Premessa
Siamo nell’estate del 1989.
Mentre i Nirvana hanno appena esordito con il loro primo album Bleach, e Giuseppe Tornatore, grazie a Nuovo cinema paradiso, ha fatto guadagnare all’Italia il premio Oscar come miglior film straniero, in Europa una città è ancora divisa in due: il muro di Berlino non è crollato. Stiamo vivendo durante il periodo della guerra fredda ed è dal 1945 che il nostro sguardo legge il mondo e il sistema delle relazioni internazionali attraverso un’ottica bipolare.
Blocco occidentale contro blocco orientale. USA contro URSS. Capitalismo contro Comunismo. Nel 1989, però, questa “guerra non guerreggiata” è giunta alla sua ultima fase; molte persone – dal politologo all’illustre economista, dal giovane studente alla casalinga – iniziano a capire che le lenti usate fino a quel momento per guardare il mondo non sono più tanto adatte. Devono essere sostituite: con quali, però, non si sa.
È La fine della storia?, si domanda dunque Francis Fukuyama, giovane politologo statunitense, che intitola così un articolo pubblicato sul bimensile The national interest. Egli prevede che il muro di Berlino e tutte le barriere ideologiche crolleranno a breve, decretando la fine dell’Unione Sovietica e il trionfo della democrazia liberale e del modello occidentale. Secondo la sua analisi ottimista, il mondo avrebbe potuto dare l’addio alle armi. Ebbene sì, per Fukuyama, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ‘‘la storia è finita’’.
Come si può immaginare, previsioni tanto positive attirano molta attenzione, facendo prendere ai vari esperti posizioni a sostegno e non. Il principale oppositore è Samuel Huntington, che, nel suo articolo Lo scontro di civiltà?, diventato poi un saggio, dipinge un quadro molto diverso e molto più negativo: le grandi divisioni dell’umanità persisteranno, i conflitti continueranno ad esistere e a seminare il caos. In particolare, nella sua visione vengono riletti i confini del mondo dando peso alla componente culturale, soprattutto a quella religiosa.
Dunque, come tutti i cittadini del 2022 ben sanno, purtroppo la realtà dei fatti non ha dato ragione alle parole scritte da Fukuyama. In questo momento, la guerra occupa la maggior parte dello spazio sui giornali e nei notiziari in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo lo scorso 24 febbraio. Il tema di questo Editoriale deriva proprio dal conflitto attuale, dallo sgomento che sta provocando, dalla nostra incredulità iniziale e dal senso di impotenza che proviamo di fronte a questa situazione.
La prospettiva di un mondo senza guerre delineata dal giovane politologo nel 1989 viene vanificata già l’anno successivo con la prima Guerra del Golfo. Nel corso del tempo, non solo le divisioni e i muri sono proliferati, ma la guerra stessa ha cambiato volto, avendo bisogno di essere ridefinita e di vedersi assegnati confini più labili. Per la generazione di cui facciamo parte, l’approccio ad essa è avvenuto solamente sui manuali di storia del liceo e la percezione è sempre stata quella di un fenomeno distante. Il programma scolastico permette di studiare solo le gesta degli antichi romani, di Napoleone e De Gaulle, tralasciando completamente eventi come le guerre dei Balcani degli anni 90, la prima e la seconda Guerra del Golfo, il genocidio in Rwanda o le primavere arabe. Questa impostazione alimenta la nostra percezione della guerra come un fenomeno lontano non solo in termini cronologici (chi riuscirebbe ad immedesimarsi con le vicende del 1853?), ma anche in termini più concreti. I conflitti di oggi, infatti, non sono quelli di inizio ‘900: accanto ai tradizionali mezzi militari, ci sono strumenti tecnologici moderni, inoltre lo scontro non è necessariamente tra una nazione A e una nazione B (pensiamo, ad esempio, ai gruppi terroristici) e il campo di battaglia diventa molto più spesso quello economico, cibernetico o spaziale. Possiamo parlare, dunque, di “guerre asimmetriche” o di “guerre ibride”, all’interno delle quali i confini non sono così ben tracciati e gli elementi irregolari dominano il palcoscenico.
Di fronte a questa situazione complessa, di fronte ad un mondo che cambia e dinamiche che si evolvono continuamente, stiamo osservando un leader che ragiona e agisce con una filosofia del potere che si è originata e plasmata nel contesto di un impero zarista, da cui sembra non volersi staccare. Ci ritroviamo davanti alla messa in atto di un mindset che risulterebbe ben integrato in quella circostanza e che noi europei, oggi, avendo fiducia nelle capacità diplomatiche dell’umanità, eravamo convinti fosse del tutto obsoleto, inattuale, arretrato.
In questi mesi, abbiamo imparato a sentire il conflitto vicino. È facile empatizzare con le immagini che vediamo sui social: vengono ritratte persone simili a noi e solo qualche confine nazionale separa casa nostra dalla loro. Non possiamo chiudere gli occhi davanti a tutto questo solo perché viviamo in pace da 72 anni grazie a progetti politici e organizzazioni internazionali che tendiamo a dare per scontati. Siamo bambini nati fortunati. È importante ricordarselo per rendersene davvero conto e riconoscergli tutto il suo immenso valore.
Con questo Editoriale, il nostro intento non è quello di fornire un’analisi geopolitica approfondita, ma, piuttosto, di stimolare riflessioni e osservazioni comuni, parlando anche di arte, istruzione, letteratura e altri ambiti culturali.
Condannando ogni forma di oppressione,
La Redazione
Bibliografia
Nicola Labanca, Vecchie e nuove guerre, in Atlante geopolitico Treccani 2012 (https://www.treccani.it/enciclopedia/vecchie-e-nuove-guerre_%28Atlante-Geopolitico%29/)
Limes, numero 6/21, Se crolla la Russia
F. Fukuyama (1989), The End of History?, The National Interest
Indice
- La voce del silenzio: le troiane di Baricco di M. Urriani
- Perché la guerra. La risposta di Freud di A. Savelli
- Guerre senza pace di J. Dema
- Tirannia di N. Lasku
- Educazione alla pace: da Montessori alle filosofie orientali di M. Gatti
- Da Leopoli a Leningrado: storie per proteggere l’arte di L. Ruffini
- Moderni controcanti di M. Capra