In questo articolo si parlerà di violenza di genere e femminicidio.
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arrivata a pesare quaranta chili nascondo panini in mezzo alle siepi barattoli di vomito sotto ai maglioni morire prima del cambio di stagione1
La poesia descrive il quarantaquattresimo tentato suicidio tra i cinquanta che Alessandra Carnaroli racconta nella raccolta 50 tentati suicidi più 50 oggetti contendenti, articolata in due sezioni che descrivono rispettivamente 50 modi in cui l’autrice immagina di morire e 50 oggetti con cui potrebbe essere uccisa. Non saprei dire quale delle due sia più sconvolgente nella loro disarmante semplicità.
La Carnaroli ha rivelato il segreto dell’efficacia della sua poesia in un’intervista pubblicata su La Lettura del Corriere della sera (numero #544), quando afferma «scrivo cosa vedo, non il contesto in sé, tanto meno la spiegazione di cosa sta succedendo. Immagini».
Questa affermazione risulta tanto interessante quanto più la si lega all’argomento della raccolta: cento possibili morti raccontate con estrema lucidità attraverso il linguaggio della quotidianità. Infatti, la morte prospettata in ogni poesia non viene mai nominata, acquisendo un peso ancora maggiore nel momento in cui viene soltanto evocata attraverso parole che rimandano indirettamente ad essa.
L’intento della Carnaroli (come afferma nella stessa intervista) è proprio quello di «sottolineare la semplicità dei gesti»: ogni sfaccettatura della quotidianità può essere descritta e rifunzionalizzata in quanto possibile mezzo per il suicidio. Una cravatta o meglio ancora la cinta dell’accappatoio, la busta di plastica del fruttivendolo, l’acqua che scorre dal rubinetto, un acino d’uva o un pomodoro di traverso, sono solo alcuni dei possibili mezzi immaginati.
Per quanto riguarda la seconda parte della raccolta, l’idea arriva alla Carnaroli da un fatto di cronaca: l’omicidio di una donna da parte del marito con cinquanta oggetti differenti. L’autrice quindi li immagina, li racconta e loro dà vita. Per ognuno di questi viene creata una storia, viene offerto al lettore uno spaccato di vita quotidiana che potrebbe essere la sua, pur l’esito restando inevitabilmente quello del femminicidio.
la padella grande di alluminio dove ci cuoci il sugo che stai sempre a mescolare se no si attacca l'hai vista su masterchef ti sei innamorata subito compriamola ci mettevi un litro d'olio ora il fondo alto del tuo sterno crea la base giusta per la cottura una specie di piastra
La raccolta, dunque, nel suo complesso parla di femminicidio, intessendo una trama di riferimenti che rimangono sottesi nella prima parte, per essere resi evidenti nella seconda.
Con questa minuziosa descrizione di oggetti, situazioni intime, ricordi di una vita apparentemente felice che si rovescia traducendosi in morte, la Carnaroli racconta una realtà profondamente radicata in Italia: quella della violenza contro le donne. Un tema già trattato dalla scrittrice in raccolte che precedono quest’ultima, come Femminimondo (2011) e Poesie con katana (2019), attraverso il linguaggio crudo e spiazzante che la contraddistingue: l’unico linguaggio possibile per raccontare la violenza di genere, troppo spesso romanticizzata dalle testate giornalistiche che riportano questi fatti di cronaca.
Il problema di come raccontare il femminicidio è affrontato con precisione da Carlotta Vagnoli, autrice e attivista che utilizza il proprio profilo Instagram come strumento di divulgazione per temi legati alla violenza di genere.
«Il femminicidio è la manifestazione estrema della violenza di genere e coincide con la cancellazione della donna. Con questo si intende una cosa ben precisa: le vittime di femminicidio muoiono tutte per la stessa ragione, con lo stesso movente.»
È questa la descrizione di un post pubblicato su Instagram il 24 agosto 2021, in cui la Vagnoli denuncia l’incapacità dei giornali di parlare di violenza di genere nel modo corretto, ovvero senza riportarla al troppo amore, a patologie psichiche, a gelosia o follia. «Le donne vengono uccise in quanto donne cioè per il ruolo che ricoprono nella nostra società patriarcale», in quanto oggetti di proprietà, un possesso, che è in realtà una manifestazione culturale delle stereotipizzazioni di genere.
Tutti questi temi vengono raccolti dall’autrice nel libro Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere, una summa di quanto si può trovare sul suo profilo social: la denuncia di un sistema patriarcale che non vuole riconoscere il problema e che men che meno è in grado di raccontarlo.
«Iniziare a condannare le manifestazioni di violenza di genere tramite articoli precisi e centrati è necessario. In primis per responsabilizzare il sistema. Poi per non mancare di rispetto alle vittime. E in terza battuta, per creare finalmente consapevolezza e allarme sulla società in cui viviamo e in cui nessuna donna è potenzialmente al sicuro e nessun uomo è immune alla cultura sessista.»
Questa stessa denuncia si ritrova sul profilo Instagram di un’altra autrice e attivista, Michela Murgia (nonché nei libri da lei pubblicati come L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) del 2013 o Stai Zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più del 2021). La scrittrice raccoglie nella sua “rubrichetta” settimanale articoli di giornali che descrivono gli assassini come innamorati, spesso sposandone la visione, portando il lettore a immedesimarsi in lui, parlando di moventi passionali e quindi romanticizzando l’omicidio.
«Smettete di dare alle donne la colpa delle loro morti» è l’affermazione che più mi ha colpita scorrendo le storie postate dalla Murgia su Instagram, dal momento che tutte le donne che muoiono di femminicidio muoiono per il loro essere donne in una società patriarcale: un fenomeno sistemico che non può essere romanticizzato.
Per questo il libro della Carnaroli mi ha toccata a tal punto: per la verità che riporta, per la dignità che assegna alla morte della donna uccisa tramite cinquanta oggetti differenti per il solo fatto di essere donna. Nella violenza, nello stupro, nel femminicidio “sceglie il padrone”.
Note
- Alessandra Carnaroli, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti, Torino, Einaudi, 2021.
di Greta Beluffi
Studentessa di lettere classiche a Milano, scrittrice di poesie a Pavia: mi chiamo Greta e ho 21 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.