Quando si parla di vita ecosostenibile, molto spesso si pensa solo a cambiare le proprie abitudini in fatto di consumi energetici e di dieta. Tuttavia, non si può ignorare che la terza industria più inquinante al mondo è quella della moda, in particolare della cosiddetta moda fast-fashion: secondo il collettivo studentesco Princeton Student Climate Initiative, questa, in un anno, produce più CO2 di tutti i viaggi aerei internazionali e del commercio marittimo messi insieme.
Innanzitutto, cosa vuol dire “moda fast-fashion”? il termine si riferisce a tutti quei capi prêts-à-porter che vengono prodotti su scala industriale, venduti al dettaglio a prezzi molto bassi e, generalmente, buttati via entro qualche anno, vuoi per la loro deteriorazione dovuta a materiali di dubbia qualità, vuoi per il ciclo delle tendenze, che si sta velocizzando sempre di più. Fino a qualche anno fa, brand come Zara, Bershka, Tally Wejl, Pull&Bear e molti altri cambiavano collezione al massimo due o tre volte per stagione, ma, negli ultimi anni, l’evolversi schizofrenico dei trend ha fatto sì che le leggi di mercato imponessero anche una nuova collezione a settimana.
Questi meccanismi, oltre a creare un’impronta ambientale sempre più grande, esasperano anche altri seri problemi della industria fast-fashion.
1. I costi della produzione
Una delle critiche più frequenti è quella alla pessima qualità dei materiali usati per produrre i capi. C’è un motivo per cui un maglione di cachemire può arrivare a costare anche svariate centinaia di euro e un maglione comprato da Zara non supera generalmente i 30 o 40€.
Tuttavia, dal punto di vista del brand fast-fashion, non vi è nessun interesse nel migliorare la qualità dei propri prodotti, perché la sua intera economia si basa sul consumo vorace dei capi, che vengono indossati per una o due stagioni e poi gettati via, spingendo quindi il consumatore a comprarne altri (possibilmente dello stesso brand).
A parte l’evidente accumulo di rifiuti provocato dalle tonnellate di vestiti che ogni giorno vengono buttati (globalmente i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate all’anno), quest’infografica del Parlamento Europeo spiega in modo chiaro e conciso quanto anche solo realizzare e lavare i nostri capi sia dannoso per l’ambiente. I materiali della fast-fashion, infatti, sono spesso e volentieri derivati della plastica (come il poliestere) e i processi di tintura, finitura e semplice lavaggio rilasciano nei mari 0,5 milioni di tonnellate di microfibre, ovvero il 35% delle microplastiche primarie presenti nell’ambiente. Queste hanno effetti disastrosi sulla fauna e sulla flora marine e, di conseguenza, sulla catena alimentare.
Inoltre, la produzione tessile comporta ogni anno l’uso di circa 79 miliardi di m³ d’acqua, tra quella impiegata nella coltivazione del cotone e di altre fibre e quella necessaria alla produzione vera e propria dei prodotti: questo equivale a circa un ottavo del consumo annuale di acqua in Cina, un Paese con oltre 120 milioni di ettari coltivabili e 1,398 miliardi di abitanti.
Come abbiamo già detto, poi, l’emissione di carbonio dell’industria tessile è pari al 10% di quella mondiale (nel 2017 l’UE ha generato 654kg di emissioni di CO2 per persona) e vengono impiegate fonti d’energia non sostenibili in grandissima quantità, incluso il petrolio.
2. Certe tendenze non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano
Al giorno d’oggi, il consumatore medio compra circa il 60% di vestiti in più rispetto a quindici anni fa: ogni anno, nel mondo vengono acquistate 156 milioni di tonnellate di vestiti. Il triste primato europeo va al Regno Unito, dove ne vengono comprate circa 2 tonnellate ogni minuto.
Di quelli gettati, invece, solo una minima percentuale viene riciclata, mentre la stragrande maggioranza (l’87% nell’UE, l’83% negli Stati Uniti) finisce in discariche o negli inceneritori.
Se masticate l’inglese, vi consiglio la visione di questo video, che espone molto bene quanto la riduzione dei cicli della moda stia diventando dannosa per il nostro pianeta e il ruolo che la globalizzazione e i social media giocano in questo processo.
In che senso “riduzione dei cicli della moda”?
Si sa, nell’abbigliamento tutto torna e le tendenze sono destinate a cambiare e ricambiare, fino a ripetersi inevitabilmente. Fino al secolo scorso, però, queste tendenze duravano, in linea di massima, tra i 20 e i 10 anni e anche la più accanita fashion victim non si vedeva costretta a rifarsi completamente il guardaroba ogni mese. Tuttavia, questi cicli si stanno accorciando sempre di più e, se i gusti generali del pubblico restano più o meno gli stessi per circa cinque anni, stanno emergendo sempre di più dei trend ‘usa e getta’ relativi a singoli capi o stili. Il video usa l’esempio di un vestito che andava molto di moda su TikTok qualche mese fa, ma che ha stufato il suo pubblico dopo poche settimane: considerando che l’abito era di Shein, che, essendo un negozio solo online con fabbriche basate in Cina, ci mette di solito tre settimane circa per spedire i capi ordinati, molte persone si sono ritrovate a gettare l’abito non appena arrivato, perché ormai non era più alla moda.
Se l’esempio è forse un po’ estremo, non si può negare che negli ultimi anni la moda abbia schiacciato sull’acceleratore e che il consumatore sia spinto a comprare sempre più vestiti per essere all’ultimo grido. La più grande spinta in questo senso è forse data dai prezzi della fast-fashion, che si stanno andando a ridurre vertiginosamente.
A questo punto, dovremmo farci tuttə un esame di coscienza: abbiamo veramente bisogno di questi pantaloni visti su Instagram o ne abbiamo già una quantità più che comoda per il nostro uso quotidiano? Ci piacciono davvero o solo perché TV, riviste e social ci bombardano per una o due settimane con lo stesso modello? Soprattutto, quando non andranno più di moda, continueremo ad indossarli (e in questo caso, perché non investire in un modello simile, ma fabbricato con materiali più duraturi?) oppure finiranno in fondo all’armadio, o peggio in una discarica?
3. Etica rapace
Basta dare un’occhiata ai report della no-profit Labour Behind The Label per farsi un’idea di quanto siano inumane le condizioni di lavoro nelle fabbriche della fast-fashion. Secondo Clean Clothes Campaign, del prezzo finale che paghiamo per una maglietta, solo lo 0,6% corrisponde alla paga di chi la ha materialmente creata. Proviamo a fare un semplice calcolo: a giudicare dalla prima pagina della sezione “t-shirt” del loro sito, una maglietta di Shein costa in media 8€. Ne deduciamo che, per una sola maglietta, al lavoratore che l’ha fabbricata andranno 0,048€. Per raggiungere i 10€, cioè quello che in Francia e molti altri Paesi è stabilito essere lo stipendio orario minimo, uno stesso lavoratore dovrebbe fabbricare 208 magliette. Immaginando, poi, che la giornata di lavoro non superi le otto ore (cosa che purtroppo non succede: il debito di tempo che abbiamo con gli sfruttati della Terra è smisurato), il lavoratore dovrebbe produrre in un giorno 1664 magliette, per raggiungere lo stipendio minimo giornaliero francese.
Non è neanche possibile sorvolare il fatto che la gran parte dei lavoratori delle fabbriche tessili sono donne (anche incinte) e bambini. Questo report di Common Objective è agghiacciante: globalmente, 151,6 milioni di minori tra i cinque e i diciassette anni (più quelli sprovvisti di documenti e/o atto di nascita e quindi non rintracciabili statisticamente) sono impiegati nella produzione di vestiario e nel settore calzaturificio, specialmente nelle sue fasi agricole (70%). Gli spettri dello sfruttamento minorile capitalistico che pensavamo di aver lasciato nell’Ottocento ci hanno inseguito e tornano a bussare alle nostre porte. Purtroppo, moltǝ sembrano più inclini ad ignorarli.
Anche dal punto di vista della proprietà intellettuale quello della “moda veloce” non può certo essere definito il migliore dei modelli possibili. Ciclicamente, infatti, sorgono polemiche su plagi e scopiazzature varie di altre marche, magari indipendenti, da parte dei taikun del tessile, che riescono a cavarsela grazie all’inadeguatezza delle leggi riguardo alla proprietà intellettuale nel settore della moda e tramite gli sviluppi della tecnologia produttiva.
4. Non tutto è perduto
Forse, dopo aver letto fino a che punto questa industria sia deplorevole, potreste scoraggiarvi, la prossima volta che dovrete fare compere, nel vedervi circondatǝ da negozi dai prezzi bassi e dalla qualità ancora più bassa.
Tuttavia, non dobbiamo per forza piegarci senza lottare all’egemonia della fast-fashion. Di seguito, mi sono permessa di stilare una breve lista di accorgimenti utili per rallentare il ciclo autodistruttivo del consumismo nell’abbigliamento.
- Resistere agli impulsi. Certo, una gonna carina a 15€ non può che far gola, ma, per limitare la quantità di vestiti che compriamo, può essere utile non acquistare immediatamente tutti i capi che ci piacciono. Ad esempio, quando scorrazzate per le infinite pagine dei negozi on-line, può essere utile creare una wishlist, da lasciare lì per qualche giorno (la stessa cosa si può fare con i negozi fisici, basta fare un giro “di ricognizione” senza portafogli, per non cadere in tentazione). Se dopo una o due settimane ancora ripensate alla gonna che avete visto e avete ancora voglia di prenderla, è probabile che vi piaccia davvero e che non siate cadutǝ vittime dell’ultima tendenza – logicamente, si può dedurre che tenderete ad indossarla ripetutamente e non una o due volte;
- Scoprire l’usato e il vintage. Come abbiamo detto nel paragrafo 2, la moda è ciclica ed è probabile che troviate qualcosa di adatto al vostro stile e alla vita moderna anche nei negozi vintage. I prezzi possono essere a volte un po’ alti, ma è importante ricordare che i materiali con cui i capi venivano prodotti fino agli anni ’80-’90 sono nettamente superiori a quelli odierni, e quei dieci o venti euro in più possono essere considerati come un investimento: una giacca di pelle degli anni ’70, anche se costerà sicuramente di più di quella in saldo da H&M, durerà per tantissimi anni e non dovrete comprarne una sostitutiva ogni volta che cambia il governo. (Dopotutto, è proprio la nostra mentalità che è corrotta: non è il vintage che costa tanto, ma la fast-fashion che costa pochissimo!) Se proprio non vi piace il vintage, poi, app come Depop o Vinted vi permettono di riutilizzare capi dismessi da altrǝ, anche di poche stagioni fa. Il problema delle microplastiche non si risolverebbe, ma almeno potrete evitare che vengano sprecate altre energie per produrre nuove copie di quel capo;
- Supportare artigiani e negozi indipendenti. Specialmente dopo il periodo pandemico, che ha fatto esplodere l’e-commerce più che mai, ve ne saranno grati;
- Imparare, ingegnarsi, innovare. Ridurre gli acquisti è sicuramente importante, ma lo è altrettanto prendersi cura dei capi che già abbiamo. Imparate a cucire e a fare l’orlo, trovate i modi migliori per “salvare” scritte sbiadite o vestiti che non si adattano più al vostro stile, sperimentate con tinture, tagli, modifiche. Addirittura, se vi sentite coraggiosǝ, potreste provare a creare voi stessǝ i capi che volete. L’unica cosa migliore dell’avere una bellissima sciarpa di lana è poter affermare: «sì, esatto, l’ho fatta io!»;
- Essere onestə con se stessə. Ormai l’avrete capito, la cosa più importante è uscire dalla dimensione dell’“avere di più” ed abbracciare quella dell’“avere abbastanza”. Questo non vuol dire privarsi di tutti i piaceri della vita. Non vuol dire neanche che la fast-fashion sia il Male assoluto: ci sono persone che possono permettersi solo i suoi prezzi. Tuttavia, se voi sapete di non far parte di quella categoria (e, nel profondo, so che lo sapete), spero che questo articolo vi possa aiutare a pensare un pochino più a fondo alle conseguenze dei vostri gesti. Come ha saggiamente detto Juliette Binoche al Papa, «acheter, c’est un geste politique».
di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo, un po’ perché ha madre ligure e padre francese, un po’ perché è posseduta dallo spirito di un’ottantenne bisbetica che comincia a chiedere “quando si va a dormire?” alle dieci di sera. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatte e molti dubbi.
Bell’articolo! Se posso aggiungere un consiglio, nel momento in cui decidiamo di fare decluttering, invece di gettare nell’immondizia i vestiti usati, portiamoli in uno dei negozi di brand (come H&M) che ritirano qualunque capo tessile, anche di diversi brand e non solo di abbigliamento, per riciclare i tessuti. Avrete in cambiò un buono utilizzabile, ma soprattutto una coscienza più sollevata