Normale amministrazione
Provo fastidio quindi sono. Se dovessimo pensare ad una formula per riassumere il contenuto dell’articolo di Claudio Giunta, pubblicato su Il Post e in seguito sul suo blog personale in reazione al discorso di laurea di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, tre rappresentanti del corso di laurea di Lettere presso l’Università Normale di Pisa, lo riassumeremmo così. Una frase che pare uscita dalla bocca di Cioran.
Ripercorriamo i fatti: il 22 luglio scorso, in occasione della consegna dei diplomi di laurea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, le tre rappresentanti della Classe di Lettere 2021 hanno mosso una dura critica ai meccanismi del loro ateneo e dell’università italiana tutta.
Il discorso, disponibile integralmente a questo link o qui in trascrizione, si articolava intorno ad una serie di punti, prima fra tutti la trasformazione in senso neoliberale dell’università italiana, in atto da quasi una quindicina d’anni. Un’università-azienda, così la definiscono, che non fa altro che sottomettere la ricerca scientifica alle logiche di profitto e che non solo non cerca di diminuire le disuguaglianze sociali e territoriali presenti in questo campo (come in molti altri), ma addirittura le esaspera. In particolare, poi, Magnaghi, Spacciante e Grossi, dati alla mano, evidenziano i costanti finanziamenti e aiuti alla Normale e ad altri “poli di eccellenza”, mentre il resto degli atenei italiani affronta una mancanza di sostegno economico e di personale qualificato sempre più critica.
“In questo contesto, noi, i cosiddetti eccellenti, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto?”
L’attacco diventa poi più specifico alla Scuola Normale e al suo corpo docente, che “non è senza colpe”. Nel corso degli anni, le laureande sottolineano come la Scuola si sia chiusa nella sua torre d’avorio, tagliando i rapporti con gli altri atenei — in particolare con l’Università di Pisa — e soprattutto prendendo sempre meno parte al dibattito pubblico, escludendo dalle sue aule la conversazione intellettuale su quello che stava succedendo al di fuori di esse. Ma non è proprio uno degli obiettivi dell’istruzione di alto livello dare gli strumenti per analizzare la società e mettere in discussione costantemente la propria materia di studio? E non sono proprio i cosiddetti “eccellenti”, la “crème de la crème” della cultura italiana, i più indicati per catalizzare, commentare e finanche indirizzare il dibattito pubblico? “Perché l’impegno nel dibattito pubblico, lo schieramento aperto a favore o contro precise scelte politiche, è considerato una macchia di cui l’accademico di oggi non deve sporcarsi?”
Nell’ultima parte del discorso, parlando della propria esperienza personale di normaliste, Magnaghi, Spacciante e Grossi criticano la riproduzione di queste logiche sistemiche da parte dello stesso corpo docente della Normale, prima fra tutte la spinta alla competitività estrema, senza riguardo per gli effetti psicologici che questa può avere sugli studenti, né con una volontà di provare metodi accademicamente più efficaci, come la collaborazione, al posto di una continua lotta per dimostrare “di sentir[si]all’altezza del posto che [hanno] vinto”.
“La nostra selezione in base al merito e l’intreccio tra didattica e ricerca sono due tra i principi basilari del “modello-Normale”. Nei fatti, tuttavia, troppo spesso questi principi si traducono nella retorica del merito e del talento come alibi per generare una competizione malsana e per deresponsabilizzare il corpo docente: per il semplice fatto di aver superato una selezione, dovremmo essere in grado di navigare da soli attraverso il complesso sistema accademico.” Un accenno viene fatto anche al divario di genere, sia nell’accesso alla carriera accademica (i cui ritmi sono spesso inconciliabili con la volontà di avere una famiglia, vista la disparità ancora immensa nella distribuzione delle mansioni familiari in Italia), sia nella mancanza di sensibilizzazione – e sensibilità – nei confronti di studentesse e docenti madri o incinte, o riguardo al fenomeno comunemente chiamato catcalling.
Claudio Giunta parla di insofferenza dinanzi alle parole delle tre giovani, connotate come superficiali ripetizioni di fenomeni già noti. Le tre sono pappagalli che ripetono la solita solfa che bolle nel pentolone della critica al neoliberismo. È il mancato ancoramento all’esperienza personale, che il professore anche altrove, come ad esempio nel suo libro Come (non) scrivere, considera elemento fondamentale per raggiungere una verità degna di essere espressa, che manca. Non un’esperienza qualsiasi ma una profonda, che avviene quando l’individuo è dotato di sufficienti strumenti critici per comprenderla e analizzarla. Insomma ci sono esperienze più vere ed esperienze meno vere, e dunque esperienze più valide e meritevoli di essere espresse ed altre che lo sono meno. Verrebbe da chiedersi, in una sorta di esperimento mentale provocatorio e iperbolico, se le esperienze delle popolazioni indigene che in varie parti del mondo e in vari periodi storici sono state schiavizzate o sterminate siano meno valide e degne di essere raccontate perché queste non avevano gli strumenti critici e razionali (in quanto la ragione è prerogativa dell’Occidente) per esprimere qualcosa che valesse la pena di essere raccontato. D’accordo, supponiamo, con esagerazione, che tutte le parole delle tre neolaureate fossero ripetizione trita e ritrita di concetti che sono stati espressi in maniera puramente performativa. Ma perché scegliere questo grido di aiuto, questo pianto, in uno dei giorni che dovrebbero essere tra i più felici della vita? Riallacciandosi a ciò che dicevamo all’inizio circa l’origine della verità che Giunta colloca, in maniera tipicamente postmoderna, nell’individuo, possiamo concludere che il viaggio delle tre ragazze sia stato pieno di dolore e ingiustizia e che il loro tentativo è quello, innanzitutto, di esprimere questa sofferenza, la cui origine loro ritengono sia anche e soprattutto strutturale e sia insita nelle modalità di organizzazione e funzionamento dell’Università italiana.
È una postura filologica, quella di Giunta, che rifiuta di raggruppare tutti i problemi dell’istruzione universitaria sotto l’etichetta di “neoliberismo” e vorrebbe che il problema venisse scomposto nelle sue cause e relazioni, per ottenere una prospettiva più profonda e onnicomprensiva. È un’odiosa postura filologica soprattutto perché non smette mai di essere tale e si preclude l’empatia. Pare che il professore si concentri su tutte le lacune di contestualizzazione che presenta il discorso delle tre giovani e si dimentichi l’aspetto più importante, quello comunicativo implicito. È una postura filologica cieca, che leggerebbe le Satire di Ariosto gioendo per l’agilità dell’intelletto o la vivacità compositiva che dimostrano e non scorgendovi dietro l’uomo estremamente frustrato dalla vita che si dà ad un divertissement solipsistico; è una postura filologica sorda che vede il successo e ignora il dolore, che sembra aver dimenticato, se mai li ha letti, i drammi di Beckett e Brecht, o, risalendo ancora più indietro, di Shakespeare.
E non è una postura che appartiene solo a Claudio Giunta. Tutto il mondo delle Humanities è travolto dalla necessità di dare un senso a se stesso e agli altri, di dimostrarsi degno di stare tra le discipline scientifiche, cioè in un senso più ampio tra le discipline che fanno progredire, estendono, aumentano il sapere dell’uomo, su un’asse atomistico-universalistico.
Nel suo articolo per Il Post l’ex normalista esordisce dicendo di voler capire, anzitutto per se stesso. Ma tutto il corpo del testo sembra dedicato, invece, a voler proteggere se stesso e nascondersi da una verità che scuoterebbe l’esistenza sua e di molti altri, sin dalle fondamenta. Giunta ha paura di ammettere a se stesso che quel dolore, quella frustrazione, quella fatica, che lui tanto quanto le tre ragazze hanno provato durante il loro corso di studi, sia stato in poca o molta parte iniquo, ingiusto, ingiustificato, ingiustificabile. Ha il terrore di rimettersi in gioco sul piano dell’identità poiché la narrativa che ha costruito intorno al suo dolore, quella che poi è l’immagine che ognuno ha della sua vita, potrebbe crollare. La sua chiusura è totale, stizzita. Le ragazze “sapevano a cosa andavamo incontro”, sono delle privilegiate, conoscevano il mondo in cui si addentravano. Insomma hanno voluto la bicicletta e ora devono pedalare.
Forse sta qui la differenza tra giovinezza e vecchiaia, non certo nell’età anagrafica. È la capacità di provare fastidio e di parlarne, di gridare, di singhiozzare, di chiedersi e di chiedere, alzando la testa o singhiozzando dalla rabbia, il perché. Non il come, non il quando, non il dove, ma il perché. Giunta è vecchio, il suo interrogarsi circa lo status-quo assume una fisionomia didascalico-giornalistica, è interessato a “capire la realtà” invece di metterla in discussione. Non ha, comprensibilmente, le energie né la volontà, arrivato ad una posizione stabile, forse invidiabile, della sua vita, di mettere in discussione il sistema che l’ha portato dove è, preferisce salvaguardarlo e salvare così anche se stesso. Egli prova il fastidio del vecchio che vorrebbe solo essere lasciato tranquillo alle sue attività, il fastidio di un vecchio privilegiato. Perché invecchiare è sempre un privilegio, il privilegio di non dover più combattere per sopravvivere, di temere la morte come fine e non come presente e immanente.
Per quanto possa sembrare inutile, o peggio, facile, ridurre il dibattito ad una mera questione generazionale, la questione è sollevata da Giunta stesso: egli esordisce nominando la “poca considerazione che h[a] per le opinioni dei più giovani quando queste opinioni riguardano aspetti della vita associata della quale per forza di cose essi non hanno ancora un’esperienza sufficientemente ampia e varia” e prosegue comparando l’esperienza di Magnaghi, Spacciante e Grossi a quella di un utente di una pompa di benzina, il quale, solo in virtù della sua utenza, non ha generalmente opinioni particolarmente profonde sull’industria petrolifera. Il ragionamento ci sembra particolarmente fallace, se non altro perché sembra ignorare le logiche di un sistema che lui stesso ha sperimentato (la SNS di Pisa, nota per la sua unione di didattica e ricerca), per assimilarle ad uno completamente differente: uno studente universitario, specialmente uno studente della Normale, non è un semplice “utente” dell’università, ma ne è una parte attiva ed indispensabile e di conseguenza ha sperimentato i meccanismi universitari tanto quanto un professore o un ricercatore. Inoltre, le laureande non hanno la presunzione, nel loro discorso, di dispensare divina e assoluta verità sullo stato delle cose dell’università italiana, bensì cercano di analizzare problemi strutturali che hanno già avuto occasione di osservare nel loro (breve) percorso universitario, dal loro (limitato?) punto di vista, secondo la loro personale visione. Intendere che solo un’élite nell’élite, quella dei docenti e ricercatori già stabilizzatisi nell’ambiente lavorativo, possa permettersi di criticare lo stesso, o meglio di constatare delle criticità, senza per questo proporre soluzioni, è alquanto ridicola e sì, privilegiata, questa parola che tanto sembra urtare le sue incarnazioni sociali. Come scrive la professoressa Roxanne Gay nella sua collezione di saggi Bad Feminist, il privilegio non è una colpa e sentirsi dare del “privilegiato” non è un insulto. Il problema sorge se si approfitta del proprio privilegio, consapevolmente o inconsapevolmente, senza pensare che esso ha bisogno di un termine di paragone: non c’è oppressore senza oppresso e, come scrivevamo sopra, è incredibilmente miope rifiutarsi di ascoltare l’altro lato della barricata. Non c’è citazione erudita che tenga: il bias esplicitato di Giunta è ingiustificabile e inaccettabile, in un Paese che continua a non ascoltare i giovani, nonostante questa e tante altre richieste d’aiuto a gran voce, ma anzi addossa loro il maggior numero di colpe possibili, dalla diffusione della pandemia alla diminuzione dei tassi di occupazione.
Sul punto in cui il saggista rifiuta l’etichetta del neoliberismo applicata all’università italiana non ci sembra il caso di dilungarci troppo, considerato che lui stesso cita una serie di conseguenze proprie di un sistema neoliberista. Basti ricordare che sotto un sistema economico capitalista è molto difficile, per non dire impossibile, che anche i luoghi istituzionali della cultura non siano asserviti alle stesse logiche, soprattutto quando si parla di organizzazione e finanziamenti di tali luoghi.
Più interessante è la parte finale dell’articolo, quella riassunta supra con “hai voluto la bicicletta, ora impara a pedalare”, quella della retorica dell’eccellenza e di tutte le questioni tangenti ad essa. In primo luogo, non possiamo accettare l’equivalenza che Giunta propone tra avere l’occasione di studiare in scuole eccellenti e il sentirsi eccellenti; questo vale per ogni ordine e grado, ma specialmente per un’università che presuppone un livello culturale altissimo già prima dell’ammissione. Ancora una volta torniamo al cuore pulsante del discorso, cioè al privilegio, in una forma troppo poco spesso citata. Potremmo chiamarlo “privilegio culturale”: ci riferiamo all’enorme divario culturale ed intellettuale che si trova tra scuole del Nord e scuole del Sud, ad esempio, ma anche tra scuole private e scuole pubbliche, tra scuole di quartieri benestanti e di quartieri poveri, tra scuole di provincia e di città, etc. Anche solo per essere ammessi alla Scuola Normale Superiore bisogna avere una cultura derivata dalla migliore istruzione possibile, ma anche un bagaglio personale che, nella stragrande maggioranza dei casi, deriva da una situazione socio-economica benestante. Perciò, è facile comprendere come, senza nulla togliere alle ragazze e ai ragazzi che riescono ad ottenere il posto alla Normale, il discorso meritocratico mostri già le sue debolezze. Solo qualcuno di particolarmente cieco al proprio privilegio di nascita potrebbe vedere l’ammissione in una scuola del genere come una dimostrazione della propria, singolare eccellenza, della potenza della propria mente sopraffina, della propria superiorità nei confronti del vulgus humilium.
Che Magnaghi, Spacciante e Grossi (noterete in questo articolo la ripetizione dei loro nomi, che invece Giunta non cita nemmeno una volta, come da pratica disumanizzante ben troppo diffusa nei media italiani e, ahinoi, quasi sempre applicata alle donne) chiedano un cambiamento – a nostro avviso neanche troppo radicale – delle meccaniche cannibali della Normale, ci sembra legittimo, mentre la critica giuntiana ci pare contraddittoria: prima bisogna parlare solo di quello che si conosce, poi non si può criticare il sistema dentro al quale si è vissuti per cinque anni? Forse qui torna in gioco il pregiudizio generazionale, altrimenti non vediamo perché le obiezioni delle laureande siano così inconcepibili. L’aut-aut che Giunta dà a loro e ai futuri normaliste e normalisti pare ingiusto: o tutto (i grandissimi privilegi, ma anche la pressione insostenibile e i rischi per la salute psicofisica) o niente, lasciate il posto ad altri. Perché? Perché invece non accogliere il confronto e il dibattito costruttivo, per creare un ambiente che mantenga i suoi pregi, ma permetta ai suoi studenti di vivere più serenamente? Forse per una strana forma di sindrome di Stoccolma, o forse perché si ha paura di perdere i propri privilegi classisti e generazionali.
L’ultimo paragrafo della riflessione di Giunta, però, è forse il più critico, perché rigetta duecento anni di cultura dell’intellettuale impegnato (Zola, Camus, Shelley e Eco stanno tremando nelle loro tombe). A noi, autori di una rivista che ha come principio fondante e obiettivo cardine l’intersezione tra l’academìa e il pop, tra l’aula e la società, l’idea di una cultura assoluta dal presente, fatta solo di ricerca perita e filologia stantia, non può che far tornare alla mente Eliot e i suoi uomini vacui, la sua terra desolata e inaridita. Lo dice l’etimologia stessa, si ringrazia Treccani: cultura s. f. [dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare»]. La cultura, così come una piantina dev’essere irrorata dalla luce e dall’acqua, ha bisogno di essere esposta alla contemporaneità e ai problemi che la animano, così da produrre semi fertili per far crescere folte foreste intellettuali. La persona di cultura che si chiude nel suo studiolo e si limita a perdere diottrie sulle leopardiane sudate carte non è, di fatto, nient’altro che un pessimo giardiniere.
di Nikolin Lasku, Valentina Oger e Alessandro Orlandi
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