L’arte pedagogica ai tempi della DAD
Nel 1969 Joseph Beuys affermava “essere un insegnante è la mia più grande opera d’arte”. Mi chiedo che opera d’arte ne salterebbe fuori oggi, nel settembre del 2021, dopo aver trascorso più di un anno a cercare di destreggiarsi dietro allo schermo di un computer per seguire lezioni su Teams, reperire registrazioni introvabili sui vari siti dell’università e sistemare post-it con l’angolazione perfetta per non essere colti a copiare durante i vari esami universitari.
Al di là delle nostre disavventure scolastiche, sarebbe opportuno ripercorrere a grandi linee l’opera di quello che è stato uno degli artisti più innovativi del secolo scorso: Joseph Beuys, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, avvenuta il 12 maggio 1921.
Nato in Germania, si arruola nell’aviazione ai tempi della Seconda guerra mondiale, nel ’43 però l’aereo su cui si trova precipita in Crimea. Lì viene soccorso da un gruppo di nomadi tartari che lo cureranno avvolgendo il suo corpo con grasso animale e coperte di feltro fino a portarlo a una guarigione miracolosa. L’avventura lo segnerà, ovviamente, per tutta la vita e in particolare per quel filone fondamentale della sua arte che riguarda il rapporto tra l’uomo e la natura —non si può non pensare all’opera del 1974 “I like America and America likes me”, in cui l’artista trascorre tre giorni in compagnia di un coyote, ma di questo forse sarebbe opportuno parlare in un’altra occasione.
Dopo aver frequentato la Kunstakademie (la scuola d’arte, per noi profani) di Düsseldorf ne ottiene la cattedra di scultura monumentale. In questi anni si lega al gruppo di artisti che va sotto il nome di “Fluxus”, la cui idea comune era quella opera d’arte totale, che coinvolga ogni aspetto dell’esistenza e sia fruibile da chiunque lo desideri. Fluxus è legato soprattutto al nome di George Maciunas, artista lituano che scrive il manifesto del movimento:
- Purgare. Una liberazione fluida, esagerata, dalle viscere o da altre parti.
- Un movimento continuo, di passaggio, come un ruscello che scorre.
- Un ruscello, un fluire copioso.
- Il fermarsi della marea sulla spiaggia.
Questi sono solo alcuni dei punti che sintetizzano una corrente artistica che intende essere tale nel senso più concreto della parola: l’intera esistenza dell’uomo deve essere incorporata nell’arte e l’arte deve essere resa partecipe della vita di ognuno. E qui non si può non citare le parole dello stesso Beuys per cui “ogni uomo è un artista” (o almeno, ogni studente d’arte).
Torniamo a Joseph. Dopo dieci anni di insegnamento protesta contro l’ammissione a numero chiuso alla Kunstakademie e nell’agosto del ’72 accetta nel suo corso 142 studenti — un professore così al momento del mio test di ammissione all’università avrebbe fatto comodo). Un anno dopo viene espulso dalla scuola. Un’idea fin troppo democratica la sua, che si riesce però a concretizzare nella formazione dell’istituzione “Libera Università Internazionale della Creatività e della Ricerca Interdisciplinare”. Intenzione di Beuys è quella di offrire un programma gratuito, aperto, non competitivo ma soprattutto creativo e onnicomprensivo. Quest’esperienza è preceduta da due conferenze-happening in due giorni consecutivi alla Tate e alla Whitechapel Art Gallery, di cui la prima,“InformationAction”, una maratona di sei ore e mezza, ha come tema centrale l’innata creatività umana e il potenziale potere della democrazia di incidere sulla società.
Il cortocircuito che si crea in queste performances è dovuto al ruolo che assume il pubblico: possiamo chiamarlo classe? Si sta parlando di studenti o di visitatori di una galleria d’arte? Il fatto che gli spettatori partecipino in prima persona all’opera porta a una concezione di arte priva di pubblico, nella quale tutti sono produttori. Un fluire —qui possiamo riprendere proprio il concetto di Fluxus— continuo di creatività che lascia un segno tangibile nelle opere di Beuys chiamate “Lavagne”, i supporti fisici di queste esperienze collettive, in cui il fulcro della corrente creativa diventa il segno lasciato dal gesso.
Vediamo come l’artista per Beuys deve incidere sulla realtà, deve camminare a testa alta e farsi portatore di idee che conducano a un nuovo tipo di arte, più democratico, così come più democratica deve essere la società. “La rivoluzione siamo noi” non a caso è il titolo di una delle opere più celebri dell’artista.
Eppure, ormai, mi chiedo: la rivoluzione possiamo davvero essere noi?
Questo tipo di partecipazione creativa collettiva è stato provocatoriamente come provocatoria è in realtà tutta la sua opera scardinato nel 2000 da un artista che oggi è sulla bocca di tutti, Maurizio Cattelan. Egli riprende il titolo dell’opera di Beuys, senza modificarlo, e gli stessi vestiti da lui indossati: il vestito di feltro è però uscito ristretto dalla lavatrice, appeso ad asciugare, con dentro l’artista altrettanto ristretto, a un attaccapanni.
Trovo quest’opera estremamente avvilente nel suo essere provocatoria e mi chiedo: nel 2021 a che punto ci troviamo? È ancora possibile pensare a un flusso di creatività collettivo ma soprattutto produttivo, che si concretizzi in un’immagine come quella delle “Lavagne”? Se ci trovassimo a fare uno screenshot delle chat con i professori mentre seguiamo lezioni a distanza quale corrente produttiva ne uscirebbe? “Spegnete i microfoni”, “professore non si sente”, “ma le registrazione le carica?”.
Il solo fatto che Cattelan nel 2011 avesse dichiarato “Maurizio has left the building” e quindi il suo ritiro dall’arte ma si sia smentito con le sue opere successive, mi fa pensare che ci sia sempre una nuova possibilità per l’arte di adattarsi ai tempi e che il vero artista sia colui che si inserisce nel fluire del cambiamento per potergli dare nuove direzioni. Rimane solo da chiedersi quali direzioni possa prendere il tipo di arte pedagogica che ho tentato di spiegare brevemente, in un mondo in cui sembra che la didattica sia messa in secondo (ma anche terzo) piano rispetto a quelle che vengono considerate altre priorità.
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