La voce del silenzio: le troiane di Baricco
Il mio primo incontro con l’epica – e in particolar modo con l’Iliade – è stato durante la mia prima infanzia. Tra le tante storie della buonanotte, una sera mi venne raccontato il mitico aneddoto del cavallo di Troia e ne rimasi così tanto affascinata che, nonostante ormai lo conoscessi quasi a memoria, ogni volta chiedevo che mi fosse raccontato di nuovo e, con lui, sempre un dettaglio in più di quella grande narrazione quale è l’Iliade, l’immensa e complessa opera di Omero, nonché uno dei primi poemi epici arrivati a noi fino ad oggi.
Quando mi chiedono che cosa mi avesse tanto affascinato di quell’opera, rispondo rifacendomi a quello che Walter Ong, noto antropologo statunitense del secolo scorso che si è dedicato all’analisi della trasmissione orale dei poemi omerici, definiva come l’antropologizzazione del discorso orale, vale a dire il continuo «riferimento al ruolo della figura umana e al concreto contesto dell’enunciazione in cui la narrazione si svolge»1. Applicando questa definizione all’esperienza recettiva dell’infanzia, significa che ciò che rimane – o può rimanere – di un’opera così complessa ed estremamente lontana in termini spazio-temporali sia, da un lato, la componente umana della narrazione, fatta di dinamiche, dialoghi, epiteti ed espressioni ricorrenti; dall’altro, la modalità trasmissiva, fatta di ritmo, intonazione, interpretazione e coinvolgimento emotivo, al fine di trasmettere il famoso insegnamento etico-morale.
Ciò che mi era rimasto impresso della storia erano quadri e scene singole, come il toccante quadretto familiare che vede Astianatte in braccio ad Andromaca giocare con il pennacchio dell’elmo del padre Ettore, mentre la donna cerca di dissuadere l’eroe dall’andare incontro alla morte, richiamandolo ai suoi doveri di marito e padre; così come anche i singoli personaggi con le loro descrizioni e il loro essere portatori di valori ed etica. È indubbio, quindi, che risulti facile innamorarsi di un’opera così potente, da cui emerge soprattutto una forte componente eroica, base di tutta l’epica.
L’Iliade, ancor più dell’Odissea, presenta tantissimi eroi, diversi tra loro per caratteri e per il loro stesso eroismo: da quello cieco di Achille a quello più umano di Ettore, dall’invidia cinica di Agamennone all’orgoglio patetico di Menelao, che si era recato a Troia, più che per la guerra, per riprendersi Elena e battere a duello Paride. Se da un lato dal poema emerge il valore, l’etica e il rispetto non tanto dei singoli individui quanto dei vinti e dell’anzianità, dall’altro, tenendo ben presente che si tratta di un’opera scritta nell’VIII sec. a.C. e, quindi, come tutti i testi, interconnesso alla visione imperante, è un storia che, più di altre, mette in luce i giochi di potere tra maschile e femminile e, soprattutto, il diverso modo in cui i sessi vivono la guerra. Se, infatti, la guerra dell’èpos rappresentava, per i maschi, la ricerca di gloria eterna o un modo per essere un gradino più vicini al divino e una dimostrazione di pura virilità – basti pensare al motto con cui le madri spartane educavano i loro figli, futuri soldati, «Ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς (Ē tān ē epi tās)», ovvero “o con lo scudo, o sopra lo scudo”, per le donne non era altro che terrore, violenza fisica e sessuale, morte, soprusi e sottomissione.
L’Iliade è un poema dove la presenza femminile è corposa e presente, molto presente, e le sorti delle varie personagge è ben narrata da Euripide nelle sue Troiane e nelle altre sue tragedie dedicate singolarmente alle varie donne di Troia: la maggioranza di loro furono prese dagli Achei e rese schiave dei vari “eroi” greci. Proprio perché le donne dell’Iliade sono consapevoli delle loro sorti, cercano quindi di farsi portatrici di un messaggio: la pace.
«Sono spesso le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace»2 ci dice Alessandro Baricco nella sua Postilla sulla guerra, riflessione che chiude il testo che propone un’interessante retrospettiva sulla guerra di Troia, una visione che dà voce anche e soprattutto alle donne del poema omerico. La grandezza di Omero, Iliade di Baricco sta nel lavoro stesso attuato dallo scrittore sul testo, che si appoggia alla traduzione dell’Iliade di Maria Grazia Ciani, traduzione vicina al sentire dello scrittore, soprattutto perché in prosa.
Per quanto nel corso degli ultimi anni molte autrici si siano cimentate con personali interpretazioni del poema omerico, ho scelto di appoggiarmi al testo di Baricco per due motivi principali: il primo riguarda una semplice questione di affezione nei confronti di questo testo specifico. Il secondo motivo sta nel fatto che il testo di Baricco si attiene alla traduzione d’autrice, rispetto ad interpretazioni più contemporanee come Il silenzio delle ragazze di Pat Barker o Il canto di Calliope di Natalie Haynes, entrambi del 2019, che strizzano molto l’occhio ai romanzi di Madaline Miller e cercano di riscrivere il poema omerico in chiave iperfemminista, ottenendo quindi, sì, un testo nuovo ma troppo lontano dal messaggio originale. Il lavoro dell’autore, qui, consiste nell’aver tagliato le eccessive formularità e nella ricerca di «un ritmo, la coerenza di un passo, il respiro di una particolare velocità e di una speciale lentezza. L’ho fatto perché credo che ricevere un testo, che viene da così lontano, significhi sopra ogni cosa cantarlo con la musica che è nostra»3.
Quel “cantare nel proprio modo” si riferisce all’intervento di resa soggettiva della narrazione. Infatti, è estremamente soggettiva l’Iliade di Baricco e le donne che parlano sono donne, non donne che parlano con le parole di un uomo. Di alcune di loro sentiamo direttamente la voce, di altre veniamo a conoscenza del loro pensiero e della loro storia tramite le parole di altre, il tutto con uno scopo ben preciso: dare la parola alle donne e provare a comprendere come quelle donne abbiano vissuto la guerra sulla loro pelle. Apre la narrazione un personaggio minore del poema omerico, Criseide, la figlia del sacerdote Crise. Con il ricordo di Criseide, ci troviamo alla fine del conflitto e assistiamo ad un monologo nel quale la donna sta cercando di introiettare il dramma della guerra: nonostante sia riuscita a sfuggire alla guerra, una parte di quell’orrore non l’ha comunque risparmiata.
«Erano nove anni che gli Achei assediavano Troia: spesso avevano bisogno di viveri o animali o donne, e allora lasciavano l’assedio e andavano a procurarsi quel che volevano saccheggiando le città vicine. Quel giorno toccò a Tebe, la mia città […] Fra le donne che rapirono c’ero anch’io. Ero bella: quando, nel loro accampamento, i principi achei si divisero il bottino, Agammennone mi vide e mi volle per sé […] mi portò nella sua tenda, e nel suo letto. Aveva una moglie in patria, si chiamava Clitemnestra. Lui l’amava. Quel giorno mi vide, e mi volle per sé.»4
Queste poche parole mostrano come la guerra di Troia – così come ogni guerra- abbia depersonalizzato le donne, privandole lentamente di ruoli, posizioni, anche di potere (come nel caso di Ecuba), ma soprattutto della dignità, riducendole a meri corpi atti ad espletare un puro bisogno sessuale e di possesso. Per ben sei pagine di narrazione, Criseide ci porta all’interno dei giochi di potere maschili, dove lo scopo primario non era porre fine ad una guerra interminabile e violenta, ma spartirsi i bottini ottenuti per dimostrare il proprio potere, prestigio e virilità tossica. Dalle parole di Criseide emerge anche un lieve senso di solidarietà femminile nei confronti di Clitemnestra, la moglie di Agamennone rimasta in patria, e di giudizio aspro verso un sistema profondamente maschilista e patriarcale. Il suo monologo si chiude con una sensazione di angoscia, sentimento che accompagnerà Criseide per il resto della sua vita:
«Potete immaginare cosa fu, poi, la mia vita? Ogni tanto sogno di polvere, armi, ricchezze e giovani eroi. È sempre lo stesso posto, in riva al mare. C’è odore di sangue e di uomini […] Quando mi sveglio c’è mio padre, al mio fianco. Mi accarezza e mi dice: è tutto finito, figlia mia. Dormi. È tutto finito.»5
Con il sangue inizia anche il flusso di coscienza di Elena, forse una delle donne più discusse, non solo del poema omerico, ma della storia della letteratura, alla quale si attribuisce totalmente la colpa dello scoppio della guerra di Troia. Nel monologo, la cogliamo assorta nell’atto di tessere «su una tela color sangue»6 le azioni di una guerra dolorosa combattuta “per lei”. La maestria di Baricco, qui, sta nell’aver reso con una delicata schiettezza critica il senso di colpa impostole dalla società: mentre la donna si appresta ad andare ad assistere al duello tra il legittimo marito e Paride, combattimento di cui sarà «il premio del vincitore»7, ella coglie sprazzi di dialoghi tra vari vecchi locali, dialoghi vòlti ad alimentare proprio quel senso di colpa:
«Li sentii che borbottavano, quando mi videro, “Non c’è da stupirsi che Troiani e Achei si ammazzino per quella donna, non sembra una dea? Che le navi se la portino via, lei e la sua bellezza, o non finirà mai la rovina nostra e dei nostri figli”. Così dicevano, ma senza osare guardarmi.»8
L’unico a trattarla con dignità è Priamo, che la rincuora dicendole che “la colpa non è sua ma degli dei”, una perifrasi per indicare le sfortunate circostanze. Anche dal racconto di Elena emerge la critica all’oggettificazione della donna, ma troviamo anche un attacco a Paride, perché è proprio su di lui, infatti, che si dovrebbe far ricadere la colpa, non su di lei, in quanto l’uomo l’ha irretita: come avrebbe potuto una giovane donna ribellarsi alle moine di un principe, per di più alleato politico di Sparta, la città da cui Elena proveniva?
«Mi disse che Menelao aveva vinto, quel giorno, perché gli dei erano stati dalla sua parte, ma che magari la prossima volta a vincere sarebbe stato lui, perché anche lui aveva degli dei amici. E poi mi disse: vieni qui, facciamo l’amore. Mi chiese se mi ricordavo la prima volta che l’avevamo fatto, sull’isola di Crànae, proprio il giorno dopo che mi aveva rapita. E mi disse: neanche quel giorno io ti ho desiderata tanto come ti desidero adesso. Poi si alzò e andò verso il letto. E io lo seguii.»9

Che la colpa dello scoppio della guerra sia di Paride emerge anche dal racconto della nutrice, che, come afferma Baricco stesso nella già sopra citata Postilla, presenta un trittico di donne che cercano di dissuadere Ettore dall’andare al duello con Achille, nel quale morirà: la prima che incontra è la madre Ecuba, della quale Baricco mette in evidenza la dignità ancor prima che la natura dolente che, invece, emerge dalla narrazione di Euripide. Poi, troviamo nuovamente Elena, questa volta narrata e non come voce narrante, per la quale la nutrice nutre anch’essa una sorta di astio e di cui mette in luce la sua natura di tentatrice di uomini, cercando di portare Ettore ad unirsi carnalmente con lei e venire meno al suo impegno coniugale.
In ultimo, troviamo Andromaca (che ritroveremo anche più avanti come voce narrante), che dimostra una profonda capacità dialettica e anche una notevole competenza militare e strategica, mettendo in luce come le fosse stata impartita un’ educazione atipica per l’epoca:
«Ettore, tu mi sei padre, e madre, e fratello, e sei il mio sposo, giovane: abbi pietà di me, resta qui, sulla torre. Non combattere in campo aperto, fa’ arretrare l’esercito vicino al fico selvatico, a difendere l’unico punto debole delle mura, dove già tre volte hanno tentato l’assalto gli Achei, spinti dal loro coraggio.»10
Le sorti di Andromaca saranno tragiche: il figlio gettato dalla rupe e lei fatta schiava di Neottolemo, il figlio di Achille. Quello di Andromaca, l’ultimo dei monologhi dell’Iliade di Baricco dove prende parola una donna, è forse uno dei più toccanti e filosofici, insieme a quello che chiude l’opera, in cui a parlare sarà l’aedo Demodoco.
Un monologo brevissimo, dove viene raccontato il duello tra Ettore ed Achille in termini crudi, serrati, ma, al contempo, filosofici ed estreamente poetici. È nell’ultima parte del flusso di coscienza che Andromaca, in sole venticinque righe, riassume le atrocità della guerra, dalle sorti delle donne a quelle dei figli, alla perdita, spesso ingiusta, dei propri amati, ma, soprattutto, il senso di rabbia e di impotenza per un destino già scritto. Aggiungere altre parole sarebbe superfluo e retorico, pertanto lascio la parola al dolore stesso:
«Era così bello il tuo volto. E adesso striscia nella terra, coi bei capelli bruni che, strappati, volano nella polvere. Eravamo nati lontani, noi due, tu a Troia io a Tebe, ma un solo destino ci aspettava. Ed è stato un destino infelice. Adesso mi lasci vedova nella tua casa, immersa nel più tremendo dolore. Il figlio che abbiamo avuto insieme è ancora così piccolo: non potrai più aiutarlo, e lui non potrà aiutare te. Se mai sopravviverà a questa guerra, per sempre gli saranno accanto pena e dolore, perché chi non ha un padre perde gli amici, e con fatica difende i suoi averi. A occhi bassi, il volto rigato di lacrime, andrà a tirare il mantello di altri padri, per avere protezione, e qualcuno magari avrà uno sguardo di pietà per lui, ma sarà come bagnare le labbra a un assetato […] Ettore… Il destino ti ha fatto morire lontano da me, e questo sarà per sempre il mio dolore più grande: perché non ho avuto per me le tue ultime parole: le avrei tenute strette e le avrei ricordate per tutta la vita: ogni giorno e ogni notte della mia vita. […] Tuniche bellissime e ricche, tessute da mano di donna, ti aspettavano qui. Andrò nella reggia, le prenderò e le getterò nel fuoco. Se questa è l’unica pira che posso fare in tuo onore, la farò. Per la tua gloria, davanti a tutti gli uomini e le donne di Troia.»11

Note
- p. 13, da La narrazione orale, in Bernardelli, A, Ceserani, R, Il testo narrativo, Bologna, Il Mulino, 2005.
- p. 158, in Un’altra bellezza. Postilla sulla guerra, da Baricco, A., Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano, 2011; tutte le citazioni sono tratte da qui
- Ivi, pp. 8-9
- Ivi, p. 13
- Ivi, p. 18
- Ivi, p. 29
- Ibidem, p. 29.
- Ibidem, p. 29.
- Ivi, p. 34.
- Ivi., p. 52.
- Ivi, p. 139
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