Pesci nelle orecchie
Con aprile facciamo presto
un tuffo nel blu più profondo;
e vi parlo di pesci.
Il mese? Solo un pretesto!
Questo aprile ha preso alla lettera il gioco delle beffe del pesce d’aprile. Infatti, invece di regalarci -finalmente – bel tempo, così da poter godere delle giornate p iù lunghe, dell’aria più tiepida e dei cinguettii degli uccellini al tramonto, ecco che si prende gioco di noi, rincarando la dose dell’inverno, con freddo, pioggia e ancora freddo. Ma si sa: aprile è multiforme, vive in bilico tra le sue nature, quella dell’inverno, che fa fatica ad andare in letargo, e quella della primavera, che freme per imporsi nel nostro quotidiano con i suoi odori e colori. Aprile è incerto già solo nella suo nomenclatura: se della maggior parte dei mesi si conosce l’origine del nome, quella di “aprile” è ancora oggi incerta. La più accreditata sembrerebbe far risalire il nome da Afrodite, dea dell’amore, alla quale, secondo la simbologia greca, il mese di aprile era dedicato. Tendo a credere, però, che l’origine sia più da ritrovarsi nel verbo latino aperire, in quanto aprile è il mese che, appunto, si apre alla nuova stagione e alla rinascita. «Aprile, precoce estate», lo definisce così il poeta e critico russo Evgènij Rejn nel componimento dedicato al mese, che prosegue con una singolare rassegna di capi d’abbigliamento invernali da mandare “in letargo” a favore di un vestiario più leggero:
Chi ha visto il cambio di stagione, dirà: “Sia pure.
Fuori è estate: Pasqua e Risurrezione”.1
Convenzionalmente, non a caso ad aprile si festeggia, oltre che il pieno della primavera, anche la Pasqua, cioè la resurrezione di Cristo, il giorno di festa che chiude i quaranta giorni della quaresima e dove si può nuovamente mangiare tutto. Fin dal V-VI sec d.C, durante la quaresima – periodo che seguiva al carnevale, la festa che, dopo tanta ironia, carnelevare, ovvero “toglieva la carne”- , per rispettare l’usanza di mangiare magro, «i macellai chiudevano bottega mentre facevano fortuna i pescivendoli, a meno che (come succedeva in alcune città) non fossero i macellai a riciclarsi come venditori di pesce»2. Il pesce, quindi, era l’unica fonte di proteine in quel lasso di tempo ed era, in generale, la rappresentazione di Cristo. ΙΧΘΥΣ (Ichthys), che in greco significa, appunto, pesce, era l’acronimo usato dai primi cristiani per comunicare al tempo delle persecuzioni da parte dei romani, indicando «Ιησοῦς Χριστὸς Θεoῦ Yἱὸς Σωτήρ (Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr)», ovvero Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore. Non temete, non sono qui a fare una lezione di storia del cristianesimo, ma per parlarvi del pesce in altri toni nettamente più curiosi.
Ad esempio, sapete che una delle possibili ipotesi su come si sia iniziato a fare scherzi al primo d’aprile potrebbe risalire addirittura al 40 a.C.? Secondo alcune cronache del tempo, infatti, Marcantonio e Cleopatra, in quell’anno, si trovavano in Egitto, coinvolti in una gara di pesca. Quel giorno, Marcantonio evidentemente non ebbe grande fortuna. Irritato dall’idea che la donna deridesse le sue scarse capacità nella pesca, ordinò ai suoi servitori di immergersi nell’acqua e di attaccare, senza farsi vedere, dei pesci al suo amo. Cleopatra, che era una donna perspicace, si accorse dell’inganno: non disse niente, ma si vendicò, ordinando al suo servitore di appendere all’amo di Marcantonio un pesce sottosale del Mar Nero. Possiamo considerarlo, a tutti gli effetti, il primo pesce d’aprile della storia3. Chiusa la parentesi aneddotica veniamo a noi
Siamo nel Duecento circa quando viene messo in circolazione il Novellino, un libercolo contenente cento novelle circa di autore ignoto. La novella XCII narra «di una femina ch’avea fatta una fine crostata d’anguille»4, dall’odore talmente sublime da attirare l’attenzione di un topo e di un gatto, che finisce col banchettare anche lui con la crostata invece di mangiarsi il topo – che riesce a fuggire. La crostata in questione sembrerebbe essere più una sorta di pasticcio d’anguilla, che si diceva essere una squisita ricetta dell’epoca. L’anguilla è un pesce vitale,
che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati […]5
Ne L’anguilla, Montale pone un curioso paragone tra il pesce e Clizia, il nome che Montale assegna alla donna con cui fu sentimentalmente legato per tutta la vita, Drusilla Tanzi, prematuramente scomparsa. Qui il pesce, nonostante sia animato da un denso brio vitale, «torcia, frusta, freccia d’Amore in terra»6, e una spinta alla sopravvivenza, è pur sempre un pesce che si trova nel fango, un ambiente inospitale e atarassico, come ormai lo è la sua amata. Non è raro trovare in Montale questi nessi dicotomici così dissonanti e, soprattutto, l’associazione di questi pesci col confine tra la vita e la morte. Ne Il Re Pescatore, addirittura, si ritiene che il pescatore «non cerchi altro che anime»7. Come si chiederebbe Achille Mauri, noto ai più per il suo sodalizio editoriale con Spagnol, cosa ci azzeccano i pesci con le anime? In un certo senso, è proprio questa la domanda che accompagna tutto il suo primo libro, Anime e acciughe (2017). Achille, il protagonista, è venuto a mancare nella sua casa milanese e si ritrova nell’aldiquà, una sorta di universo platonico esattamente uguale al nostro: dorme nella sua macchina in garage in compagnia del suo gatto e dialoga con personaggi realmente esistiti, come il maresciallo Radetzky. I pesci, per la precisione le acciughe, qui fungono da legante non solo tra i personaggi, traghettando anime in banco, ma anche col mondo terreno e con la psiche:
Achille: questo è uno spazio magnifico, mie cari acciughe: c’è l’acqua, ci sono specchi, armadi… ecco qui: vi apro i cassetti, così voi che amate l’ordine vi sistemate come meglio credete… guardate, da qui si vede tutto il garage, siamo più alti di un metro rispetto alle altre macchine, magnifico! […] Comunque, bingo! Ho terra ferma sotto i piedi, un tetto sulla testa, spazio per ascoltarmi, silenzio per non pensare… è un posto ideale per meditare, ecco, sì, per meditare! […] E, Anche quando, durante il viaggio c’è sicuramente spazio per tutti: solo vantaggi per ora, poi chi vivrà vedrà, è inutile prevedere tutto nei miei primi cinque minuti in questa nuova casa… Home Sweet Home!8
Tra dialoghi strampalati e nozioni spicce di filosofia, l’opera mostra come questo aldiquà non faccia poi così paura come si pensa da vivi e che non sia poi neanche così diverso dal nostro mondo, in equilibrio tra il tram tram quotidiano e la ricerca di uno spazio dove poter meditare in santa pace, invitandoci a godere quanto più possibile del presente. È sempre la solita filosofia del carpe diem oraziano, che è anche la stessa filosofia alla base de Le acciughe fanno il pallone (1996), brano di De Andrè scritto con Ivano Fossati, dove Faber, attraverso la metafora del pescatore (figura che in De Andrè non risulta essere solo un personaggio, ma una vera e propria metafora di vita, basti pensare ai brani di Creuza de Ma o a Il pescatore), invita a cogliere al volo la vita proprio come un rapido banco di acciughe:
Le acciughe fanno il pallone
Che sotto c’è l’alalunga
Se non butti la rete
Non te ne lascia una.
È una canzone molto colta, che attinge, nei suoi versi, a citazioni letterarie notevoli: dalle leggende popolari genovesi a Il pesciolino d’oro, una nota favola del romanziere russo Pushkin. Il pesciolino d’oro della canzone di De Andrè avrebbe il potere di dare al pescatore una vita diversa dalla sua, quindi anche l’amore, di cui il pescatore inizia a sentire l’assenza
Se prendo il pesce d’oro
Ve la farò vedere
Se prendo il pesce d’oro
Mi sposerò all’altare
Per quei cortocircuiti dove le parole generano le parole, mi è tornata in mente quella frase di Murubutu che dice «Non sai mai quando torna chi lavora nel mare»9. Credo fosse il pensiero costante che accompagnava, in passato, non solo le mogli dei pescatori, ma anche i pescatori stessi che si ritrovavano a pensare alle loro sorti e forse pensava proprio a questo quel pescatore narrato da Neruda nell’Ode al dente di capodoglio. Oscillando continuamente tra la vita e la morte, tra la violenza e la dolcezza, il testo parte da un motivo proustiano, ovvero Neruda che osserva questo dente di capodoglio inciso, adagiato sulla sua scrivania, immaginando il pescatore, che ne fu proprietario dopo una violenta battuta di pesca dell’enorme pesce, ritrovarsi ad incidere sul dente del pesce, simbolo del suo successo, una scena d’amore, più che di pesca ed esaltazione eroica:
[…] il marinaio
su uno
dei denti
della bestia
incise col suo coltello
due ritratti: una
donna e un uomo
che si congedano,
un navigante
dall’amore
ferito,
una sposa sulla prua
dell’assenza.[10
Nel corso dell’ode, Neruda riflette proprio su come un uomo, complice e colpevole di una violenza, possa nascondere in sé una sensibilità tale da fargli realizzare un capolavoro in miniatura:
E il dente della bestia,
tatuato dalle dita delicate
dell’amore,
è la più piccola nave
di avorio che ritorna.
Già le vite
dell’uomo e i suoi amori,
il suo arpione sanguinante, tutto
che fu carne e sale, aroma e oro,
per lo sconosciuto marinaio
nel mare della morte si fece polvere.[11]
Come ogni volta, le parole di Neruda entrano dentro quasi quanto la corrente che porta i pesci in lungo e in largo per le acque, per rimanere nella sfera delle metafore marine. A pensarci bene, questa ode di Neruda è anche profondamente attuale, soprattutto per quel che concerne la pesca intensiva e spesso violenta, tema caro agli ambientalisti, idealisti che, nel mare, ci nuotano benissimo, per parafrasare i Pesci nelle orecchie di Vecchioni.
Voglio chiudere la mia riflessione con un’altra poesia in musica di un altro grande poeta, Lucio Dalla, che mi viene in mente ogni volta che mi chiedo a cosa penserebbero i pesci guardando il nostro mondo attuale:
Frattanto i pesci
Dai quali discendiamo tutti
Assistettero curiosi
Al dramma collettivo di questo mondo
Che a loro indubbiamente doveva sembrar cattivo
E cominciarono a pensare
Nel loro grande mare
Com’è profondo il mare.
… parlo tanto, non mi dire,
tra versi e canzoni,
tra emozioni e riflessioni,
al prossimo mese, tutto da sentire.
Note
- Evgènij Rejn, Aprile, in Balcone e altre poesie, Diabasis, 2006.
- Montanari, M., Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 162.
- Il riferimento è ulterioremente approfondito nell’interessantissimo articolo di Storica su i retroscena della relazione tra Marcantonio e Cleopatra, che potete trovare qui: https://www.storicang.it/a/lincontro-di-tarso-antonio-e-cleopatra_14888
- Il Novellino, a cura di Mouchet, V., Rizzoli, Milano, 2016.
- Montale, E., L’anguilla, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2018.
- Ibidem.
- Ivi, Il re pescatore.
- Mauri, A., Anime e acciughe. L’aldilà come non lo avreste mai immaginato, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 264.
- Murubutu, I marinai tornano tardi, 2014
- Neruda, P., Ode al dente di capodoglio, in Poesie. 1924-1964, Rizzoli, Milano, 2018.
Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi