Perché la guerra. La risposta di Freud
Il 30 luglio 1932 qualcuno si chiedeva già il perché della guerra.
Forse più di uno, in realtà, se lo era chiesto nel corso della storia, esattamente come continuiamo a fare oggi. La questione sembra porsi infinite volte, senza che si possa fare qualcosa per mettere fine al ripetersi della catastrofe. È paradossale – se ci pensiamo – che sia proprio la specie umana a chiedersi il perché della guerra, quando ogni volta le ridà inizio.
L’uomo fa la guerra e non capisce il perché della guerra. Quest’ultima sembra mossa da un qualcosa di umano che, tuttavia, oltrepassa la singola coscienza: la guerra la fa il singolo re, dittatore, presidente o partito, ma – in ultima analisi – la guerra la fa sempre e soltanto la specie umana. Come un circolo vizioso che si riproduce, oltrepassando ogni tentativo di controllo e ogni argine costruito dagli esseri umani, la guerra scoppia così come potrebbe irrompere un fenomeno atmosferico, eccetto che, a differenza di quest’ultimo, la guerra rappresenta una scelta umana, sempre revocabile e mai necessaria.
Il 30 luglio 1932 qualcuno si chiede – come forse altri mille uomini e donne già avevano fatto prima – il perché della guerra. Non di questa guerra o di quella di dieci anni fa o, ancora, di quelle future. Qualcuno si chiede perché l’uomo, nonostante tenti disperatamente di sfuggire a questo destino, intraprenda ciclicamente conflitti che portano alla distruzione dell’altro e di sé. La domanda appare esistenziale e sembra centrale nel cercare di comprendere, in fondo, chi è l’uomo. Quale essere vivente mai ripeterebbe un comportamento già sperimentato, rivelatosi dannoso non tanto per gli altri, ma in primis per sé? Quando gli animali combattono in natura, lo fanno unicamente per la loro sopravvivenza. Anche quando gli scontri sono volti a mantenere o disfare una gerarchia all’interno di un gruppo, nel combattimento si perde o si vince, si vive o si muore. La guerra umana, invece, è l’unico conflitto in cui entrambe le parti sono disposte a morire.
Il 30 luglio 1932, Albert Einstein scrive una lettera a Sigmund Freud. La domanda fondamentale che vi pone è enunciata nel modo seguente: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”1. Dopo aver formulato alcune ipotesi risolutive, l’autore della missiva sembra cogliere il nodo centrale della questione, chiedendosi infatti:
Com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé? È possibile dare una sola risposta. Perché l’uomo ha entro di sé il piacere di odiare e di distruggere.
È proprio questo “olocausto di sé” che corrisponde al lato autodistruttivo – e non solo distruttivo – della guerra. Ed è anche per questo motivo che Einstein indirizza le sue considerazioni a Freud. Chi meglio di lui, d’altronde, può rendere conto della complessità umana, riuscendo a spiegare il perché di un comportamento così autolesivo? Freud, infatti, agli occhi dell’autore, è il solo “esperto nella conoscenza degli istinti umani”. Al termine della lettera, gli domanda così se “vi [sia] una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione”, introducendo il problema della ‘pace mondiale’. Ma come ottenerla? Come fare, in ultima istanza, per indirizzare e correggere la natura psichica dell’uomo in modo tale da ottenere una condizione di pace perpetua?

Prima di analizzare la risposta di Freud, occorre, però, fare una precisazione. Einstein parte da un presupposto condiviso dallo psichiatra, il che costituisce già di per sé una risposta – sebbene vaga e poco articolata – al “perché” della guerra. Secondo il fisico, nella natura umana risiede un istinto aggressivo. La domanda sottesa alla lettera di Einstein, quindi, non è tanto il perché della guerra: egli si chiede, invece, se l’istinto aggressivo, alla base del ripetersi dei conflitti, sia correggibile. Si ha la sensazione, quindi, che patti formali, escamotages di natura politica o legislativa, non siano una reale soluzione al ripetersi dei conflitti armati, ma, al contrario, costituiscano un diversivo superficiale. Non a caso, infatti, nel corso della storia ogni patto di pace è sempre equivalso ad una tregua mai rispettata fino alla fine. Le soluzioni di natura politica portano sempre ad una pace temporanea: qui, invece, è in gioco una pace mondiale, definitiva e profonda. Un abbandono, se vogliamo, della tendenza umana a sopraffare l’altro con soprusi e violenza. Solo in questo modo, secondo Einstein, la soluzione del problema si rivelerebbe duratura.
Freud risponde.
Risponde con l’intento di indicare “come il problema della prevenzione della guerra si presenti alla considerazione di uno psicologo”. Inizialmente, commenta dunque le proposte risolutive di Einstein, facendo un interessante resoconto ‘storico’ della creazione del diritto tra gli uomini: il diritto e la violenza ci sembrano opposti, tuttavia il primo nasce dalla seconda. Questo è un elemento che, secondo lo psichiatra, non deve essere dimenticato, in quanto gioca un ruolo centrale nella comprensione dei rapporti umani. Freud scrive, infatti, che “il diritto originariamente era violenza bruta e […] ancor oggi non può fare a meno del concorso della violenza”. Alcune guerre hanno operato al fine di trasformare la violenza in diritto: si veda, per esempio, la pax romana, di cui i paesi mediterranei poterono paradossalmente godere proprio grazie alle operazioni bellicose intraprese dai Romani. La guerra, osserva Freud, non sarebbe un mezzo inadatto alla conquista della pace eterna, se solo le conquiste fossero durevoli e permanenti. In altre parole, se l’organizzazione di ogni Stato non fosse mai soggetta a mutamenti, ribellioni e altri conflitti anche interni alla stessa unità, la guerra potrebbe portare la pace. Ma così non è.

Veniamo, dunque, alla risposta di tipo psicologico, ovvero la risposta che dovrebbe indicare se sia possibile correggere il comportamento autodistruttivo dell’uomo. Secondo la teoria freudiana, vi sono due tendenze, anche dette pulsioni: una volta ad unire e conservare, l’altra a distruggere. Entrambe sono indispensabili e non si riducono alla classica dicotomia tra amore e odio, in quanto ciascuna ha bisogno dell’altra per sussistere: le due sono come mescolate, e per questo difficili da riconoscere come separate nelle loro manifestazioni. Ad esempio, la pulsione di autoconservazione è alla base dell’erotismo, che, però, necessita anche di ricorrere all’aggressività per mettersi in atto. Freud scrive, infatti, che “la pulsione amorosa […] necessita un quid della pulsione di appropriazione”, dove ‘appropriazione’ non fa riferimento ai rapporti amorosi patologici in cui l’autonomia di una delle due parti viene a mancare, ma anche – più semplicemente – alla passione sana e ordinaria, nella quale vi è, tuttavia, una componente di aggressività. Quest’ultima, dunque, è “all’opera nell’interno di ogni essere vivente” in varie forme, come, ad esempio, la morale – che impone, detta legge, punisce, condanna e censura – divenendo propriamente distruttiva solo se eterodiretta. Vi è, quindi, una forma di aggressività che l’umanità ha interiorizzato e trasformato in legge, in divieto, in regola, e che, pertanto, favorisce il costituirsi stesso della società e del vivere insieme. Questa pulsione è chiamata anche pulsione di morte ed è, secondo Freud, “[più vicina] alla natura di quel che lo sia la resistenza con cui noi [la] contrastiamo”. In altri termini, l’aggressività sarebbe più naturale e meno stupefacente della stessa opposizione che vi facciamo, per cui la manifestazione dell’aggressività umana presente nella guerra costituisce solo una piccola parte di questa inclinazione umana.
Da quanto detto, sembra che non vi sia speranza circa la soppressione della tendenza distruttrice propria all’uomo. Secondo Freud, si può solo tentare di deviarla affinché non si manifesti nella guerra. Del resto, il processo di deviazione e di sublimazione – per usare un termine di matrice psicoanalitica – della pulsione di morte è all’opera in molti campi dell’agire umano. Contro la propensione alla distruzione, è ovvio, dunque, fare ricorso alla pulsione antagonista, cioè Eros, il garante dei legami tra gli uomini. La condizione ideale per evitare i conflitti, osserva Freud, sarebbe “una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione”, ma si tratterebbe di una speranza utopistica. Tuttavia, alla luce della catastrofe che per ogni popolo la guerra ha sempre rappresentato, è sorprendente che l’umanità non abbia ancora stipulato un accordo mondiale per ripudiare il ricorrere al conflitto armato. Ma, come è stato affermato precedentemente, gli accordi servono a ben poco, poiché sono superficiali e formali. Infatti, è proprio negli accordi di pace che Eros si manifesta e tenta di operare, per quanto possibile, a fin di bene. Ma cosa significa per l’uomo e a cosa corrisponde l’intervento pacificatore di Eros?
Nell’ultima parte della risposta di Freud, si intravede forse un po’ di luce. L’unico argine che si può porre profondamente, lentamente eppure efficacemente alla guerra, risiede nelle “modificazioni psichiche che accompagnano l’incivilimento”. È indubbio che il concetto di civilizzazione sia oggi datato e che sia stato appurato – antropologicamente parlando – che le società e la civiltà non abbiano uno sviluppo univoco. Tuttavia, Freud sembra parlare di un concetto più profondo e ampio, che si riferisce all’umanità e non al progresso economico e industriale proprio delle società occidentali: si tratta dello sviluppo intellettuale e psichico dell’umanità, che comporterebbe – almeno per quanto si è visto fino ad oggi – uno “spostamento progressivo delle mete pulsionali”.
Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; ci sono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate.
È per questo che ripudiamo la guerra, che esiste il pacifismo, che sentiamo di doverci ribellare alle atrocità, sempre in maggior numero. Ma, si chiede Freud, quanto dovremo attendere affinché il mondo diventi pacifista? Dirlo è impossibile. Eppure, sembra che l’atteggiamento pacifista, radicato nel timore degli effetti di un futuro conflitto, si allarghi con lo sviluppo dei due caratteri psicologici della società: il rafforzamento dell’intelletto e l’interiorizzazione dell’aggressività. “Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra”.
Note
- “Perché la guerra?” (1932), in Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1971.
Tutte le citazioni presenti in questo articolo provengono da questo capitolo del volume.
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