Guerre senza pace
Sarebbe bello poter chiudere le guerre tra le pagine dei libri di storia. E sarebbe altrettanto bello se i libri di storia servissero a evitarle, anziché alimentarle con propagande assurde e affermazioni che nemmeno Rete 4 riesce a “giustificare ”. Gli sviluppi del conflitto in Ucraina ci hanno costretto, in quanto cittadini dell’UE, a ripensare alla guerra in maniera più concreta, a causa della vicinanza geografica e delle conseguenze dirette sulla nostra vita di tutti i giorni, come la crisi energetica o i rincari sul prezzo del grano. Forse l’ultima vera minaccia che abbiamo percepito come imminente è stata quella del terrorismo, emergenza che non si può affatto considerare risolta solo perché trascurata dall’opinione pubblica; il detto “occhio non vede, cuore non duole” vale anche per le guerre – soprattutto quando non hanno una fine.
Si fa presto a dimenticare ciò che non si vede, a telecamere spente e bombe ormai esplose; spesso, però, ci si abitua alla guerra perfino quando è dietro l’angolo, o letteralmente sotto casa, e la fame, la povertà e la violenza (materiale e non) entrano a far parte della routine quotidiana di chi resta e sopravvive. Secondo l’ACLED, i conflitti attualmente in corso sono circa una sessantina.
Conflitto coreano (1945)

Non è un meme e neppure un romanzo distopico: la guerra di Corea non è mai finita ufficialmente. Le ostilità germogliano all’alba della Guerra fredda, quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica prendono il controllo del Paese, che esce da quasi cinquant’anni di dominio nipponico. La Corea viene divisa all’altezza del 38° parallelo e nascono due diversi governi (filo-sovietico quello a nord, filo-statunitense quello a sud) che rivendicano entrambi la sovranità sul territorio. Il 25 giugno 1950 le truppe di Kim Il-sung superano il confine, scatenando la reazione degli Americani e, quindi, delle Nazioni Unite; nei mesi seguenti, verrà coinvolta anche la neonata Repubblica Popolare Cinese, alleata dell’URSS e vicina alle posizioni di Pyongyang. Il clima sarà così teso da far temere l’utilizzo della bomba atomica da parte dell’esercito statunitense.
Nella prima metà del ’51 la linea del fronte si stabilizza e vengono avviati i negoziati, che portano alla firma dell’armistizio di Panmunjeom il 27 luglio 1953 senza, tuttavia, raggiungere l’obiettivo di una pace definitiva. La divisione del 38° parallelo proposta nell’accordo scontenta i Coreani da ambo i lati e la Conferenza di Ginevra del 1954 sulla situazione in Corea e Indocina si conclude con un nulla di fatto; la guerra in Vietnam scoppierà un anno dopo.
Non ci sono vincitori, i bombardamenti squarciano il Paese ben oltre la zona demilitarizzata. L’economia sudcoreana è in ginocchio, dal momento che buona parte dell’industria pesante si trova nel Nord, ma i comunisti, dal canto loro, sono stremati dalle perdite di guerra. I civili pagano il prezzo più alto: le stime oscillano tra le 2 e le 3 milioni di vittime. Gli Stati Uniti mantengono le proprie basi militari in Sud Corea e si avvicinano al Giappone per contrastare l’alleanza sino-sovietica; quest’ultima, tuttavia, si incrinerà alla fine degli anni ’50, rivelandosi molto più fragile del previsto.
Cosa sopravvive della guerra, settantanove anni dopo un armistizio incompleto? Un divario profondissimo tra la Corea del Sud, che nel giro di quarant’anni diventa una delle maggiori potenze economiche in Asia, e la Corea del Nord, cristallizzata nelle mani totalitarie dei Kim e nemica giurata dell’Occidente.
Guerra civile in Birmania (1948)

La Birmania sorge nel 1948 dalle ceneri della precedente colonia britannica. L’uomo chiave per capire la sua storia è Aung San, ex-Primo ministro sotto il dominio giapponese che assume la guida dell’esercito di liberazione quando l’indipendenza dichiarata da Tokyo (1943) si rivela una pura formalità. Aung San intesse accordi politici con il Regno Unito e raduna sotto la propria leadership l’Esercito Nazionale Birmano, i socialisti e i comunisti, formando la Lega di Libertà Popolare Antifascista. La coalizione vince le elezioni per l’Assemblea costituente, ma Aung San viene ucciso dagli uomini di U Saw, suo rivale politico, prima dell’indipendenza effettiva. Con queste premesse, non risulta affatto semplice creare una situazione di stabilità, per di più in un Paese la cui popolazione si frammenta in 135 etnie ufficialmente riconosciute; basti pensare che nel 1989, a fini propagandistici, il governo militare decide di cambiare il nome del Paese da ‘Burma’, che richiamerebbe l’etnia più popolosa (Barma), a ‘Myanmar’, ritenuto storicamente neutro.
Dopo la morte di Aung San, la Birmania vive un primo periodo democratico, durante il quale riaffiora l’ipotesi di organizzare uno stato federale e spegnere così i focolai di guerriglia fra i diversi gruppi etnici. Nel 1962, però, i militari di Bo Ne Win rovesciano il governo centrale e salgono al potere, imponendo il sistema monopartitico del Partito del Programma Socialista della Birmania (1964). Pur essendo un membro dell’ONU e del Fondo Monetario Internazionale, il Paese si isola progressivamente nel tentativo di instaurare un’autarchia – tentativo fallimentare, a causa di cattive politiche economiche. Nel 1988, l’insurrezione studentesca della rivolta 8888 (08/08/’88), a favore di un ritorno alla democrazia, viene soffocata nel sangue e porta a un nuovo colpo di stato militare. In questi anni emerge la figura di Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San nonché sua erede nella scena politica birmana e Premio Nobel per la pace nel 1991.
Aung San Suu Kyi, cresciuta all’estero, torna in patria nel 1988, dove fonda la Lega Nazionale per la Democrazia (LND). La vittoria schiacciante alle elezioni multipartitiche del 1990 (81%) le attira il malcontento della giunta militare di Saw Maung: trascorre lunghi periodi agli arresti domiciliari (1990-’95, 2003-2010) intervallati dalla semilibertà e dalle minacce, che le impediscono di lasciare il Paese, pena l’esilio. La Birmania, intanto, vive un processo di cauta democratizzazione, destabilizzato in parte dalle tensioni etniche, e alla fine degli anni ’90 entra nell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico). Bisogna attendere il 2007 perché le proteste popolari per il rincaro del costo della vita diano una forte spinta alla situazione del Paese, che comunque vedrà nuove elezioni solo nel 2015. Gli esiti si riconfermano a favore dell’LND ma, non potendo candidarsi come Presidente della Repubblica in quanto vedova di un cittadino non-birmano, Aung San Suu Kyi viene nominata Consigliere di stato.
Negli ultimi anni, tuttavia, i consensi dell’LND calano, soprattutto nelle regioni periferiche, a seguito della questione dei Rohingya, una minoranza musulmana privata della cittadinanza nel 1982 e a lungo vessata dai vari governi in carica; i dati ONU parlano, attualmente, di un milione di profughi. La posizione ambigua di Aung San Suu Kyi sulla crisi e le sue parole in difesa dei militari, accusati di aver perpetrato quello che il Tribunale Internazionale permanente dei Popoli ha stabilito essere un vero e proprio genocidio, hanno attirato le critiche dell’Occidente. Un ulteriore colpo di stato militare destabilizza lo status quo nel 2021, con l’ennesimo arresto per Aung San Suu Kyi e la riaccensione delle tensioni etniche e della disobbedienza civile. La guerra non si è mai davvero fermata.
Conflitto del Darfur (2003)

Le vicende in Darfur sono strettamente intrecciate alla storia post-coloniale del Sudan, ex-dominio anglo-egiziano. Prima ancora che l’indipendenza del 1956 venga ratificata, le tensioni etnico-religiose accendono la miccia della prima guerra civile (1955-1972), che vede contrapporsi il governo centrale di Karthoum, arabo musulmano come la parte settentrionale del Paese, alle popolazioni cristiana e animista delle aree meridionali. L’instabilità politica prosegue durante la seconda guerra civile (1983-2005), che vede l’ascesa al potere di Omar al-Bashir, presidente dal 1989 al 2019. Il quadro generale è peggiorato dalle difficoltà legate all’approvvigionamento di acqua e cibo per la popolazione, divisa tra allevatori semi-nomadi e coltivatori stanziali. Il Darfur si trova nel Sudan occidentale e, contrariamente al resto del Paese, è a maggioranza non-araba e musulmana.
La guerra nasce come reazione di due gruppi, il Movimento di Liberazione Sudanese (SLM) e il Justice and Equality Movement (JEM), alle prevaricazioni delle autorità nei confronti degli abitanti di etnia Fur, Zaghawa e Masalit: tra il 2001 e il 2003, i ribelli organizzano numerosi attacchi armati e suscitano la risposta tempestiva del governo, che non riesce però a contenere la loro avanzata; a Karthoum non restano che le maniere forti. I Janjawid, miliziani nomadi arabi di etnia Baggara e Abbala, entrano in scena come forza paramilitare impiegata ufficiosamente da al-Bashir, il quale ha invece negato qualsiasi coinvolgimento con il conflitto. I villaggi non-arabi vengono rasi al suolo, la popolazione subisce violenze feroci e sistematiche: la situazione degenera rapidamente, nonostante gli sforzi diplomatici dell’Unione Africana e dell’ONU.
Nel 2004 viene ratificata la Risoluzione 1564 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il cui scopo è investigare sulle violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione civile; per la prima volta si parla di genocidio, anche se le Nazioni Unite ritengono inizialmente che “non sembrano esserci intenti di genocidio”. Le parti coinvolte nella guerra reagiscono in maniera molto diversa all’intervento esterno: se negli anni i gruppi ribelli hanno mostrato alcuni segni di apertura, il governo ha invece rifiutato ogni tipo di “ingerenza”, chiudendo la zona agli stranieri e ostacolando perciò l’arrivo degli aiuti umanitari.
Dopo l’attacco di Karthoum nel 2008, il conflitto sembra diradarsi, al punto che nell’estate del 2009 la missione ONU dichiara la fine della guerra e la ripresa delle trattative. Negli anni successivi, tuttavia, la tensione rimonta, portando a nuovi scontri e soprusi per la popolazione. La situazione diventa sempre più instabile anche dal punto di vista politico: nel 2019 al-Bashir viene deposto dall’esercito e il governo di transizione si impegna a siglare dei trattati di pace con i ribelli, ma appena due anni dopo anche il nuovo governo salta per mano dei militari. Le ostilità tra i vari gruppi etnici continuano a generare violenza, anche a causa delle carestie, e la guerra non può dirsi conclusa a tutti gli effetti; tra le incertezze politiche e climatiche, l’ONU stima un totale di circa due milioni e mezzo di profughi dall’inizio del conflitto. L’ACLED all’inizio del 2022 ha inserito il Sudan tra i dieci conflitti da tenere sotto monitoraggio.
Ci sarebbero anche la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia, la Nigeria, lo Yemen – tanti, troppi altri. L’Ucraina è l’ultima di una lista lunga quanto il tempo sprecato in negoziati traditi e battaglie dispendiose. Non esistono parole che non siano già state usate da qualcun altro prima di noi per esprimere rabbia, paura, compassione, forse cinismo; ma se l’alternativa diventa il silenzio, allora è preferibile qualsiasi parola, pur banale che sia. Perché il silenzio è oblio.
di Joanna Dema
Fonti e link utili
Corea
https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_di_Corea 🡪 https://www.mottaeditore.it/2018/05/kim-jong-un/#:~:text=Le%20conseguenze%20della%20guerra,militari%20in%20Corea%20del%20Sud.
https://www.treccani.it/enciclopedia/corea/
Birmania
https://it.wikipedia.org/wiki/Conflitto_interno_in_Birmania
https://reportage.corriere.it/esteri/2015/in-birmania-la-guerra-piu-sconosciuta-e-lunga-del-mondo/
https://www.treccani.it/enciclopedia/myanmar/
http://www.conflittidimenticati.it/conflitti_dimenticati/conflitti_nel_mondo/00006493_Myanmar.html
https://www.treccani.it/enciclopedia/u-aung-san
https://it.wikipedia.org/wiki/Aung_San_Suu_Kyi
Darfur
Fonte ACLED 🡪 https://acleddata.com/10-conflicts-to-worry-about-in-2022/
https://en.wikipedia.org/wiki/War_in_Darfur
https://www.treccani.it/enciclopedia/darfur_%28Enciclopedia-Italiana%29/
https://it.insideover.com/schede/guerra/che-cos-e-la-guerra-del-darfur.html
https://www.unicef.it/media/darfur-sudan-la-pi-vasta-crisi-umanitaria-del-pianeta/
p. 5→
←p. 3