Televisione, buona maestra
Stando ad un’indagine svolta nel 2018 dal CENSIS, un istituto di ricerca socioeconomica romano, nelle case degli italiani si trovano circa 43 milioni di televisioni: significa che esiste un televisore ogni 1,4 abitanti.
Dagli anni ‘50 in poi, più precisamente dal 3 gennaio 1954, giorno della prima trasmissione della RAI, la televisione inizia a diffondersi a macchia d’olio su tutto il territorio italiano. Le trasmissioni duravano poche ore al giorno, iniziavano a mezzogiorno e terminavano verso le 23:00. La “prima” televisione italiana è specialmente strumento di informazione e educazione e solo in piccola parte di “intrattenimento”: ad esempio la pubblicità, che oggi sembra invadere non solo la televisione privata ma anche quella pubblica, comincia a diffondersi in televisione a partire dal 1957 ed era racchiusa in soli 10 minuti di Carosello.
All’inizio degli anni ‘60 la RAI comincia una collaborazione con il Ministero dell’Istruzione: dal novembre 1960 al maggio 1968 viene mandata in onda in pre-serata la trasmissione “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, condotta dall’educatore Alberto Manzi, con l’obiettivo di alfabetizzare e educare gli spettatori. La trasmissione si teneva in orario serale proprio per poter dare la possibilità anche ai lavoratori di seguire le lezioni. Bisogna infatti ricordare che nel 1923 la riforma Gentile aveva sancito l’obbligo scolastico fino ai 14 anni, ma, a conti fatti, questa disposizione rimase inattuata fino all’introduzione della riforma dell’unificazione della scuola media (tra il 1962/63). Il tasso di abbandono scolastico era dunque molto alto, soprattutto nelle periferie delle città e nelle zone più povere del paese. Stando ai dati di uno studio pubblicato nel 1961 dall’Istituto Centrale di Statistica, nel 1959-60, erano sprovvisti di scuole medie inferiori 5.543 comuni, interessanti una popolazione totale di 12.823.339 abitanti; e 2277 comuni, interessanti una popolazione di 5.454.027 abitanti, erano addirittura sprovvisti di scuole di completamento dell’obbligo (cioè le cosiddette Scuole di Avviamento al Lavoro e affini). Va da sé che la mancanza di strutture pubbliche e la necessità delle famiglie di avere introiti favorivano l’abbandono scolastico.
È in questo contesto socioculturale che dobbiamo collocare la trasmissione condotta da Alberto Manzi: una popolazione in grande crescita, con un alto tasso di analfabetismo ma con un nuovo e potente mezzo di comunicazione di massa: la televisione.
Manzi si serviva di un grande blocco di carta poggiato su un cavalletto; poi, con un carboncino, scriveva parole e lettere accompagnate da disegni illustrativi. Il successo di questa trasmissione e del metodo usato da Manzi è testimoniato dalle numerosissime imitazioni (sono settantadue i paesi che dagli anni Sessanta in poi hanno imitato il format di “Non è mai troppo tardi”) e dal fatto che circa un milione e mezzo di persone in Italia sia riuscito a conseguire la licenza elementare grazie al lavoro di Manzi.
In questi anni la RAI inizia la produzione di grandi sceneggiati di altissimo livello, tra cui I Miserabili, Cime Tempestose, Piccole Donne, I Promessi Sposi e tanti altri, che testimoniano una delle pagine più felici e floride della produzione televisiva italiana. L’autore e regista televisivo Giuseppe Sansonna racconta di «come sugli schermi domestici, ogni sera, le epoche storiche si intrecciavano, l’alta letteratura si lasciava contaminare dal romanzo d’appendice, il teatro classico si mescolava all’avanguardia più estrema […] Era un’Italia ancora semianalfabeta che, di colpo, si ritrovò costretta a una salutare terapia d’urto, scervellandosi sui sofismi pirandelliani, calandosi negli inferni domestici di casa Strindberg, o misurandosi con l’ironia sottile di Cechov. L’adesione di pubblico era spesso plebiscitaria, accostabile al successo della nazionale di calcio o di una serata sanremese.»
I primi grandi sceneggiati andavano in onda in diretta, e per minimizzare il rischio della diretta venivano scelti i migliori attori teatrali, gli unici in grado di portare in scena testi classici di filato senza nemmeno un’interruzione. Regola fondamentale e imprescindibile era garantire un prodotto di ottima qualità.
Durante gli anni ‘70 la RAI si occupa anche di divulgazione scientifica. Ne è un esempio Sapere, uno dei primi esperimenti di televisione divulgativa, una sorta di “antenato” di Quark – Viaggi nel mondo della scienza, rubrica scientifica di Piero Angela, che rappresenta la trasmissione scientifica più longeva e di maggiore successo della tv italiana. Sapere andava in onda nella fascia preserale, dalle 19.15, prima del telegiornale. Si rivolgeva ad un pubblico di livello culturale medio alto, con puntate monotematiche dalla finalità didattica e dalla durata variabile da 30 a 45 minuti. La scelta di questa fascia oraria aveva probabilmente l’intento di catturare l’attenzione di una maggiore audience, in attesa dell’inizio del telegiornale serale.
Citando il giornalista Aldo Grasso, Sapere “ha avuto un’importanza capitale nell’ambito dei programmi televisivi di divulgazione scientifica. L’obiettivo pedagogico e didattico della rubrica è esplicito: la televisione si fa carico di istruire la massa, di fornirle non ciò che vuole, ma ciò di cui ha bisogno, avvicinando il grande pubblico alla cultura e alla scienza visti come strumento di emancipazione”.
Il metodo scelto nel programma era l’alternanza di filmati in stile documentaristico a interviste con scienziati e domande a persone comuni. La caratteristica principale di Sapere è il linguaggio: ogni puntata inizia con un’inchiesta alla gente comune, di ceto solitamente medio-basso, dotata di un registro linguistico molto semplice e inframezzato da espressioni dialettali. Le informazioni raccolte “per strada” vengono poi confermate o sfatate dall’intervento di scienziati, specialisti e studiosi, la vera fonte delle nozioni che Sapere vuole trasmettere. Non vengono usati termini eccessivamente ampollosi o complicati, proprio perché ci si trova di fronte a una massa di spettatori ancora da “formare”, da educare, e non a un gruppo di intellettuali che ricercano nella trasmissione un approfondimento specializzato. La forza del programma sta nell’approccio verso un pubblico che ancora non conosce bene il linguaggio televisivo e le sue potenzialità pedagogiche. Nell’età della scarsità (dal Dopoguerra fino alla fine degli Anni Settanta), il mezzo televisivo in Italia ha effetti molto forti sul piano sociale: è considerato strumento di unificazione e modernizzazione linguistica, data la presenza all’epoca ancora molto diffusa dei dialetti rispetto all’italiano.
Dopo questa breve analisi riguardo la funzione educativa della televisione durante gli anni ‘60 e ‘70 penso sia lecito chiedersi che fine abbia fatto oggi la “TV buona maestra”. La funzione educatrice della televisione, infatti, sembra lasciare il passo sempre più velocemente ad una televisione trash, povera di contenuti culturali ma capace di attirare un pubblico che sembra richiede una sempre maggiore leggerezza per evadere la quotidianità.
Verrebbe anche da chiedersi se l’abbassamento culturale delle proposte televisive sia la conseguenza di una scolarizzazione accessibile per la quasi totalità degli italiani e delle italiane, ma riteniamo che questo punto meriti ulteriori e più precisi approfondimenti. Per questo, cari lettori… stay tuned!
di Anna Cosentini e Vittoria Tosatto
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