«Non si può non comunicare» è uno dei mantra che risuona nelle aule del corso di Scienze della Comunicazione, nonché il primo assioma della comunicazione, teorizzato dalla scuola di Palo Alto. A lezione ci hanno ripetuto questa frase decine e decine di volte. Ad ogni corso. A forza di sentirla ripetere, ci illudiamo che alla fine la comunicazione sia qualcosa di estremamente naturale e facilmente realizzabile. Ma è davvero così? Comunichiamo ogni istante, con sistemi comunicativi diversi: le mani, il corpo, le parole…ma riusciamo davvero a farci capire? Riusciamo sempre a trasmettere all’altro le nostre intenzioni?
Nonostante la comunicazione e il dialogo si possano realizzare in moltissime forme, il più delle volte sfociano nel fraintendimento o in una non-comunicazione.
Uno degli autori che, nei suoi romanzi, ha raccontato la comunicazione in tutte le sue forme è Calvino, che si è concentrato soprattutto su quelle relazioni, quelle situazioni, in cui la comunicazione non avviene o risulta fallimentare.
Scorrendo le pagine de Gli amori difficili, una raccolta di quindici racconti pubblicata nel 1970, ci imbattiamo nelle “avventure” di svariati personaggi: un fotografo, un impiegato, un automobilista, una bagnante…
Il filo che unisce i personaggi di ogni racconto è la difficoltà di riuscire a comunicare: gli amori che vivono sono amori incompleti, mai realmente cominciati e sicuramente destinati a non finire. Ogni personaggio è imprigionato in una spirale di silenzio, isolato dal resto del mondo e incapace di realizzare se stesso. Non a caso, ogni racconto è intitolato “L’avventura di…”, con un aggettivo o un nome che identifica il protagonista. Definendo ogni storia “un’avventura”, Calvino sottolinea il tentativo rocambolesco, a volte patetico e spesso rassegnato, di ogni personaggio di comunicare il proprio amore. Ogni avventura racconta un amore mai realizzato e, soprattutto, non realizzabile.
Le coppie dei racconti spesso non s’incontrano e non si trovano, il loro amore rimane sospeso in una dimensione di eterno presente, destinato a non esaurirsi e a non realizzarsi.
Ne L’avventura di un miope, Amilcare Carruga, protagonista del racconto, si accorge di non riuscire a vedere più i dettagli. Tutto ciò che incontra gli sembra scolorito e poco interessante. In seguito a una visita dall’oculista, scopre di essere miope e di dover indossare gli occhiali. Una volta indossata la montatura, torna a vedere i colori accesi e i contorni più nitidi. La realtà così torna ad essere attraente e Amilcare torna a distinguere ogni dettaglio. Soprattutto la notte riesce a riconoscere ogni luce, ogni oggetto. Nasce quindi in lui il desiderio di osservare ogni cosa che incontra, ma presto il desiderio si trasforma in un senso d’insoddisfazione costante. In un primo momento indossare gli occhiali rappresenta per lui l’inizio di una nuova vita: sceglie con cura la montatura, quella che più lo rappresenta, e il colore, perché d’ora in avanti sarà “uno con gli occhiali”. Tuttavia, in breve tempo, guardandosi allo specchio non si riconosce più: gli occhiali non si adattano al suo volto e inizia ad indossarli solo occasionalmente. Amilcare attribuisce agli occhiali la capacità di cambiarlo: con gli occhiali è una persona, senza diventa un’altra. È solamente quando dovrà tornare nella sua città natale che Amilcare si renderà conto che gli occhiali, da una parte, gli permettono di vedere le cose e riconoscere le persone, dall’altra gli impediscono di essere riconosciuto. È proprio lì che abita Isa Maria Bietti, la ragazza di cui lui era innamorato. Passeggiando per le strade della città, inizia a salutare vecchi conoscenti ma si rende conto che nessuno lo riconosce, compresa Isa Maria. Amilcare cerca d’inseguirla per le strade della città senza indossare gli occhiali. Iniziano a riconoscerlo e a salutarlo, ma lui senza occhiali non distingue nessuno. Continua a cercare Isa Maria tra la folla, credendo di trovarla in ogni cappotto rosso, senza riconoscerla mai.
Amilcare non riesce in nessun modo a mettersi in contatto con il mondo: quando riesce a vederlo nitidamente e ad apprezzarlo grazie agli occhiali, il mondo non riconosce lui. Al contrario, quando è senza occhiali non riesce ad entrare in contatto con la realtà, perché non riesce a distinguere le entità che lo compongono. La ricerca di Isa Maria è destinata a non concludersi. L’amore che prova per lei si perde in mezzo alla folla. Amilcare non solo non riesce a comunicare con Isa Maria, ma ormai non ha più alcun contatto con la realtà. È diventata una monade, incapace di comunicare e d’intendere gli altri. Ogni incontro si traduce in un fallimento.
Una continua ricerca dell’altro lega anche i personaggi de L’avventura di due sposi. Arturo Massolari ed Elide sono una coppia di giovani sposi. Lui lavora di notte e il suo turno finisce alle 6, Elide invece lavora di giorno. Quando Arturo rientra a casa una volta finito il turno, Elide ancora dorme. Spesso la lascia riposare, altre volte la sveglia con una tazzina di caffè. Ma il tempo che può passare con Elide è pochissimo, il tempo di un rapido saluto prima che lei vada al lavoro. I due sposi si amano ma non possono condividere il loro amore a causa del loro lavoro. La loro storia è un inseguirsi senza raggiungersi, come il sole con la luna. L’unico punto di contatto tra i due è il loro letto matrimoniale, nel quale non possono dormire insieme ma ognuno, in tempi differenti, percepisce il calore dell’altro:
«Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.» (Calvino, I., Gli amori difficili, Milano Mondadori, 1990, 4ª edizione, pag. 113)
La loro relazione si basa sulla mancanza e sull’assenza dell’altro. La loro ricerca è destinata a fallire, come quella di Amilcare. I due innamorati continueranno a condurre vite separate, sperando di ritrovare il calore dell’altro. Calvino racconta l’avventura di Elide e Arturo con tristezza e malinconia. Ancora una volta la possibilità di comunicare con l’altro è ridotta a zero.
È fallimentare anche il tentativo di Antonino Paraggi che, ne L’avventura di un fotografo, si avvicina alla fotografia così da avere un argomento di conversazione con i suoi amici, tutti esperti in materia. La fotografia, che avrebbe dovuto essere un motivo d’inclusione, presto si trasforma nella causa del suo isolamento. Antonino inizia a fotografare ogni cosa che vede fino a quando non incontra Bice, della quale s’innamora e che diventa la sua unica fonte d’ispirazione.
«Antonino continuava a scattare foto di lei che si districava dal sonno, di lei che si adirava con lui, di lei che cercava inutilmente di ritrovare il sonno affondando il viso nel cuscino, di lei che si riconciliava, di lei che riconosceva come atti d’amore queste violenze fotografiche.» (IVI, pag 53)
Bice continua ad essere fotografata in ogni momento, fino a quando, ormai stanca, decide d’interrompere la sua relazione con Antonino. Abbandonato da Bice, Antonino cade in depressione.
«Antonino cadde in una crisi depressiva. Cominciò a tenere un diario: fotografico, s'intende. Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l'assenza di Bice. […].» (IVI, pag 56)
Ritorna l’assenza della persona amata. Come ne L’avventura di un miope, la mancanza dell’altro si trasforma in movimento, in una ricerca costante. L’atto di fotografare diventa ancora più compulsivo e orientato verso il nulla, privo di scopo. Antonino fotografa incessantemente il vuoto per riempire il suo vuoto.
Il racconto di Calvino narra l’incomunicabilità in un duplice significato: l’impossibilità di un dialogo tra Bice e Antonino ma anche il valore comunicativo, (o meglio non comunicativo) delle immagini. Antonino, infatti, ormai stanco di fotografare il vuoto, inizia a fotografare le fotografie che ha scattato negli anni:
«Per fare entrare tutto questo in una fotografia occorreva conquistare un'abilità tecnica straordinaria, ma solo allora Antonino avrebbe potuto smettere di fotografare. Esaurite tutte le possibilità, nel momento in cui il cerchio si chiudeva su se stesso, Antonino capì che fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora.» (IVI, pag 57)
Servono davvero tutte queste fotografie? E le fotografie delle fotografie? Cosa vogliono dirci? Ma, soprattutto, vogliono dire qualcosa? L’iper-comunicazione, verbale e visiva, sfocia, quasi inevitabilmente, in una mancanza di comunicazione. La sovrapproduzione d’immagini è un tema caro a Calvino e affrontato anche ne Le lezioni americane (1988). Calvino temeva che tutti questi stimoli visivi avrebbero portato a un’atrofizzazione dell’immaginazione (e ai suoi tempi ancora non c’era Instagram!). L’argomento è più che mai attuale, basti pensare alle Stories: chi non ha mai postato una foto delle patatine del McDonald, o di fronte al Colosseo? Scorrendo su Instagram, o su un qualsiasi altro social che prevede la condivisione di video o immagini, ci imbattiamo sempre nelle stesse tipologie d’immagini (spesso proprio la stessa foto postata da più utenti). Nel 2005 Corinne Vionnet ha realizzato il progetto Photo Opportunities, nel quale ha raccolto dalla rete migliaia di foto che i turisti hanno scattato ad alcuni dei monumenti più famosi ponendole successivamente l’una sull’altra: le immagini si sovrapponevano in maniera quasi perfetta. Vionnet ci vuole dire che ci sono miliardi e miliardi di fotografie praticamente identiche. Perché fotografiamo tutti la stessa cosa? perché fotografiamo qualcosa che già è stato fotografato da altri?
Un progetto analogo è stato portato avanti da Erik Kessels nella mostra Photography in Abundance (2011). L’artista ha sparso a terra circa un milione e mezzo di foto. In mezzo alle altre il valore di ogni singola foto si perde. Succede lo stesso quando scrolliamo la home di Instagram?
Tornando a Gli amori difficili, l’ultimo racconto, L’avventura di un automobilista, è, a mio parere, il più emblematico, quello che più rappresenta l’idea d’incomunicabilità. Il protagonista, per tutto il racconto, si trova in macchina. In realtà non accade nulla: ogni evento è solo immaginato dall’automobilista ed espresso attraverso un flusso di pensieri. I personaggi non hanno nome, come i luoghi; sono indicati da lettere. L’automobilista sta andando da A a B per raggiungere la sua fidanzata, con cui ha litigato. La ragazza, Y, è contesa tra due pretendenti, l’automobilista e Z. L’automobilista ha paura che, in seguito al loro litigio, Y abbia chiamato Z. Preso da un attacco di gelosia e desideroso di chiarire con Y, si mette in macchina e percorre a tutta velocità la strada che porta a B. Durante il percorso si affolla nella sua mente una miriade di pensieri contrastanti: crede che Z stia andando da Y e ogni macchina che supera o da cui è superato, potrebbe essere il possibile rivale, ma è notte e non riesce a distinguere chi si trova al volante delle auto. Inizia così a pensare che come lui sta andando verso Y, anche Y stia correndo verso di lui, così come ogni macchina che incontra e che va nel verso contrario si trasformano nella sua amata. Si accorge così che il suo desiderio non è trovare Y, ma:
«più vado avanti più mi rendo conto che il momento dell’arrivo non è il vero fine della mia corsa. Il nostro incontro, con tutti i particolari inessenziali che la scena di un incontro comporta, la minuta rete di sensazioni e significati e ricordi che mi si dispiegherebbe davanti(…) e le cose che direi, alcune delle quali di sicuro sbagliate o equivocabili, e le cose lei direbbe, in qualche misura certamente stonate o non quelle comunque che io m’aspetto, e tutto il rotolio di conseguenze imprevedibili che ogni gesto e ogni parola comporta, solleverebbero attorno alle cose che abbiamo da dirci, o meglio che vogliamo sentirci dire, una nuvola di brusio tale che la comunicazione già difficile al telefono risulterebbe ancora più disturbata, soffocata, sepolta come sotto una valanga di sabbia.» (IVI, pag 132-133)
Tutto il racconto accade nella mente del personaggio, non c’è nulla di reale, se non la discussione iniziale. Non sappiamo cosa stiano facendo Y e Z, né dove siano o se siano insieme. Ciò che più colpisce è la consapevolezza, che manca negli altri racconti, di non poter realizzare uno scambio comunicativo efficace: il protagonista già sa che qualsiasi tentativo sarà fallimentare. L’incomprensione, il fraintendimento diventano componenti intrinseci della realtà, al punto che l’altro non esiste in carne ed ossa, ma è vivo solo nel pensiero dell’automobilista. Anche in questo caso non c’è nessun incontro. È nell’ultima frase di questo racconto che è racchiuso il senso di tutti gli altri: comunicarsi all’altro, farsi comprendere e comprenderlo non è possibile, «certo il costo da pagare è alto ma dobbiamo accettarlo: non poterci distinguere dai tanti segnali che passano per questa via, ognuno con un suo significato che resta nascosto e indecifrabile perché fuori di qui non c’è nessuno capace di riceverci o d’intenderci».
I personaggi sono incapaci di creare relazioni e, ogni tentativo di comunicazione, sfocia nell’incomprensione (non solo nei racconti citati). Tuttavia, il silenzio, motivo d’isolamento e solitudine, diventa un valore preziosissimo: gli amori sono cristallizzati in un eterno presente, privi di una spinta verso il futuro, ma incapaci di morire, appassire o finire; vivono nell’eterna speranza di essere realizzati. Il silenzio diventa l’essenza stessa dell’amore, come l’assenza dell’altro, solo grazie a questi due elementi, passato e futuro, vengono annullati.
Rapporti sospesi, mai cominciati, sono l’elemento fondante della città di Cloe ne Le città invisibili. In questo romanzo, Calvino immagina che Marco Polo sia stato inviato in esplorazione per tutto il regno dal Khan, desideroso di conoscere le caratteristiche di ogni parte del territorio su cui governa. Le tematiche affrontate da Calvino in chiave allegorica sono numerose, e tra queste figura anche l’incomunicabilità. A Cloe, la diciannovesima città che viene descritta (La città e gli scambi 2), gli abitanti non si conoscono tra di loro, non si salutano e non si riconoscono; tra loro non c’è alcuno scambio comunicativo. L’unico contatto è quello visivo: quando due sguardi s’incontrano, gli abitanti
«immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi» (Calvino, I., Le città invisibili, Milano, Mondadori, edizione 2016, pag 49)
Ma si tratta di qualche istante, dopodiché si cercano altri sguardi. La città esiste proprio perché gli incontri non avvengono, perché ogni abitante prosegue alla ricerca di un nuovo sguardo. È la fantasia di quei pochi istanti a rendere viva la città: se ci fosse un seguito, una ricerca e una scoperta dell’altro
«la giostra delle fantasie si fermerebbe» (IVI, pag 50).
A differenza de Gli amori difficili, a Cloe non c’è una ricerca dell’altro, ci si ferma prima al semplice sguardo. Questo basta per mettere in moto migliaia di relazioni possibili che si sviluppano nell’immaginazione degli abitanti.
La fantasia che muove i fili e le storie di Cloe è la stessa che manda avanti le relazioni de Gli amori difficili? Siamo davvero destinati a restare nella nostra bolla, senza comprendere chi ci parla? Non vivere alcun amore è l’unico modo per non rovinarlo?
BIBLIOGRAFIA
Calvino, I., Gli amori difficili, Milano Mondadori, 1990, 4ª edizione
Calvino, I., Le città invisibili, Milano, Mondadori, edizione 2016
Scritto molto bene, interessanti le analisi sull’incomunicabilità
Invita alla lettura
Complimenti
Grazie mille!