Spaventare le persone non è difficile, di per sé. Bastano una stanza buia, un rumore strano, una voce sconosciuta alle spalle: insomma, l’essere umano teme l’ignoto più di qualsiasi altra cosa. Potreste obiettare che tutto ha una causa razionale e non serve a nulla fasciarsi la testa prima del tempo, e avreste ragione… almeno in parte. Se sapere da cosa dipende cosa ci aiuta a esorcizzare o, quantomeno, contenere la paura, la consapevolezza di non sapere invece ci terrorizza. È qualcosa di inaccettabile e, al tempo stesso, inevitabile: per quanto grande sia lo sforzo di acquisire maggiore conoscenza, non sarà mai sufficiente. Scrivere per spaventare, al contrario, è molto meno semplice. Una mano mozzata può suscitare orrore o spavento, ma è qualcosa di momentaneo, non basta per creare un’atmosfera di tensione continua. Se c’è una cosa che “uccide” la paura, è la noia.
E chissà che noia avranno provato Mary Shelley e la sua compagnia quando, in quel di Ginevra nell’estate del 1816, cercavano di ravvivare una notte buia e tempestosa senza Netflix. Non potendo perdere mezz’ora a spulciare il catalogo, i giovani rampolli della letteratura britannica leggono la Fantasmagoriana, antologia di cinque racconti gotici in lingua tedesca tradotti dal geografo francese Jean-Baptiste Benoît Eyriès. George Gordon Byron propone di sfidarsi a chi scrive la storia più spaventosa, ma solo due verranno successivamente completate: una è Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley, l’altra è Il vampiro, di John Polidori. È proprio grazie a lui che nasce la figura del vampiro moderno, che nel folklore balcanico e slavo d’origine viene descritto come gonfio e scuro, grottesco, mentre Lord Ruthven (leggasi /ˈrɪvən/), l’antagonista del romanzo, è affascinante e piuttosto pallido – magari è servito da ispirazione al fidanzato di una famosa Winx, vista l’assonanza dei nomi…
Ad ogni modo, il mito letterario del mostro succhiasangue si sviluppa nel corso dell’Ottocento, diventando popolare grazie a opere come Varney, il vampiro, feuilleton del 1847 attribuito sia a James Malcolm Rymer che a Thomas Peckett Prest (probabili autori anche del diabolico Sweeney Todd), e Carmilla, novella dell’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu (1872). Ma non sono né l’uno né l’altra a consacrare il vampiro nella letteratura gotica e, più in generale, nella cultura popolare. Per quello, bisogna ringraziare un altro irlandese, Abraham “Bram” Stoker, nato proprio nel 1847.
L’infanzia di Stoker ha un che di gotico, in effetti. Il piccolo Bram ha una salute tanto cagionevole da restare confinato a letto fino all’età di sette anni, quando, a detta dei medici, guarisce “miracolosamente”. La sua forma fisica non sembra subire grandi conseguenze, tanto che il giovane Stoker eccelle nelle discipline sportive al Trinity College di Dublino, dove segue i corsi di storia, letteratura e fisica, e si laurea in matematica a pieni voti. Durante gli anni dell’università, presta servizio come critico per il Dublin Evening Mail, su cui recensisce gratuitamente gli spettacoli teatrali. Dopo aver lavorato come impiegato pubblico per un breve periodo, diventa segretario dell’attore Henry Irving e, nel 1878, dirigente finanziario del Lyceum Theatre di Londra, incarico che manterrà per quasi trent’anni. La sua carriera letteraria, invece, è più instabile, e si articola principalmente in racconti a tema soprannaturale pubblicati su varie testate tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’90, un romanzo (La via del vizio, 1875) e un libro di fiabe per bambini, Racconti al tramonto (1881), oltre ad alcuni saggi. Verso la fine del secolo, lo scrittore pubblica alcuni romanzi che spaziano tra l’avventura e il sentimentale, fino all’exploit di Dracula (1897), il cui successo offusca, in un certo senso, la sua abbondante produzione letteraria (sette romanzi e numerosi tra racconti e articoli). Il 20 aprile 1912, cinque giorni dopo il disastro del Titanic, Bram Stoker si spegne per cause indirettamente attribuite alla sifilide.
Un po’ come Lewis Carroll, anche per Stoker la formazione scientifica è un valore stilistico aggiunto, specie in Dracula, sia per quanto riguarda la preparazione dell’antagonista principale sia la stesura della trama. Stoker si documenta a fondo sui miti legati ai vampiri dell’Europa Centro-Orientale, prendendo in prestito quanto basta dalla Storia per rendere il terribile Conte un personaggio quasi reale, che alcuni hanno identificato con il famigerato Vlad III di Valacchia – sebbene non ci siano prove certe a confermarlo. Niente è lasciato al caso nell’intricato puzzle di lettere, pagine di diario e articoli di giornale che compongono il romanzo e permettono di osservare la storia da più prospettive. Ogni personaggio viene approfondito attraverso le azioni che compie, l’opinione degli altri e le intricate dinamiche del gruppo di Jonathan Harker, facendo di Dracula un romanzo sfaccettato dal punto di vista della caratterizzazione personale, in cui la vena fredda e razionale che traspare nelle voci narranti non ha nulla da invidiare all’atmosfera di certi thriller trasmessi ai giorni nostri.
Niente di strano, per Stoker, se si tiene conto della sua amicizia con Arthur Conan Doyle: proprio Sherlock Holmes verrà usato come prototipo per un personaggio presente nella bozza iniziale di Dracula e poi eliminato, una volta avvenuta la transizione da poliziesco a romanzo dell’orrore. Con un ingranaggio meticoloso, che incastra ogni elemento della vicenda, la paura non cresce a suon di ossa rotte, ma si insinua nei presagi e negli indizi svelati troppo tardi dai protagonisti, in svantaggio rispetto a un nemico che fa della propria assenza un punto di forza. Dracula, infatti, non compare per la maggior parte del libro, eppure la sua non-presenza aleggia minacciosa, come se potesse prevedere la prossima mossa dei suoi avversari e coglierli in fallo. La sorte di tutti loro è appesa a un filo sottilissimo, fino all’ultima pagina.
La popolarità del Conte presto sbarca a Hollywood: insieme a Frankenstein, la Mummia e l’Uomo-lupo, Dracula è una delle creature più note dei mostri della Universal, filone di lungometraggi horror realizzato tra il 1923 e il 1956 dalla Universal Pictures. Il Dracula di Bela Lugosi, nel 1931, incorpora gli elementi standard che per decenni caratterizzeranno i vampiri nell’immaginario collettivo, almeno fino all’uscita dei romanzi di Anne Rice (Intervista col vampiro su tutti), Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola (1992), di Buffy l’Ammazzavampiri e, ultima ma (non) per importanza, la patinata saga di Bella Swan e famiglia acquisita. Un’altra celebre interpretazione è quella di Christopher Lee, che indossa i panni dell’Impalatore per ben sedici volte tra il 1958 e il 1976, e resta impresso nella memoria di un giovane Tim Burton, che per questo motivo recluterà Lee ne Il mistero di Sleepy Hollow.
Riferimenti espliciti al Principe delle tenebre si possono trovare, inoltre, nel mondo dei videogiochi con Castlevania e il relativo anime, nei fumetti come Blade, in cui è l’antagonista dell’omonimo cacciatore di vampiri, o Hellsing, manga dove il conte di Valacchia, sotto l’anagramma di Alucard (non proprio originale), si mette al servizio di un’organizzazione il cui scopo è difendere gli esseri umani da pericolose entità soprannaturali. E, se vogliamo strizzare l’occhio alla commedia nostrana, possiamo farci due risate con Aldo Baglio e l’inganno della cadrega, oppure con Paolo Villaggio in Fracchia contro Dracula – diciamo pure che non c’è vampiro senza Dracula, ormai!
Il successo del Conte ha oscurato le opere minori della produzione di Stoker, al punto che molte risultano irreperibili anche in lingua originale, anche se non sarebbe felice di sapere che il suo ultimo romanzo, La tana del Verme Bianco (1911), viene considerato da molti critici come uno dei peggior libri mai scritti. Guardando ai titoli della sua produzione letteraria, sembrerebbe quasi che il bambino costretto a letto nei primi anni di vita, e forse terrorizzato da una malattia inspiegabile (almeno per noi posteri), non abbia fatto altro che recuperare il proprio coraggio passando da un mistero all’altro, con qualche fiore d’arancio a coronare il lieto fine negli horror come nei romanzi rosa finiti nel dimenticatoio.
Still a better story than Twilight, comunque!
di Joanna Dema
Sono Joanna, senz’acca e con la J di Just Dance, per quanto sia un pezzo di legno. Non sono molto brava a parlare di me seriamente, perciò preferisco che lo facciano gli altri. Essendo nata nel ’98, dovrei avere più di vent’anni, ma ho iniziato a contarli al contrario perché la gente non me ne dà più di quindici. Pare che a quaranta sia una bella cosa. Si spera di arrivarci, apocalisse permettendo. Spero anche di finire la magistrale in traduzione prima che sia lei a finire me, ma ride bene chi ride ultimo…
Non fiori, ma cioccolatini (a un primo appuntamento)