«Caccia». Provate a pronunciare questo sostantivo a voce alta: non sembra anche a voi di star dicendo qualcosa di intrinsecamente abietto? Io credo che «caccia» sia uno di quei vocaboli della lingua italiana che comunicano istintivamente una sfumatura semantica negativa, senza tuttavia la presenza di alcun suffisso peggiorativo nominale. Ed io, tendenzialmente, mi fido della scienza linguistica.
E anche dell’etimologia: il verbo cacciare discende dal latino captiare, derivato di capĕre, «prendere». Tale verbo latino veniva sovente utilizzato dagli scrittori romani per riferirsi all’espugnazione di città o luoghi fortificati, e pertanto rimanda all’idea non di una semplice presa, ma di un ‘prendere e fare proprio dopo aver distrutto, schiacciato, ucciso’.
Il termine stesso fa quindi intrinsecamente riferimento all’appropriazione veemente di qualcosa che prima apparteneva a qualcun altro. Se dunque, nell’equazione captiare = prendere la città, sostituiamo il membro della città con la vita dell’animale, appare allora evidente l’equivalenza semantica tra caccia e uccisione.
La caccia, invero e logicamente, non è sempre stata la stessa, perlomeno nel suo significato. Il significante, infatti – per dirla con Saussure – non è mai mutato sensibilmente, al di là delle trasformazioni tecniche e armigere: l’attività venatoria è rimasta cristallizzata nell’idea per cui sia giusto e necessario inseguire, catturare e uccidere le specie animali.
Ciò che invece è cambiato nel corso dei millenni e dei secoli, in relazione alle susseguenti epoche e rispettive condizioni sociali, politiche e culturali, è stato il significato attribuito alla caccia, il suo valore culturale e la sua considerazione sociale.
La caccia è una delle più antiche attività conosciute, di cui si hanno tracce e testimonianze datate fino a 1,8 milioni di anni fa. L’attività venatoria sarebbe nata, insieme alla raccolta, nella forma di unica modalità di procacciamento di cibo per i primi ominidi. Secondo alcune delle ipotesi sviluppate dalla storia evolutiva, sarebbe stata proprio la caccia per sfinimento ad aver favorito l’emergere del bipedismo nella nostra specie.
Nell’età antica, pertanto, l’attività venatoria costituiva un concentrato di tradizioni, miti e metafore che avevano fondato le prime società di cacciatori-raccoglitori.
In seguito, le società cominciarono a dedicarsi all’agricoltura e all’allevamento di animali; nonostante questo, la caccia continuò a rappresentare una fonte importante di cibo, oltre che un’attività atta a dare forma alla routine quotidiana e alla divisione dei ruoli nel clan. Questo avvenne perché l’uccisione degli animali selvatici si traduceva non solo in guadagno di cibo, ma anche in una moltitudine altra di oggetti, utensili e armi.
Da attività primaria per la sopravvivenza, la caccia divenne quindi scalarmente accessoria, un fenomeno sociale svolto in forma di attività professionale con equipaggiamenti e allenamenti specifici. Pensiamo, ad esempio, alla cultura romana ai tempi dell’impero, nella quale la caccia subì un processo di graduale professionalizzazione.
Parallelamente, però, l’attività venatoria cominciò a denotarsi anche come attività ludica, simbolo di coraggio e virtù, prerogativa esclusiva delle classi sociali più elevate.
È con questo valore sociale che la caccia attraversa tutto il Medioevo e l’Età Moderna, ossia nella forma di elemento culturale dettagliatamente codificato e portatore di una caratterizzazione sociale. Vale a dire che l’attività venatoria divenne elemento di discrimine all’interno di una struttura sociale stratificata, composta di subordinati e subordinanti: la caccia rappresentava, nei termini del sociologo Bourdieu, un capitale simbolico assolutamente centrale nella società dei tempi, in grado di trasferire rispetto, onore e persino diritti eccezionali agli individui che la praticavano.
La cultura aveva trasformato la caccia in un segno caratterizzante, innalzando le differenze concrete tra le pratiche al livello simbolico delle distinzioni tra persone.
Infine, nell’Età Contemporanea, la caccia ha progressivamente messo da parte il suo carattere di fonte d’onore e ha invece mantenuto la forma di attività ricreativa, con la quale impegnare il tempo libero a scopo di svago.
Una tale digressione storica diviene essenziale per comprendere il cambiamento di senso in fieri alla base della caccia, dal momento che questa è influenzata dagli elementi legati al momento storico e alle condizioni di esistenza in cui si è formata e trasformata.
Il quadro evolutivo che abbiamo tracciato in precedenza, in riferimento alla società occidentale, restituisce un’esistenza millenaria nella quale sono di volta in volta confluite le contingenze storiche e sociali, mutando profondamente il significato stesso della caccia. Quest’ultima, da attività indispensabile per la sopravvivenza, è stata pertanto modulata secondo valori differenti, rispondenti al sistema di credenze e ideologie contestuali, divenendo un’attività professionale prima, un prodotto culturale veicolante prestigio poi.
Che cos’è e che significato ha quindi oggi la caccia?
Ad oggi, nella società occidentale, la caccia viene praticata essenzialmente come un’attività amena oppure finalizzata al commercio del ricavato della cattura o dell’abbattimento degli animali.
L’attività venatoria in Italia è svolta da circa 700mila unità1 ed è regolata dalla legge n.157/92, il cui fondamento consiste nell’idea per cui la fauna selvatica appartenga al patrimonio indisponibile dello Stato. Lo stato può derogare a tale principio nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge, rilasciando al cacciatore una concessione (la cosiddetta “licenza di caccia”) al fine di abbattere esclusivamente le specie elencate e nei periodi, orari, mezzi, stabiliti dalla legge stessa. Ne consegue l’inesistenza, in Italia, di un “diritto alla caccia”: l’esercizio dell’attività venatoria concretizza solamente un interesse del cacciatore a non vedersi negato il rilascio della licenza di caccia nel caso in cui possieda tutti i requisiti richiesti dalla legge.
A mio parere, lo stesso testo costituzionale lascia quindi alquanto sibillina o comunque indefinita la legittimazione della caccia, e rende invece più chiaro il suo ormai più che marginale ruolo nella nostra agenda politica. Inoltre, ciò che è legale non è sempre legittimo: se dunque la caccia lo fosse, non troverebbe in questo la sua legittimazione. Non a caso, il Comitato Sì Aboliamo la Caccia, atto a indire il referendum abrogativo dell’attività venatoria, ha raccolto negli ultimi mesi oltre mezzo milione di firme.
Anch’io, fatta eccezione per situazioni straordinarie d’emergenza, sono contraria alla caccia. Ho maturato tale convinzione in seguito a numerosi confronti, anche con insiders. Nella riflessione personale che segue, deliberatamente scelgo di concentrarmi sulla sostanza etica della mia scelta, lasciando indiscusse motivazioni altrettanto valide (ecologiche, economiche, politiche, faunistiche).
Il mio pensiero è profondamente informato dal galvanizzante saggio Contro la caccia e il mangiar carne dello scrittore russo Lev Nikolàevič Tolstòj, pamphlet ottocentesco davvero illuminante che consiglio a tutti di leggere almeno una volta nella vita (ndr per i più pigri: ha solo 88 pagine).
Tolstoj, seguendo un filo millenario che va dai pitagorici agli gnostici, dai catari ai guru contemporanei, espone le ragioni di una scelta – la contrarietà alla caccia – che si rivela anzitutto etica. Lo scrittore russo fonda infatti tutto il suo sistema concettuale, che personalmente definirei estremamente oculato, su un assioma ontologico mirato ad abbattere l’antropocentrismo e a valorizzare invece “il nesso, anzi l’unità della natura umana con quella animale, vale a dire il microcosmo col macrocosmo”2.
Tolstoj sostiene che, per comprendere le ragioni che spingono gli uomini ad uccidere per svago o per presunta necessità gli animali, occorre domandarsi come questi uomini concepiscano il rapporto con le altre specie viventi. Lo scrittore russo ritiene che tale rapporto sia determinato da una cultura radicata allo specismo, che considera l’animale secondo quell’idea che, da Aristotele a Cartesio e passando per tutto il pensiero religioso, ha posizionato gli animali all’ultimo gradino della scala sociale.
È in questa erronea e tracotante convinzione che si è autoalimentata la legittimazione della caccia, dai suoi esordi ad oggi. Scrive Tolstoj, nel Diario del 1904:
Tutti gli esseri internamente, a nostra insaputa, sono legati fra loro come le radici di un albero molto frondoso. […] Il mondo degli esseri viventi è un solo organismo. […] Tu sei una certa particella infinitamente piccola di qualche cosa; appena attribuisci a un uomo una certa grandezza ed importanza, ne fai un mostro. Basta attribuire questo a noi stessi e siamo perduti.3
È pertanto inevitabilmente necessario comprendere non solo la propria uguaglianza rispetto agli altri esseri viventi, ma anche la propria nullità. Soltanto prendendo atto della sua fatuità, l’uomo comprende che la sua esistenza non è superiore a nessun’altra e che pertanto non è legittimato a distruggere la vita degli esseri; piuttosto a servirla.
L’antispecismo costituisce il presupposto filosofico e ontologico dell’argomentazione di Tolstoj contro la caccia, dal quale discendono altrettanto vigorosi corollari. Tra questi, quello per cui l’oggettivazione dell’antispecismo si configura come pietà, compassione per gli animali, che lo scrittore russo definisce come la più grande qualità dell’uomo. Tolstoj dedica infatti un intero capitolo alla trattazione della pietà, che descrive così:
La pietà è una delle più preziose facoltà dell'anima umana. L'uomo, impietosendosi sulle sofferenze di un essere vivente, dimentica se stesso e si immedesima nella situazione degli sventurati. Con questo sentimento si sottrae al suo isolamento e acquista la possibilità di congiungere la sua esistenza a quella degli altri esseri. [...] L'uomo che comprende tutta l'importanza morale della pietà, non indietreggerà davanti al timore che le sue manifestazioni possano renderlo ridicolo agli occhi degli altri. 4
Tolstoj osserva che alla maggior parte dei cacciatori russi con cui ha parlato ripugna uccidere, essi provano pietà ed esprimono questo sentimento con le parole «mi fa impressione».
Tolstoj sottolinea ivi il fatto che il cacciatore non sia un individuo universalmente immorale. Anzi, secondo lui andrebbe maggiormente condannato chi si nutre di animali uccisi, piuttosto di chi li uccide (ma questo è un altro discorso…). Quello che desidero mettere in evidenza è che anch’io, come Tolstoj, non credo affatto che cacciare renda automaticamente persone cattive stricto sensu, incapaci di voler bene agli animali e da stigmatizzare in toto.
Il mio papà un giorno mi raccontò di suo nonno, cacciatore estremamente appassionato e uomo profondamente buono. La sua dedizione alla caccia, che indubbiamente presupponeva anche dei sacrifici e una certa qual deontologia, in un certo senso entrava però in contraddizione con la cura che egli riservava ad alcuni animali. Teneva moltissimo, ad esempio, ai cani che lo accompagnavano nell’attività venatoria, così come agli uccellini da richiamo che sorvegliava notte e giorno e accudiva con evidente dedizione.
Mi domando, allora, perché? Perché questa antinomia? Leggo in una tale animalofilia una contraddizione in termini che non riesco a spiegarmi totalmente, forse perché ci sono dei meccanismi camerateschi e intrinsechi noti soli agli insiders, legati probabilmente all’ancestralità dell’attività venatoria e al suo radicamento nella tradizione culturale e sociale di taluni.
Tolstoj, come sempre, mi viene un poco in aiuto. Egli dice che quasi tutti i cacciatori si rifiutano di identificare la voluttà della caccia con l’uccisione e dicono all’unanime: «anche a me fa impressione». Poi tutti, però, cessano di impressionarsi. L’uomo farebbe cioè tacere in sé il sentimento di simpatia e di compassione verso gli altri esseri viventi e diverrebbe crudele, facendo violenza in primis a se stesso. Il cacciatore, secondo Tolstoj, sempre soffoca in sé il prezioso sentimento della pietà, considerandolo come una debolezza.
Ed è così che è schiacciato il bocciuolo appena schiuso della pietà, da cui potrebbe germogliare e fiorire quel sentimento più elevato e più perfetto, che è l'amore. In questo costante suicidio morale è il male supremo della caccia.5
Secondo Tolstoj, il cacciatore è quindi una persona che volontariamente o involontariamente ignora il sentimento della pietà e della compassione verso certi animali. Così facendo, macchia d’immoralità la sua moralità, in un meccanismo psicologico di difesa.
Ma non si può far finta di ignorare tutto questo. Non siamo struzzi, né possiamo pensare che se noi non guardiamo quello che ci rifiutiamo di vedere, non c'è.6
Tolstoj conosce bene l’importanza di queste parole, dell’assumere cioè consapevolezza di ciò che si cerca di nascondere a se stessi. Lo scrittore russo infatti ammette di esser stato egli stesso, in gioventù, un cacciatore. Racconta anche di aver trovato giustificazioni ingegnose ed impegolanti per avere il diritto di abbandonarsi alla sua distrazione preferita. Si arrogò allora il compito di “uccidere per dare la vita”:
Ricordo che una di siffatte giustificazioni consisteva nel dire a me stesso che ogni animale distrugge gli altri esseri viventi. Il lupo divora i montoni e le lepri, questi divorano con l'erba una grande quantità di insetti. Dunque uccidendo alla caccia un solo animale, io salvo la vita di tutti gli altri animali, che quello avrebbe distrutto continuando a vivere.7
A poco a poco, una specie di tormento invase il cuore di Tolstoj. Capì allora che il lupo poteva dire con la stessa giustezza che egli mangiando le lepri salvava la vita degli insetti nascosti tra le erbe, le lepri potevano fare lo stesso ragionamento e così anche gli insetti: la sequela perniciosa della caccia.
Questa considerazione di fatto solleva i cacciatori dalla presunta legittimità di ‘compiere quello che qualcuno dovrà pur fare’, una delle argomentazioni che, Tolstoj dice, i cacciatori adducono più spesso per spiegare le loro azioni.
A loro dire, l’attrattiva della caccia non risiederebbe nel piacere di perseguitare e uccidere gli animali, ossia non nella strage, ma in ciò che l’accompagna. La caccia, si dice, non è interessante in sé, ma sono tali le condizioni nelle quali essa è praticata.
Spesso viene infatti definita come una fuga dalla monotonia quotidiana e dal convenzionalismo della vita, fuga seguita dal rifugio in un’attività di svago che possa temporaneamente allontanare le preoccupazioni. Chissà quando si capirà che le sofferenze degli animali non liberano gli uomini dalle loro. E chissà quando si capirà anche che la caccia non è uno sport; lo sarebbe se, come disse Groucho Marx, anche gli animali avessero il fucile.
Continua Tolstoj: si dice altresì che l’attrattiva dell’attività venatoria derivi dal fatto che il cacciatore subisce la legge propria a tutti gli esseri viventi, cioè la lotta per l’esistenza. Questa spiegazione potrebbe essere giusta, se l’uomo cacciasse per soddisfare un bisogno reale; ma così non è.
A misura che ci allontaniamo dallo stato primitivo, le forme della lotta per l'esistenza si modificano progressivamente. La prima fase di questa lotta, la caccia, somiglia nella forma alla lotta per l'esistenza propria degli animali. Ma con lo sviluppo delle condizioni della vita, questa lotta grossolana contro le bestie diventa inutile. Oggi uccidere gli animali, anche per l'alimentazione dell'uomo, è divenuto assolutamente superfluo.8
Che si tratti di volontà e non di necessità è un fatto ormai risaputo; chiaro è anche che ci sarà sempre qualcuno disposto a crederci, altri che troveranno comodo fingere di farlo. Assistiamo dunque oggi al decadere della ricorrente giustificazione della caccia come un’attività praticata nella crudezza della lotta per la vita, valida ai tempi in cui la morte dell’animale era l’unica condizione per la sopravvivenza umana. Posto che la caccia, un tempo, rappresentasse una necessità, è certo che questa ha poi progressivamente perso non solo la connotazione di basilare mezzo di sopravvivenza, ma anche qualsivoglia giustificazione di tipo alimentare. Cacciare per mangiare è il risultato di un sillogismo dalle premesse false.
La caccia non è una forma naturale della lotta per l'esistenza, ma un ritorno volontario allo stato selvaggio, con questa differenza: che la caccia era un'occupazione naturale per l'uomo primitivo, mentre questa occupazione nell'uomo moderno civilizzato non lo è.9
Come ben dice Tolstoj in apertura del suo volume, noi siamo fieri del progredire della nostra civiltà ed esaminiamo con soddisfazione ciò che consideriamo suoi successi. Talvolta, però, osserviamo pure che la nostra esistenza è fondata su principi ingiusti e crudeli e che l’umanità dell’avvenire ne parlerà con la stessa ripugnanza che noi proviamo oggi per la schiavitù e la tortura.
Basta immaginare la condotta dell'uomo durante la caccia per convincersi che egli compie atti che al solo pensarvi lo farebbero arrossire, in altre condizioni. Vi è una serie di atti riconosciuti indegni di un uomo onesto: la sopraffazione, la perfidia, le trappole, l'imboscata, l'assalto di molti a uno solo. Eppure, tutti questi atti vili e criminali sono compiuti senza scrupolo, apertamente, durante la caccia, dagli stessi uomini che rifiuterebbero di stringere la mano a colui il quale li compisse verso l'uomo.10
In chiusura Tolstoj, pur riconoscendo l’allignamento della caccia nelle sue forme di attività tradizionale nella cultura di certe società, la condanna in quanto «sozzura» che non si armonizza con la civiltà e col grado di sviluppo morale a cui noi ci crediamo arrivati.
Credo che la riflessione dello scrittore russo sia estremamente lungimirante, strumento prezioso che, nonostante i suoi 200 anni, può comunque essere attualizzato, con le dovute specifiche, per far luce sull’anacronismo dell’attività venatoria e sulle sue contraddizioni etiche.
Lascio dunque che le mie parole conclusive si sovrappongano e si fondano con quelle di Tolstoj:
Avendo detto quello che sento del crudele piacere dei cacciatori, non mi aspetto che motteggi da parte loro. Ma io non mi rivolgo agli uomini fatti; ma principalmente ai giovani nei quali parla la coscienza, suscettibile di espandersi; ai giovani che sono abbastanza coraggiosi per giudicare le opinioni da accogliere e per correggerle, qualora fosse necessario, anche se ne risulti il dovere di abbandonare una distrazione favorita.11
Se ho capito l’antifona… se non si agisce con convinzione, tutte le dimostrazioni rimangono senza effetto.
Bibliografia
- Dati Istat riportati da Alberto Crapanzano, responsabile dipartimento ambiente Fronte Verde.
- Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiare carne, Ledizioni, Vignate (MI) 2020, p. 77.
- Ivi, pp. 81-85
- Ivi, pp. 69-70.
- Ivi, p. 71.
- Ivi, p. 51.
- Ivi, p.66.
- Ivi, p.62.
- Ivi, pp. 62-63.
- Ibidem.
- Ivi, p. 76.
di Marta Gatti
Vi presento Marta: made in 2001, vive in provincia di Brescia ma studia Scienze della Comunicazione a Bergamo. Ama profondamente la Città dei Mille: infatti, per la gioia della metà bresciana dei suoi parenti, preferisce definirsi bergamasca («eretica!»). Da grande vorrebbe diventare una giornalista.
Ama dibattere e ama scrivere: se l’avete persa di vista, probabilmente sarà rimasta a discutere con qualcuno su femminismo, donazione del midollo osseo e vegetarianesimo. Per lei non esiste parola e scrittura pubblica che non sia connotata e mobilitata (e spera, mobilitante).
Quando non studia con fastidiosa pignoleria, suona Morricone al pianoforte, mangia Nutella e ascolta podcast in spagnolo; ah, e dimostra il suo affetto scrivendo chilometriche lettere sigillate con cera lacca.
Su L’Eclisse scrive solo di ciò che la galvanizza.