Già donna-caschetto, già personaggio, maschera dietro la quale si cela la spinta rivoluzionaria di un’artista che ha avuto la forza di andare contro il “bello” e il “convenzionale”, Agnès Varda nel 1962 dirige il suo secondo lungometraggio seguendo, camera in spalla, il girovagare di una giovane cantante parigina mentre si addentra nella labirintica capitale francese fatta di boulevard e café. La pellicola allora inquadra Cléo, si trasforma in uno spaccato sulla sua vita dove la protagonista è vista, nel lasso temporale che va dalle 17 alle 19, in attesa di importanti risultati medici. In queste due ore, Cléo incontra amici, conoscenti e perfetti sconosciuti, entra in caffè e cinema, negozi, taxi. Costantemente perseguitata dal pensiero pessimistico riguardo i risultati dei test clinici, intavola discorsi sul senso della vita e sulle scelte fatte. La trama della pellicola del ‘62 sembra piuttosto semplice e lineare, ma siamo davvero sicuri sia questo il filo narrativo che possa riassumere l’opera e racchiuderne il significato in poche righe?
Se si è presa visione del film, si saprà che quella che è stata appena indicata come trama rappresenta in effetti il filo narrativo del film. Ma ci si sarà resi conto anche che nel riassumere un film come quello di Varda in una semplice sequenza di fatti ed eventi si ha l’impressione di tralasciare qualcosa. Si ha questo sentore di aver trascurato una qualche linea narrativa, un qualche personaggio, un qualche sviluppo logico per cui il senso di quello che ci è appena trascorso dinnanzi agli occhi sfugge. Ecco allora che la trama di Cléo dalle 5 alle 7 deve essere riconsiderata, riformulata. Si vuole optare per un periodo o una proposizione che condensi il significato della pellicola, ma come? Il film d’esordio di Varda è un film sulla malattia e le sue conseguenze? Oppure sull’attesa? Oppure sull’attendere e quindi, in ultimo, nello stile beckettiano di Aspettando Godot, sulla condizione umana? Si provi a considerare la seguente:
Cléo dalle 5 alle 7 è un film sulla natura del film.
“Ma che sciocchezze!” direte: non viene mai citato un film all’interno dell’opera ad eccezione che in una scena secondaria per rilevanza e durata. Sì, questo è vero. Ma per ispezionare questa frase così ermetica e così piena di potenziale espressivo si invita a pazientare e a intraprendere una piccola deriva sulla natura del mezzo di espressione filmica.
Quando si scrive “è un film sulla natura del film” non si fa riferimento a una corrispondenza di tipo documentaristico per cui lo schermo mostrerebbe e spiegherebbe in modo didascalico e accademico il funzionamento logico e semiotico di altre opere precedenti ad esso, ma, piuttosto, una rappresentazione filmica strutturata in modo tale per cui il senso che ne emerge rimanda alla struttura stessa che la forma, al suo scheletro compositivo. Tento di spiegarmi meglio. Riprendendo il pensiero di diversi illustri teorici della prima metà del novecento, e in particolare quello di Jean Epstein, risulta più semplice cogliere il legame tra struttura comune cinematografica e lo sviluppo del film di Varda. Per il teorico francese la qualità più significativa del cinema risiede nella fotogenia. Questa:
« appariva prima di tutto come funzione della mobilità. In realtà il più banale dei paesaggi, la scenografia più ordinaria, il mobile più comune, il volto più ingrato possono diventare interessanti sullo schermo, cioè fotogenici, se vengono mostrati durante una continua evoluzione delle loro forme. […] Così, il movimento – questa apparenza che né la pittura, né il disegno, né la fotografia, né alcun altro mezzo è in grado di riprodurre e che solo il cinematografo sa rendere – costituisce la prima qualità estetica delle immagini sullo schermo. » 1
Per Epstein dunque il valore principale del mezzo cinematografico, si è reso piuttosto esplicito, risiede nella sua temporalità, nella sua capacità di dispiegarsi attraverso il tempo mostrandone l’evoluzione delle forme e dei soggetti. Il tempo in Cléo dalle 5 alle 7 fa da protagonista: basti pensare al fatto che un riferimento temporale è stato posto accanto alla protagonista femminile proprio nel titolo dell’opera. Quello che si sostiene, infatti, è che il tempo non sia un semplice mezzo narrativo ma che assuma il ruolo di protagonista nella cui spirale vedono dipingersi i vari personaggi. A più riprese l’opera ci ricorda delle lancette che scorrono, dell’attesa, dell’ora in cui dovrà avvenire la chiamata col dottore. E Cléo viene osservata, come sotto una lente d’ingrandimento, in tutti questi istanti: essa è il soggetto, o forse meglio dire l’oggetto, che viene scrutinato durante un lasso temporale. Essa è l’oggetto che viene mostrato durante una continua evoluzione della sua forma, come direbbe Epstein.
Allora cosa ci racconta, cosa ci mostra quest’ opera?
Ci mostra la natura stessa del cinema: lo scorrere, lungo una linea temporale instancabilmente in movimento, di un oggetto sotto una pupilla meccanica giudicante e in perenne stato di osservazione. La macchina-cinema è occhio indagatore, scrutina nel tempo. A più riprese la questione dello sguardo, il voyeurismo tipico del mezzo cinematografico, viene affrontata dal film. Cléo è affetta da una preoccupazione estrema e proprio lo sguardo altrui la schiaccia. In quelle poche ore, di occhi puntati su di lei, di sguardi estranei, ella teme si possa rivedere malata; teme che la barista, il tassista, la giornalaia possano trovare la malattia, il cambiamento, la trasformazione del suo corpo che inevitabilmente la porti verso il decadimento. “Non potrei mai, mi sentirei vulnerabile” è la frase che dice la cantante alla sua amica che posa per uno sculture. Ma noi la seguiamo e il film ci rende autocoscienti. Ci libera dalle catene della contemplazione e dell’immedesimazione per introdurci a una visione cognitiva, in stato di veglia. Esso riporta lo spettatore alla sua condizione in sala, al soggetto come vedente, come voyeur che indaga la spettacolarità cinematografica proprio come gli sconosciuti indagano Clèo: alla ricerca di un cambiamento, alla ricerca di una deformazione.
E così si chiude il ciclo di rimandi, spunti e riflessioni che la pellicola di Varda evoca. Essa si dispiega dunque come un’opera meta-cinematografica e autoreferenziale che ha il compito di mettere in mostra le proprie nervature, la propria struttura scheletrica per poi infine rendere lo spettatore autocosciente delle dinamiche che egli stesso intraprende con/insieme al mezzo filmico.
1. Id., Le Cinéma du Diable, Jacques Melot, Paris 1947 (Il cinema del diavolo, in: L’essenza del cinema, cit., p.138)
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di Matteo Paguri
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, ve ne prego, non chiedetemi l’ascendente perché non me lo ricordo: già troppe volte l’ho “calcolato”, “cercato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia come si può dedurre. In realtà non amo troppo descrivermi quindi che dire? Studio l’arte del cinema all’università di Padova in particolare frequento il corso di Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Laureato al Dams di Bologna, il motto della mia vita è “sarà quel che sarà”.
P.S. I soggetti dei miei pezzi sono tutto ciò che mi ha colpito, attratto, rapito durante il corso di questa bellissima esperienza con Eclisse. Piccole tessere che compongono il mosaico della mia attrazione verso l’arte-cinema.