Da Leopoli a Leningrado: storie per proteggere l’arte
A Leopoli, città di oltre 700.000 abitanti nell’Ucraina occidentale a 60 km dal confine polacco, si respira un clima teso. La città, almeno fino al momento della scrittura di questo articolo, non ha ancora subito i pesanti bombardamenti che altre città ucraine hanno dovuto sopportare nelle scorse settimane. Leopoli è un punto di snodo fondamentale in questa tragica guerra: ogni giorno passano da qui migliaia di persone, fra quelle che lasciano l’Ucraina e quelle che ci ritornano, per motivazioni umanitarie o per andare al fronte; Leopoli è, in queste settimane, una sorta di capitale ucraina pro tempore, perché lì sono state temporaneamente trasferite la quasi totalità delle ambasciate straniere, dopo aver lasciato Kyiv, assediata dall’esercito russo.
Sfruttando la vicinanza con il confine polacco e la lontananza dai punti focali di questo conflitto, gli abitanti cercano di prepararsi al meglio per un potenziale attacco, che non sanno se e quando arriverà. Fra chi fugge passando il confine con l’Unione Europea, chi prepara il necessario in bunker o cantine, ci sono anche altre persone che stanno cercando protezione, non per loro, ma per la loro città. Il centro storico di Leopoli è un sito UNESCO, così come altri sei luoghi in Ucraina, ed è necessario salvaguardarlo insieme ai suoi tesori. Lo staff del Museo Nazionale Andrey Sheptytsky, fra i più grandi del paese, con una impressionante collezione di arte sacra, ha iniziato giorni fa a svuotare le sale espositive e gli archivi per trasportare in luoghi segreti e più sicuri le pale d’altare, le icone, i quadri, i manoscritti e i codici.
Nei giorni antecedenti allo scoppio della guerra lo hanno fatto anche i curatori del Museo Storico Nazionale dell’Ucraina a Kyiv, che hanno accuratamente messo in sicurezza dipinti e sculture, secondo un preciso piano di priorità nella scelta delle opere da favorire. Non solo sono riusciti a trasportare le opere più importanti del museo, ma le hanno portate via quasi tutte: ora, nelle sale espositive, rimangono solo le tele più grandi, impossibili da trasportare senza un adeguato supporto logistico ed economico.
Questa tragica guerra ha già fatto le sue prime vittime anche da un punto di vista artistico e culturale. Nella notte fra il 27 e il 28 febbraio è stato distrutto il Museo di Storia Locale di Ivankiv, alla periferia di Kyiv, che conservava, fra le tante opere, anche venticinque tele di Maria Prymachenko, fra le artiste ucraine più conosciute.

Queste scene non sono sicuramente una novità di questo conflitto. Da sempre, allo scoppiare di una guerra, le nazioni coinvolte hanno cercato di preservare il proprio patrimonio culturale, nascondendolo, portandolo via dalle capitali e dai centri urbani per portarlo in campagna, in castelli e monasteri, per impedire che venisse sottratto dal nemico o, peggio, danneggiato o distrutto.
Nel 1939 la collezione dell’Ermitage di San Pietroburgo, all’epoca Leningrado, contava più di due milioni e mezzo di opere, fra dipinti, statue, vasi, mobili, libri e manoscritti e gioielli. Fino alla Rivoluzione d’Ottobre questa immensa collezione veniva amministrata come possedimento personale dello Zar e della famiglia imperiale; pochissimi esperti e studiosi vi avevano libero accesso. Lo scarso interesse della comunità artistica internazionale per questa collezione la salvò dal dismembramento e dalla vendita al miglior offerente in seguito alla caduta dei Romanov.
Dal luglio 1934 il direttore del Museo dell’Ermitage era Joseph Abgarovich Orbeli (1887-1961), accademico di fama nazionale ed esperto di orientalistica. Orbeli era un uomo attento e molto previdente: nel 1937 il Museo prese in affitto alcuni spazi della Cattedrale di San Sansone, dove, all’oscuro da tutti e su ordine di Orbeli, vennero costruite numerose casse di legno, misurate sulle dimensioni effettive delle opere conservate all’Ermitage e nei suoi depositi, in vista di una potenziale evacuazione. Si preparò anche un’accurata documentazione per ogni opera, e un vero e proprio piano di evacuazione, così preciso da segnalare in che ordine prelevare le opere della collezione e quali scalinate utilizzare. Nel 1937 non esisteva motivo per prepararsi a una tale evenienza, ma la previdenza di Orbeli fu ciò che permise una delle più grandi operazioni di messa in sicurezza del patrimonio espositivo di un museo mai messe in atto.
Ai primi di giugno del 1941 le truppe del Reich si avvicinavano al confine sovietico, ma Orbeli ricevette ordine da Stalin di non iniziare nessuna operazione di evacuazione, per non far sembrare deboli i sovietici agli occhi del nemico. I nazisti entrarono in Russia domenica 22 giugno 1941, e Orbeli, senza attendere nessun ordine da Mosca, mise in atto il suo piano di evacuazione, con l’aiuto di tutto il personale, accademico e tecnico, dell’Ermitage, e di centinaia di cittadini che avevano a cuore il museo. Ce lo racconta lui stesso nel suo diario, da cui traduco:
«Il 22 giugno 1941 tutto il personale dell’Ermitage fu chiamato al museo. Ricercatori, personale di sicurezza, impiegati tecnici, aiutarono tutti nell’evacuazione, passando non più di un’ora al giorno per cibo e riposo. Dal secondo giorno, centinaia di persone che amavano l’Ermitage vennero in nostro aiuto… dovemmo obbligare queste persone a mangiare e riposare. Tenevano più all’Ermitage della loro forza e della loro salute.»

Quando da Mosca arrivò l’ordine di evacuare, Orbeli e il suo staff avevano già rimosso dal museo e impacchettato quasi mezzo milione di oggetti. Si continuò a lavorare per giorni, con le truppe nemiche ormai alle porte. Il primo treno, blindato e protetto da militari, contenente parte della collezione dell’Ermitage lasciò Leningrado il 1° luglio, per dirigersi a Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg), una città ai piedi dei monti Urali.
Seguì un secondo treno, contenente oltre 700.000 opere, che lasciò la città il 20 luglio. Un terzo treno era programmato, ma la sua partenza fu resa impossibile dall’inizio dell’assedio di Leningrado, di cui Hitler aveva ordinato la completa distruzione, l’8 settembre 1941; più di un milione di opere rimasero nel museo, e furono trasportate nei suoi sotterranei, dove erano stati allestiti anche dei bunker per ospitare il personale, le loro famiglie e un gran numero di soldati.
Molti racconti di questi lunghi mesi ci sono stati lasciati dalla testimonianza diretta dei presenti. Il personale del museo, le loro famiglie e i soldati lavoravano giorno e notte, spegnendo incendi, riparando i danni subiti dal palazzo dai bombardamenti, e allo stesso tempo cercando di sopravvivere. Un aneddoto, quasi leggendario, è entrato a far parte della cultura popolare russa: le guide del museo, gli studiosi e gli accademici spesso si trovavano a dare vere e proprie visite ai soldati dell’Armata Rossa, la maggioranza dei quali non aveva mai messo piede all’Ermitage; le opere non erano lì fisicamente, ma il personale conosceva così bene il contenuto di quelle cornici vuote da riuscire a guidare le truppe fra le sale espositive spoglie e danneggiate, fra vetri infranti, colonne crollate e soffitti squarciati dalle bombe.

L’assedio di Leningrado, in cui si stima abbiano perso la vita circa tre milioni di persone fra militari e civili, terminò il 27 gennaio 1944, dopo quasi tre anni. Il comportamento dei cittadini di Leningrado stupì molto gli Alleati, e diede impulso morale alla resistenza. La collezione dell’Ermitage ritornò nelle sue sale, nella sua casa, a guerra conclusa, il 10 ottobre 1945.
L’Ermitage chiaramente non fu l’unico museo sovietico a essere completamente svuotato durante la guerra. La stessa sorte toccò ad altri grandi musei russi come la Galleria Tretyakov, il Museo Pushkin e il Museo dell’Armeria del Cremlino, che da Mosca spedirono le loro collezioni a Novosibirsk, a Solikamsk, addirittura a Kustanay, nell’odierno Kazakistan.
Ovviamente, operazioni simili non avvennero solo in Unione Sovietica. Solo per fare alcuni esempi geograficamente più vicini possiamo citare l’evacuazione del Louvre, ultimata grazie al suo accorto direttore, Jacques Jaujard, pochi giorni prima dell’ingresso a Parigi delle truppe naziste; o ancora l’evacuazione delle opere dagli Uffizi, dalla Pinacoteca di Brera e dalla Pinacoteca Ambrosiana.
L’Eclisse è una rivista che si occupa di cultura, nel senso più ampio che questa semplice parola possa indicare, ma è inevitabile che la cultura vada ad intrecciarsi con l’attualità, la storia e la politica. Questo articolo è sì un articolo di natura storica, ma non fine a sé stesso. Non vogliamo abbandonarci ad una facile russofobia, come spesso si è visto nei giorni scorsi; non vogliamo cancellare la storia e la cultura del popolo russo, vittima anch’esso di una classe politica votata più all’aggressione e alla morte che alla pace e alla cultura. Non vogliamo neanche dare adito a quelle voci che sostengono un’ipotetica “denazificazione” dell’Ucraina: gruppi politici neonazisti esistono in Ucraina, esattamente come in Russia e in ogni altro paese. Vogliamo solo rendere evidente l’atrocità di una guerra che, come ogni guerra, provoca delle vittime, umane e culturali. Nella remota ipotesi che questo conflitto non tocchi e non danneggi neanche un dipinto, una chiesa, una statua, la cultura sarebbe comunque da annoverare fra le vittime. La cultura muore nel momento stesso in cui si ricorre alle armi e alla violenza.
Marx diceva che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, ma probabilmente dimenticava che anche delle tragedie, spesso, si fanno delle repliche.
di Luca Ruffini
Note
Molte informazioni per questo articolo sono tratte da una serie di articoli che elenchiamo di seguito:
https://www.meb3art.com/blog/the-hermitage-and-its-extraordinary-evacuation-during-wwii
https://www.rbth.com/arts/332272-museum-evacuation-world-war-ii
https://www.theartnewspaper.com/2020/05/08/what-can-we-learn-from-museums-during-the-second-world-war
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