Cosa può spingere un ragazzo di vent’anni ad andare all’Opera?
A mio avviso, ci sono due ragioni fondamentali: la curiosità (storica e culturale) e la fantasia (drammatica e musicale).
Per quanto riguarda la prima, si consideri che questo genere viene formalizzato a cavallo tra il XVI e XVII secolo da un gruppo di intellettuali fiorentini, noto come Camerata de’ Bardi dal nome del mecenate che li ospitava (Giovanni Bardi). La sua ispirazione risaliva all’antichità, in particolare alla tragedia greca, che del resto aveva anche influenzato il teatro medievale, in cui sono esemplari Guido d’Arezzo e Ildegarda di Bingen.
Quindi, la curiosità risiede nel voler scoprire la storia e nel provare come in passato le persone vivevano lo svago (prima di Netflix, si intende). Per quanto riguarda invece il secondo punto, assistere a una rappresentazione operistica, di qualsiasi genere essa sia, spesso stimola la fantasia, facendo ritrovare a chi assiste l’immaginazione della propria infanzia.
Fatta questa premessa, credo che nel vastissimo panorama del melodramma italiano una delle opere migliori per imparare ad apprezzare questa esperienza artistica sia Il Trovatore, il secondo capitolo della trilogia popolare di Giuseppe Verdi che comprende Rigoletto e La Traviata. Benché la sua indubbia fama la preceda, ho voluto parlare di quest’opera a partire da una sua messa in scena recente, tenutasi dal 26 al 28 novembre 2021 presso il teatro Fraschini di Pavia. Tuttavia, devo ammettere che si tratta della prima volta che assisto a un melodramma, quindi la mia non sarà una trattazione critica, men che meno accademica, bensì si concentrerà sull’aspetto storico e patetico dell’evento.
Dunque, l’opera verdiana è tratta da El Trovador, testo del drammaturgo spagnolo Antonio García Gutiérrez. L’intreccio è complesso sia dal punto di vista geografico che da quello cronologico: la vicenda, infatti, si svolge nel XV secolo in Spagna, in particolare nelle regioni di Aragona (con la città Saragozza) e Biscaglia (con l’omonimo golfo che si affaccia sull’oceano), ma si sviluppa con marcati scarti temporali, talvolta di anni. Per quanto concerne invece la trama, essa si articola in quattro parti, e non negli atti consueti, facendo perno sul personaggio di Leonora (nell’allestimento del Fraschini, Marigona Qerkezi), dama di compagnia della principessa d’Aragona che è innamorata di Manrico (Matteo Falcier)e ricambiata. Costui è il trovatore, ovvero una figura riconducibile ai poeti-musicisti provenzali che ebbe particolare successo nelle corti medievali, marcando profondamente la cultura romanza. Ciononostante, Leonora è amata anche dal conte di Luna (Leon Kim), respinto dalla ragazza. Pertanto, come spesso accade nell’opera lirica, l’intreccio si sviluppa principalmente sul conflitto tra i due uomini, che termina con la decapitazione di Manrico per ordine del conte e con il suicidio di Leonora. Solo a questo punto si scopre che i due deceduti sono fratelli, grazie alla confessione di Azucena (Alessandra Volpe), una gitana arsa sul rogo come strega, sempre per l’arbitrio del conte.
Non è quindi difficile scorgere la pesante influenza esercitata dal contesto storico risorgimentale sulla trama. Molta critica ha visto in Manrico un’allegoria del popolo italiano, contrastato e infine soggiogato al perfido duca, maschera del potere asburgico e in generale delle potenze straniere che soggiogavano il Bel Paese. D’altra parte, basterebbe fare riferimento ai Quaderni dal carcere di Gramsci per evidenziare il ruolo fondamentale giocato dal melodramma nel Risorgimento italiano, sostituendo il genere del romanzo, molto più affermato in Europa, come veicolo di formazione della coscienza nazionale.
Passando all’aspetto musicale, i personaggi fondamentali sono un baritono (conte di Luna), un soprano (Leonora) ed un tenore (Manrico), come di norma nelle messe in scena operistiche. Del resto, Bernard Shaw ironizzava che la sinossi di qualsiasi melodramma potrebbe essere «l’eterna storia di un tenore che vuole andare a letto con il soprano, ma il baritono si oppone». Per quanto riguarda la messa in scena di Pavia, gli attori hanno generalmente avuto performance eccellenti, a partire da Leonora fino ai componenti del coro. L’esecuzione di Tacea la notte placida, fra le migliori arie verdiane scritte per soprano, è stata sinceramente emozionante. Credo che sia doveroso sottolineare il lavoro svolto dall’orchestra e dal suo direttore, Jacopo Brusa: oltre alle musiche sapientissime di Verdi, i musicisti hanno saputo interpretare magistralmente l’atmosfera di costante tensione, tessuta su un nervoso ordito di amori e colpi di scena. Peraltro, l’organico orchestrale era abbastanza ridotto, componendosi di due flauti (anche ottavino), due oboi, due clarinetti e due fagotti; quattro corni, due trombe, tre tromboni e un cimbasso (strumento che consiglio di scoprire); poi timpani, grancassa, triangolo e una sezione di archi. Da non dimenticare, infine, gli strumenti musicali direttamente presenti in scena (ossia campane, corno, martelli con incudini, organo) e il coro, diretto da Diego Maccagnola.
Non posso, inoltre, tralasciare il libretto di Salvadore Cammarano e Leone Emanuele Bardare, ovvero il supporto drammaturgico dell’opera lirica. Esso comprende didascalie, prefazione e note e si propone come un vero genere letterario indipendente. Ad ogni modo, la sua componente più decisiva sono le parole cantate, proiettate, nella regia di Roberto Catalano, a margine della scena, per facilitare la comprensione del testo; tuttavia è interessante come l’uso tradizionale del libretto sia stato mantenuto, in un contesto che forse non lo necessita più. Interessante è il fatto che uno dei librettisti, Salvatore Cammarano, conclude la stesura dei versi appena prima di morire e Verdi, in onore alla sua memoria, decide di lasciare inalterata la stesura dell’amico.
Per concludere, mi piace ricordare il successo costante di cui ha goduto l’opera verdiana, che continua a essere rappresentata in tutto il mondo, ricordando l’eccellenza artistica italiana. Allora si dica “Viva l’Italia”, che non è solamente la canzone di Francesco De Gregori, ma anche l’esclamazione popolare che avvia Senso, pellicola cinematografica diretta nel 1954 da Luchino Visconti. Nella scena di apertura del film, ambientato nel 1866, si ha una rappresentazione proprio del Trovatore al Teatro La Fenice di Venezia. Questo momento metateatrale si concentra sulle battute finali dell’opera, con l’ultimo applauso, accompagnato dal pubblico inneggiante all’unione del Veneto all’Italia contro gli invasori austriaci. Non è un caso che, nel corso del film, i protagonisti siano ancora una volta una coppia contrastata e separata per questioni politiche: lui ufficiale dell’esercito asburgico, lei nobile veneziana e patriota. Il melodramma, del resto, sopravvive ben oltre l’Ottocento, e scoprirlo potrebbe dimostrarsi molto più attuale di quanto si tende a pensare.
di Mattia Romaniello
Ciao a tuttə! Mi chiamo Mattia e sono uno studente di Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia. La mia città d’origine è Genova, della quale amo sia il mare che i monti. I miei interessi principali sono la Sampdoria e la musica. Mi sento libero quando ho l’occasione di scrivere in quanto considero la libertà come la possibilità di esprimersi. In questo senso, collaboro con POLI.RADIO dove interpreto il ruolo di speaker radiofonico.