Essere insegnanti nel 1970 VS nel 2021: due generazioni di docenti a confronto
Nella vita, credo sia fondamentale provare a cambiare punto di vista in certe situazioni e, per quanto possa essere un processo complesso, tentare di mettersi nei panni dell’Altro. Il tema scelto per questo editoriale mi ha dato l’occasione di farlo nell’ambito scolastico: fino a questo momento, sono stata una studentessa che siede tra i banchi, ma, dato che posso vantare una piccola stirpe di professoresse nella mia famiglia (sia mia madre che mia nonna hanno svolto questo lavoro, scegliendolo e amandolo), ho voluto raccogliere le loro esperienze e confrontarle. Pur ricoprendo la medesima professione, mi hanno sempre dato delle prospettive diverse nel corso degli anni: i decenni in cui ognuna di loro ha vissuto e lavorato sono stati teatri di grandi cambiamenti in tutta la società ed è interessante vedere quali mutamenti hanno colpito anche l’apparato scolastico. In ogni caso, nonostante il mio simpaticissimo fare da “maestrina” in certe occasioni, sarò colei che spezzerà questa catena lavorativa famigliare, ma credo fermamente che quello del docente sia uno dei lavori più importanti della nostra società. Un sistema educativo che funziona è alla base di un intero apparato sociale che funziona, all’interno del quale vive una popolazione istruita, fornita di strumenti utili per navigare nel mondo e inserirsi adeguatamente all’interno del puzzle che compone una determinata comunità. Purtroppo, siamo ben lontanǝ dall’avere una situazione rosea e promettente da questo punto di vista, ma non ritengo sia questo il luogo per disquisire e criticare le linee d’azione del nostro paese a riguardo. Invece, credo che sia molto interessante in questo articolo, pensato soprattutto per noi studentǝ, approfondire ed ascoltare le testimonianze di chi guarda l’aula da dietro la cattedra, provando a cambiare, anche solo per un attimo, la nostra percezione della dimensione scolastica.
Mia madre è nata nel 1965, è laureata in Filosofia e insegna Lettere alla scuola pubblica secondaria a Pavia.
Mia nonna è nata nel 1932, è laureata in Lettere Antiche e ha insegnato Lettere alla scuola pubblica secondaria a Brescia.
Anche solo guardando le date, possiamo già sottolineare una significativa differenza: mia mamma ha 56 anni e ha davanti a sé ancora 10 anni di servizio, mentre mia nonna in quella fase della sua vita sarebbe andata in pensione dopo 2 anni. Tuttǝ noi (soprattutto giovani) guardiamo alla pensione come un miraggio, e, forse, questa informazione (purtroppo) non ci colpisce come dovrebbe.
Tuttavia, concentrandoci sul parlare del mestiere di insegnare in sé, confrontando le testimonianze di mia madre e di mia nonna è evidente come questa professione si sia trasformata in seguito all’evoluzione della società intera. Può sembrare una curiosità banale, ma a me fa impressione anche solo pensare che mia nonna per gran parte della sua vita lavorativa ha insegnato a classi totalmente femminili (da lei sempre decantate come “le migliori in assoluto”). Inoltre, sono venuta a sapere che esistevano due diversi tipi di scuole medie: quella tradizionale, con cui si accedeva al liceo (dove si studiava già il latino), e quella d’avviamento, dove ci si concentrava su materie pratiche, così accedendo al mercato del lavoro a 14 anni.
All’interno delle mura scolastiche, comunque, ci sono stati cambiamenti di vario tipo, soprattutto se consideriamo il rapporto docente-alunno. Ai tempi di mia nonna, l’insegnante era, nella gerarchia scolastica, l’autorità da seguire con poche contestazioni. Lei sottolinea di essere stata fortunata perché “nelle mie classi prevalevano ragazzǝ di famiglie educate. Nessuno mi ha mai risposto male o mancato di rispetto e ho sempre avuto dei rapporti facili. Secondo me, erano diversi i tempi e diverso era il modo di comportarsi.” Dal suo punto di vista, com’è prevedibile, questi cambiamenti di cui parla non sono stati in positivo (come dice lei: “sono stata insegnante in tempi dove regnava la buona educazione”).
Da quell’epoca, l’approccio si è sicuramente trasformato, non totalmente in modo negativo. Si sono messe in discussione molte dinamiche e gerarchie sociali, che facevano parte della tradizione e portavano con sé meccanismi non sempre positivi. Oggigiorno è vero che, forse, si rischia di toccare l’estremo opposto: non di rado si sentono racconti di professori ai quali sono rivolti comportamenti irrispettosi, volgari o, addirittura, violenti.
Un’altra differenza significativa è l’aumento dell’impegno burocratico a carico del docente e del tempo speso per progetti ed attività di vario tipo, non sempre correlate al programma da svolgere in aula.
“Il tempo dell’insegnante viene sempre più spesso nella stesura di progetti, di relazioni, di compilazione di schemi, mentre quello che invece è il vero lavoro durante l’ora di lezione – perché è lì che passa davvero qualcosa, come sottolinea nelle sue analisi lo psicoanalista Massimo Recalcati – viene tralasciato.” dice mia madre. “Veniamo invitati a fare tantissimi progetti, tabelle, griglie di valutazione o schemi e, alla fine, si ha sempre meno tempo per progettare sul serio quello che si farà la mattina successiva.” Allora, sempre di più e con sempre più sacrifici, sta al singolo docente decidere “se far passare un’ora o mettersi in gioco per un’ora”.
Se facciamo un passo indietro negli anni ‘70, invece, il metodo di insegnamento tradizionale non veniva praticamente mai messo in discussione e in una tipica lezione scolastica la spiegazione del professore andava incontro all’ascolto e alla ricezione delle nozioni da parte degli alunni, senza particolari intoppi.
Se una volta prevaleva un apprendimento di contenuti e conoscenze, adesso, nella scuola dell’obbligo, si calca molto la mano sul saper fare, utilizzando varie metodologie. Molto spesso, però, da noi si rischia di scadere in attività fine a sé stesse.
Quindi, la domanda che viene da farsi è: esiste un approccio preferibile all’altro? Certamente dipende dai punti di vista e dalle credenze personali, ma credo che, come in (quasi) tutti gli aspetti della vita, un equilibrio tra le due opzioni sia la scelta più saggia. Così come credo sia tossico portare avanti un apprendimento passivo puramente nozionistico, ritengo che ci debba essere una solida base di conoscenze di vario tipo prima di procedere a sviluppare progetti multidisciplinari e più creativi, che, comunque, necessitano di un loro spazio, in modo da supportare uno sviluppo quanto più completo dell’individuo.
Nonostante ci sarebbero tantissimi argomenti che vorrei trattare – dal programma di studi delle varie materie al ruolo dei genitori nei confronti del figlio-studente e in relazione al professore – mi accingo a concludere questo articolo.
Parlando di dimensione scolastica e metodi di insegnamento tra il passato e il presente, non mi è potuta non venire in mente la situazione scatenata dall’epidemia di Covid-19, che ha portato tuttǝ noi ad avere a che fare con DAD, verifiche virtuali e piattaforme come Zoom o Weschool.
Quindi, ho chiesto a mia madre cosa pensa che sia cambiato, soprattutto nel rapporto professore-studente, con la pandemia da Coronavirus.
“Da un lato, sono peggiorate le condizioni dell’apprendimento e si è logorato ancora di più il modo con cui i ragazzi imparano. Dall’altra parte, però, ha evidenziato quanto sia importante lo stare in classe, il rapporto con la persona e l’ora di lezione. Credo che ora sia più chiaro a tuttǝ che l’imparare non è un qualcosa per cui servono solamente i libri” risponde. E, per terminare con un po’ di saggezza filosofica, conclude: “Penso spesso a Socrate e al suo metodo: in realtà l’insegnare è una maieutica, è un tirar fuori dalla persona, e non può avvenire senza un dialogo e un rapporto personale.”
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