Per una visione impegnata dei fashion magazines
Qualche pomeriggio fa, rapito da un impeto di frenesia capitalista mista a eccitazione da fandom, mi sono ritrovato in un’edicola, pronto a chiedere una copia di Vogue Italia di novembre al gentile edicolante del mio paese, per poi porgergli 5 euro e andarmene via soddisfatto con quel crimine ecologico patinato e luminoso di 240 pagine sottobraccio. “Perchè tutto questo sforzo?” vi chiederete voi, miei curiosi lettori. La risposta è presto data: da fedele fan di Lady Gaga quale sono, potevo esimermi dal comprare il numero con la sua faccia in copertina? Chiaramente no.
Personalmente non mi capita spesso di comprare Vogue in edizione cartacea, come non mi capita del resto di comprare qualsiasi altra rivista. Stupito da questa novità, tornando a casa, mi sono messo a riflettere su cosa rappresenti per me, appassionato dilettante di moda, l’acquisto di Vogue o di una rivista qualunque.
C’era una volta un tempo in cui lo scintillante mondo della moda ruotava intorno alle riviste. Anni in cui la pubblicazione della propria collezione su un periodico del calibro, storico e sociale, di Vogue, Harper’s Bazaar, Vanity Fair e Marie Claire rappresentava, se non il punto di arrivo della carriera del designer, almeno uno dei traguardi più importanti. Erano gli stessi anni in cui nelle prime file delle sfilate sedevano gli editor, i direttori artistici e i giornalisti di queste riviste; gli anni in cui il parere di una singola persona, che governava monocraticamente una redazione, poteva sancire il successo o il fallimento di un giovane stilista. La rivista di moda era lo strumento principale tramite il quale il fashion system si esprimeva presso il pubblico di non addetti ai lavori, che da queste pubblicazioni traeva spunti di stile e di design, insegnamenti e soprattutto sogni. In effetti, era proprio il sogno il prodotto venduto dalla pubblicazione, non i capi di abbigliamento.
Una scena dal celeberrimo film Il diavolo veste Prada (The Devil Wears Prada, D. Frankel, 2006) spiega bene questo concetto. Nigel (Stanley Tucci), collaboratore storico di Runway, la rivista di moda fittizia raccontata nel film, conversa con Andrea (Anne Hathaway), la nuova segretaria di Miranda (Meryl Streep), e fieramente le dice: “questa non è semplicemente una rivista! Questo è un luminoso faro di speranza per… non lo so, diciamo un ragazzino (…) che legge Runway sotto le coperte, di notte, con una torcia!”. Sebbene sia evidente nella scena il tratto autobiografico dello stesso Nigel, ex “ragazzino che legge Runway sotto le coperte”, in realtà si fa apertamente riferimento al vero scopo che l’editoria di moda si prefiggeva in quegli anni: vendere un sogno, vendere una speranza.
La moda è da sempre una delle forme artistiche che meglio rappresenta, nell’immediato, la società e il contesto che la producono. Proprio grazie alla sua naturale plasticità, in questi ultimi anni si è evoluta molto. Ha acquisito maggior consapevolezza di se stessa e del suo ruolo nel mondo; ha in parte abbandonato quello snobismo che da sempre la caratterizzava; ha cercato, e cerca ancora oggi, di eliminare quelle sue frange più problematiche, come il razzismo e il fatshaming, l’utilizzo delle pellicce animali e il ritratto irrealistico e dannoso che fa delle donne.
E le riviste che hanno fatto? Vendono ancora sogni e speranze? Sono riuscite a rinnovarsi?
La mia risposta è purtroppo un secco no. Nell’era degli influencer, delle sponsorizzazioni su Instagram, del fast-fashion e del consumo estremo, Vogue e Harper’s Bazaar non vendono più sogni: non hanno saputo, nella maggior parte dei casi, sopravvivere al cambiamento, e il colpo più duro è arrivato di recente, con la pandemia di Covid-19.
Quanto poteva sembrare fuori luogo e sconsiderato, nei giorni in cui gli ospedali erano sovraffollati e il personale sanitario faceva turni di 16 ore, uscire di casa per recarsi in edicola a comprare solo una rivista di moda? Certo, esiste pur sempre la versione online, che in quei mesi ha registrato un notevole incremento di utenti, ma non sufficiente per evitare il disastro.
In quei mesi però è arrivato anche un raggio di luce. Per la prima volta in decenni di attività tutte queste prestigiose pubblicazioni hanno guardato fuori dalla finestra, e, osservando le strade deserte, le ambulanze, i carri funebri, le sanificazioni, hanno reagito.
Articoli sulla situazione sanitaria erano d’obbligo e dovuti, ma una reazione così marcata e diretta era inaspettata ed incredibile, perché proveniente da un mondo che da sempre ha la tendenza a rinchiudersi nella sua torre eburnea ed elitaria.
Nei mesi di aprile e maggio 2020, i mesi del lockdown più severo in quasi tutto il mondo, le copertine delle riviste mandavano un messaggio di speranza, e tornavano a vendere un sogno.


Il numero del 26 marzo 2020 di Vanity Fair US mostrava in copertina un addetto alla sanificazione intento al suo lavoro in una Catania deserta; all’interno del numero un servizio intero di un fotografo italiano, Alex Majoli, che documentava “l’aspetto visuale di questa tragedia”.
In Portogallo ad aprile la copertina di Vogue Portugal mostra una coppia che si bacia indossando una mascherina chirurgica. Nello stesso paese GQ Portugal mette in prima pagina uno smile giallo, accompagnato da due semplicissime linee di testo: “Everything’s gonna be alright” e “F*ck off Covid-19”.
La cover più simbolica è però arrivata dalla regina delle edizioni di Vogue, da quella da sempre più attenta, grazie soprattutto all’eredità lasciata da Franca Sozzani (1950-2016), la sua illuminata ex-direttrice, alle questioni sociali e pubbliche: Vogue Italia.
Per la prima volta nella storia internazionale della rivista, la copertina di Vogue Italia di aprile 2020 era completamente bianca: bianco come colore di rispetto, di purezza, di rinascita, di luce dopo il buio, dei camici di medici e infermieri.
Destinata già prima della sua pubblicazione a diventare una copertina storica, insieme a tutto il numero, agli articoli dedicati ed agli editoriali in esso contenuti, questa cover porta con sé il nuovo ruolo potenziale che queste pubblicazioni potrebbero e dovrebbero assumere.
In un mondo post-pandemico in cui a ben pochi interessa ciò che Anna Wintour, la dittatoriale direttrice di Vogue US da più di 30 anni, ha da dire su una collezione o un designer; in un mondo abitato da una nuova generazione di ragazzə che tiene particolarmente alle tematiche ambientali e che allo stesso tempo non ha alcuna intenzione di seguire le “tendenze”, concetto ormai desueto e quasi inesistente; in questo mondo iper-connesso, iper-globalizzato e iper-consumistico, le riviste di moda siano davvero un faro di speranza per chi le legge sotto le coperte con una torcia. Si facciano più spesso promotrici culturali invece che promotrici di sponsor, si rendano anche smaccatamente politiche per le tematiche che stanno loro a cuore, smettano di essere tomi enciclopedici di 840 pagine – come lo fu il numero di settembre 2007 di Vogue US -, in cui l’arte è poca e il capitalismo sovrabbondante; propongano invece contenuti di qualità, in cui la moda in quanto arte è punto di partenza per una riflessione estetica, spieghino il loro lavoro e quello di chi i vestiti li disegna, li cuce, li crea, li indossa per mestiere e li fotografa. Solo così le riviste potranno uscire da quella caverna dorata che si sono costruite negli anni, per essere davvero vicine alla società e al loro pubblico.


Emanuele Farneti, direttore di Vogue Italia, nel suo editoriale pubblicato sul già citato numero di aprile 2020 scriveva di quanto la tradizione di Vogue e la sua chiamata più nobile sia quella di non voltarsi mai dall’altra parte. Lo scrive ricordando Audrey Withers, che diresse con coraggio e dedizione l’edizione britannica della rivista mentre Londra veniva bombardata dalla Luftwaffe. Nel mese di aprile 2020 Vogue Italia non si è voltata dall’altra parte, e la copertina bianca ha un altro significato oltre a quelli che abbiamo già ricordato: “il bianco non è resa, piuttosto è una pagina tutta da scrivere, il frontespizio di una nuova storia che sta per cominciare”. Che sia davvero questa la nuova storia che sta per cominciare!

di Luca Ruffini
Mi chiamo Luca, 1998, fuori corso a Lettere Moderne in Statale a Milano. Da bambino mi chiamavano “piccolo lord”, il risultato di questo soprannome è che ora vivo in doppiopetto con la cravatta sempre annodata al collo. La letteratura mi affascina, l’arte mi incuriosisce e la moda mi emoziona. Mi piacciono tante cose, fra cui, in ordine sparso: il rococò francese, Lady Gaga, i dolci in pasta di mandorle, la Prima Repubblica e la regina Elisabetta II. Qui spero di scrivere articoli che possano interessare e far nascere una passione nuova in chi legge.
Se mi cercate mi trovate molto probabilmente in Porta Venezia a Milano, con una sigaretta in bocca e un gin tonic in mano.