad un incrocio tra Dakota Johnson e Anne Hathaway. Quando, alla festa della scuola, uno dei suoi bulli le dice che «non è neanche così brutta, quando fa un c*zzo di sforzo», lo sforzo in questione consiste nel: sostituire la divisa scolastica con un semplice abito nero, disegnare sulle palpebre la più sottile linea di eye-liner che abbia mai visto e tagliarsi un po’ meglio la frangia.
Il momento è piccolo e la serie, la chimica tra i due protagonisti e le loro interpretazioni, secondo il mio modesto parere, valgono decisamente questo piccolo cortocircuito; ma cosa succede, invece, quando il problema è ancora più profondo? Cosa succede quando Tom Ripley, nonostante la sua capacità di impersonare chiunque e di vivere in incognito per anni, riuscendo a passare totalmente inosservato, ha il volto tutt’altro che dimenticabile di Alain Delon? Cosa succede quando parte della personalità di un personaggio è costruita anche sulle insicurezze riguardo al proprio aspetto?
Abbiamo già citato Harry Potter: facciamolo di nuovo, perché Hermione Granger è uno degli esempi più lampanti di adaptational attractiveness, come suggerisce questo video. Quando, nel quarto episodio della fortunata saga, Hermione ha il suo “momento Cenerentola”, come dicono gli anglofoni, presentandosi al Ballo del Ceppo in panni totalmente diversi da quelli in cui tuttǝ sono abituati a vederla, il libro ci dice che Harry, all’inizio, neanche la riconosce4. Solo Krum, lo studente bulgaro e star del Quidditch che l’ha invitata al Ballo, è riuscito a vedere oltre i suoi «tono autoritario, folti capelli bruni e denti davanti piuttosto grandi»5. Nell’adattamento, questa dimensione dei personaggi si perde e lo stupore di Harry sembra un po’ esagerato, rispetto ad una Emma Watson che, di diverso, ha solo l’abito. Il sopracitato video si spinge oltre, evidenziando come, nei film, vengano meno persino le caratteristiche morali meno “attraenti” di Hermione. Progressivamente, la maga perde quei difetti che la rendevano un personaggio in cui era più facile riconoscersi e, pur rimanendo una figura forte a cui ispirarsi, la Hermione di celluloide può sembrare irraggiungibile, rispetto a quella d’inchiostro.
Allo stesso modo, affidare a degli Adoni ruoli già moralmente o intellettualmente impeccabili può finire per disumanizzarli. È già molto difficile raggiungere il livello di sagacia e velocità logica di Sherlock Holmes, ma addirittura scoprire che ha l’aspetto di Henry Cavill… no, questo è troppo. Non si può empatizzare con la perfezione, ogni buon narratore dovrebbe saperlo. (Detto ciò, non mi sto lamentando di avere Henry Cavill in 4K davanti a me quando accendo Netflix. La quarantena c’è stata anche per me, me lo merito).
Bibliografia
- Poirot a Styles Court (The Mysterious Affair at Styles, Agatha Christie, 1929), cap. 2 “Il 16 e il 17 luglio”, trad. D. Fonticoli, ed. Oscar Mondadori 2017
- Piccole donne crescono (Little Women, Louisa May Alcott, 1869), cap. X “Il giornale di Jo”, trad. Fausta Cialente, ed. Giunti Junior 2007
- «A volte, quando Beth si vedeva riflessa nello specchio del bagno delle ragazze tra una lezione e l’altra, con i suoi lisci capelli castani e le spalle strette e la faccia tonda con insulsi occhi marroni e le lentiggini sul ponte del naso, risentiva il vecchio sapore dell’aceto in bocca.» La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit, Walter Tevis, 1983), cap. 3, trad. mia
- «Il suo sguardo invece cadde sulla ragazza al braccio di Krum… e rimase a bocca aperta. Era Hermione. Ma non somigliava affatto a Hermione. Si era fatta qualcosa ai capelli; non erano più cespugliosi, ma lisci e lucenti, e legati in un nodo elegante detro la testa. Indossava un abito di un morbido tessuto blu pervinca, e aveva un portamento in qualche modo diverso […]. Sorrideva, anche – piuttosto nervosamente, a dire il vero – e si notava moltissimo che i denti davanti erano rimpiccioliti.» Harry Potter e il calice di fuoco (Harry Potter and the Goblet of Fire, J.K. Rowling, 2000), cap. 23 “Il Ballo del Ceppo“, trad. Beatrice Masini, ed. Salani Editore 2007
- Harry Potter e la pietra filosofale (Harry Potter and the Philosopher’s Stone, J.K. Rowling, 1997), cap. 6 “Il binario nove e tre quarti”, trad. Marina Astrologo, ed. Salani Editore 2008
di Valentina Oger
Nata a Bologna, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66.