La città è un’entità sociale e fisica che ci accompagna da ormai sei millenni e che, in questo lungo periodo di tempo, ha radicalmente cambiato forma e natura, restando pur sempre al centro del nostro modo di concepire la realtà.
Città e campagna è uno dei grandi binomi che condizionano da sempre le letture del passato e le analisi del presente, ma solo negli ultimi decenni ha dato il meglio di sé nella cultura pop, nelle fantasie collettive che sono gli stili e le correnti artistiche, e nell’affermarsi di estetiche individuali che ci hanno profondamente formato come società.
Per questo ho cercato – e credo di aver trovato – dei passaggi significativi che fotografano alcuni momenti chiave di questo cammino culturale che ha portato l’agglomerato urbano al centro del nostro modo di pensare la realtà, visti attraverso sei opere fondamentali. Questo cercando di trattare l’argomento in modo semplice e diretto, con un lessico non complesso, come si dovrebbe parlare di pop, senza pretendere una qualche (non necessaria) nobilitazione culturale.
La Città Nuova – Antonio Sant’Elia
Le radici artistiche della città si ritrovano nel Futurismo, che ne fa lo sfondo di una profonda rilettura ottimistica ed esaltante della tecnologia e della tecnica. In opere come ’La città che sale’, si intuisce una frenetica volontà di cambiamento; ancor più nei disegni progettuali di Sant’Elia si nota quello spirito ricostruttivo che anima il movimento: la messa al bando dei musei, l’esaltazione del nuovo e della linea retta che nascono da una distruzione e un ripensamento totali di ciò che deve essere la città, tramite l’utilizzo di materiali nuovi e la definizione di spazi e canoni differenti.
Lo spazio di cui necessita la Città Nuova di Sant’Elia è assolutamente irreale ed impraticabile: non a caso, le ispirazioni futuriste hanno trovato attuazione solamente nel contesto postbellico quando si è manifestata la necessità della ricostruzione e ancor di più nell’ispirazione ad architetture di fantascienza come il Cyberpunk. Questo legame col fantastico segna quasi ogni progetto futurista, la ‘Stazione di aeroplani e treni ferroviari, con funicolari e ascensori’ è monumentale, grandiosa e di per sé avrebbe bisogno di un profondo ripensamento dell’intero spazio urbano in funzione di una stessa opera che non può vivere come aggiunta ad una città preesistente. Lo stesso vale per lo Studio per centrale elettrica, il cui bozzetto riscrive anche il panorama in cui si inserisce creando una funzionalità che richiede, per poter esistere, la distruzione di tutto ciò che esisteva prima del progetto. È in quest’ottica che la Città nuova diviene un punto di riferimento – a volte inconsapevole – per il Cyberpunk e per l’architettura fantastica successiva da Blade Runner al Dune di Villeneuve.
Cyberpunk 2077 – CD Projekt Red
Si passa dal futurismo dei primi del Novecento ad un videogioco uscito più di cento anni dopo fra molte discussioni; ma sicuramente, se Cyberpunk 2077 fa qualcosa in modo eccelso, è pensare la metropoli di cui vive.
Lo sviluppo verticale, la presenza di mega edifici dalla natura puramente funzionale e la concezione stessa di Night City, nata dal nulla e immersa nel nulla, rende i concetti architettonici del genere meglio di quanto non faccia la Los Angeles di Blade Runner o l’abbandonata e maestosa Las Vegas del suo altrettanto maestoso seguito. Il Cyberpunk setta nuovi canoni nell’orizzonte dello sci-fi: si tratta di un futuro prossimo in cui sono protagoniste le degenerazioni della società capitalista, una proiezione enfatizzata dell’America degli anni ‘80 e ‘90 in un futuro tecnologicamente lontano, ma già socialmente possibile, il cui fascino è immediato. In questo nuovo canone, la città non può che essere al centro: la smania ricostruttiva che fu desiderata dal futurismo e resa necessaria dalla guerra trova la sua piena realizzazione nella società fantastica. La città di Cyberpunk 2077 è il risultato di molti stili più o meno contemporanei: racchiude in sé l’edilizia popolare degli anni ‘70, la monumentalità di Blade Runner e la postmodernità dell’architettura dei distretti finanziari; tutto ciò è il risultato visivo di una società varia, che mischia negli stessi quartieri – degradati e ricchi allo stesso tempo-; possibilità economiche e fenomeni apparentemente agli antipodi, ma che nella metropoli convivono in perenne conflitto.
Lamù: Beautiful Dreamer – Mamoru Oshii
Nello studio dell’immaginario che accompagna la città nella cultura pop non può mancare l’influenza nipponica. Mamuro Oshii incrocia il tema quasi per caso; il regista – che girerà poi una delle pietre miliari del cyberpunk: Ghost in the Shell -, si appoggia qui ad alcuni modelli che poi influenzeranno altri stili che si tratterranno in città: benché solo la prima metà di Lamù: Beautiful Dreamer sia ambientato in una Tokyo deserta, popolata solo da auto sintetizzate visivamente con bolle luminose gialle e rosse che corrono per le strade scure e piovose, l’immagine che ne risulta è potentissima e riesce a sfruttare canoni visivi malinconici e solitari, che rendono l’immagine complessiva quasi del tutto distaccata dal tempo e dalla presenza umana in maniera incredibile. Le luci dei lampioni e delle insegne al neon, le gallerie vuote illuminate solo dalle lampade a soffitto, l’ambiente notturno popolato da luci in una città che sembra estendersi all’infinito nell’orizzonte del tramonto: elementi tanto suggestivi quanto utilizzati magistralmente nell’economia di un film che non fa della città il suo punto focale e che anzi nella seconda metà si rivela con atmosfere completamente differenti, più in linea con altri film dedicati a Lamù, scanzonati e leggeri.
Midnight City – M83
La metropoli notturna non è una prerogativa pop dell’animazione, ma ne fanno uso anche molti generi musicali estremamente differenti fra loro: come la lo-fi, in cui è un elemento di una più complessa estetica. Ma un solo pezzo riesce a cogliere appieno le atmosfere di quella città solitaria e illuminata a neon che ci si può trovare dinnanzi varcato il reame della notte: Midnight City degli M83 arriva all’essenza della città. Una chiesa laica per una generazione sola, un mero esercizio estetico che tiene in vita speranze e vaghe aspettative per un futuro paradossalmente non voluto ma atteso, forse all’insegna di frivoli desideri di disimpegno sociale e culturale che mirano ad una totale tranquillità impossibile da avverarsi nel mare di anime solitarie che rappresenta una metropoli, ma non per questo meno degna di essere desiderata.
Words Bubble Up Like Soda Pop – Kyohei Ishiguro
Di tutt’altro avviso è Words Bubble Up Like Soda Pop. Il film, dalla trama semplice e per molti versi scontata, ci riporta in una piccola città ai confini con la campagna: i colori pastello, i confini cromatici netti, l’esaltazione del lato migliore della tecnologia e dell’adolescenza lo rendono un esempio perfetto che respira di quella nostalgia propria delle atmosfere city pop leggere e disimpegnate, forse superficiali, ma come ogni lato della nostra analisi della città egualmente importanti.
Se forse questo film non aderisce pienamente al ‘’manifesto’’ del city pop non richiamando in alcun modo la tecnologia anni ‘80, mantiene comunque quella nostalgia personale che si ritrova nel genere, seppur sia solo una parte dell’estetica del cartone, e le ambientazioni estive che spesso ritornano. È impossibile negare l’egemonia della cultura giapponese su questo tipo di atmosfere: a partire da Miyazaki e arrivando a incarnazioni più contemporanee queste ambientazioni romantiche e leggere, apparentemente infantili e di genere molto diverso fra loro, possono celare alle proprie spalle necessità ben più mature o essere veli per messaggi più complessi.
Nihon Noir 2099 – Tom Blachford
Questa ultima scelta ci riporta a temi già trattati ai primi posti di questo articolo e li sintetizza unendoli alle atmosfere di Lamù: Beautiful Dreamer. Nella raccolta fotografica Nihon Noir 2099, Tom Blachford cattura una città immobile, composta da palazzi brutalisti – corrente architettonica nata in Inghilterra che fa del cemento armato il suo materiale principe -, e svuotata dalla presenza umana come le vie di Beautiful Dreamer, è l’architettura la vera protagonista della raccolta.
Tokyo è stata una delle città che più ha subito la ricostruzione postbellica, e stili come il Brutalismo giapponese ne sono la traccia secolare; ma ancor più del Brutalismo è il superbo fallimento del Metabolismo a farsi notare. Questo stile si riproponeva di definire la morte degli stessi progetti architettonici, così da rendere la città un organismo vivo, in continua evoluzione. L’ambizioso progetto di Tange -uno degli architetti giapponesi più influenti del secolo scorso- e di altri intellettuali giapponesi fallisce miseramente lasciandoci, però, le sue spoglie, che si accompagnano alle meste costruzioni del cugino Brutalismo rendendo la megalopoli di Blachford un incontro unico fra architettura reale e atmosfere cyberpunk che sottolineano con le proprie luci saturate blu, viola e fuxia le linee dure e complesse dell’architettura brutalista, in un’estasi visiva che fa suoi molti dei canoni visivi che ci accompagnano fin dai sogni di Sant’Elia.
Fra le molte possibili opere, spero di averne indovinate sei che in qualche modo mettano a nudo un filo conduttore che parta dagli albori delle avanguardie e arrivi fino a noi seppur mutato da innumerevoli influenze. La mia è un’analisi del tutto parziale, non avendo incluso molti altri lavori artistici che avrebbero meritato un’analisi approfondita o quanto meno una menzione.
Messe le mani avanti, posso concludere questo articolo, che nasce da un’interpretazione personale, artistica e culturale, e spero in qualche modo possa aiutare a riflettere su quello che considero un tema importante troppo spesso sminuito, la città, ma anche la cultura pop tutta: forse per la sua contemporaneità, forse perché ha radici spesso troppo sfuggenti e complesse perché possano essere indagate efficacemente. Ma a queste difficoltà credo si possa affiancare un modo di considerare ciò che è pop come cultura di secondo piano, meno nobile, tranne per pochi autori eletti, dell’arte convenzionale; è questo il caso del media videoludico o della tecnica d’animazione che solo ultimamente sono state maggiormente accettate come prodotti culturali di pari grado rispetto a forme d’arte storicamente più definite.
Un altro problema altrettanto sentito, o che dovrebbe essere tale, è la maniera di parlarne: è sacrosanto l’utilizzo di un lessico ed un approccio saggistico, ma non può essere l’unico modo di approcciarsi al pop. Perché certi contesti culturali possano appieno essere riconosciuti alla pari dell’arte classica bisogna lasciarsi alle spalle l’eruditismo, il citazionismo forzato, un lessico troppo settoriale ed alto per abbracciare il suo lessico semplice ed immediato, senza inutili trapezi classicisti che ci spieghino quanto l’Eneide e il Tasso siano legati a Satoshi Kon (è un esempio assurdo e spero che nessuno si sia mai dilettato in una simile acrobazia cerebrale). La necessità di nobilitare il pop non deve portarci a rispolverare strane opere autoriali di registi orientali mai conosciuti: il pop è anche mainstream, e a questo non si sfugge.
Come la grande arte che ha avuto enormi ripercussioni sui posteri aveva in molti casi risonanza fra i contemporanei, anche oggi l’equivalenza mainstream=low quality è assolutamente falsa.