“Sì, viaggiare… ma in che modo?”
È giunta, dunque, del primo almanacco, la fine; abbiam viaggiato tra le note dei mesi, e ora, in agosto, col viaggio, tracciamo ultime righe.
Quando ero bambina, agosto per me era un mese ozioso, come ci dice anche Guccini nella nostra ormai nota Canzone dei dodici mesi: era ancora tempo di riposo, ma già sentivo in lontananza l’eco della campanella di settembre, così come ridevo, nei negozi, di fronte alla pacifica convivenza, sugli scaffali del reparto “prodotti stagionali”, di costumi da bagno e creme solari con zaini scolastici e grembiuli. Accompagnavano le mie giornate il frinire delle cicale, l’aria bollente, le finestre chiuse del primo pomeriggio e una domanda ricorrente con la quale tartassavo la mia famiglia: “che faccio?”. Era un mantra quotidiano, quello della mia noia leopardiana. In realtà, non ero veramente annoiata: era solo un modo per inventarmi attività da fare per passare il tempo. Oggi, da adulta e con tutti gli impegni del quotidiano, soprattutto lo studio e la sessione che si protrae fino a quasi fine luglio, rimpiango un po’ quelle estati dedite al vuoto e alla magia dell’astrazione infantile.
D’altronde, non sarebbe proprio questo il senso dell’estate e delle vacanze? Il termine vacanza viene dal verbo latino vacare, ovvero “essere libero, vuoto”. La “vacanza”, quindi, è un periodo di vuoto, di interruzione delle consuete attività – lavorative e di studio – dove dedicarsi non solo al riposo, ma anche e soprattutto a ciò che più ci piace. I nostri avi latini avevano due bellissimi termini per definire tale dicotomia: otium e negotium. Tali termini non sono solo l’uno l’opposto dell’altro, quindi la pausa opposta al lavoro, ma indicano una precisa filosofia di vita. Soprattutto l’otium non è da intendersi come semplice nullafacenza, ma più come tempo dedicato ad attività di tipo intellettuale: per i latini, quindi, vi erano la lettura, la scrittura, la musica, l’attività fisica e un tempo vacuo che Plinio il Giovane definiva studiosum, che, secondo il suo parere, andava coltivatoin posti tranquilli come le villae, lontani dal caos dell’Urbe. Noi contemporanei, invece, usiamo erroneamente il termine vacanza, con il quale ormai definiamo l’atto di spostarci da un luogo ad un altro per visitarlo. Per indicare ciò, in realtà, esiste un’espressione, forse desueta, démodé forse, che invece a me piace molto, in quanto la sentivo usare spesso ai miei nonni: “andare in villeggiatura”.
Queste parole rievocano in me un insieme di ricordi legati a tante canzoni ascoltate in radio, da quelle del passato, come quelle di Sergio Endrigo, di De Gregori, di Concato, a quelle più contemporanee, come Buon viaggio di Cesare Cremonini o qualche tormentone estivo “mordi e fuggi”, che si ricorda solo quando lo si riascolta per caso con nostalgia in qualche fredda giornata invernale. Canzoni alle quali associo ricordi d’infanzia, di viaggi e paesaggi visti dapprima dal finestrino posteriore della macchina, e poi da quello anteriore.
Ho sempre amato guardarmi intorno e ho sempre amato visitare posti nuovi. In inverno faccio tantissimi viaggi… attraverso le tante storie che la letteratura ci ha lasciato. In fondo, anche la lettura è un viaggio, nel quale sai da dove parti ma non sai dove arriverai. I viaggi sono soprattutto ricerca di qualcosa di fisico, ma più spesso di qualcosa di metaforico, di ideale. Spesso, il viaggio è la ricerca di un luogo, una terra nella quale poter essere. Ad esempio, nell’Ottocento, tra i giovani ed intellettuali dell’alta società e di buona famiglia venne a diffondersi la consuetudine del Grand Tour, un lungo viaggio intrapreso con lo scopo di accrescere le proprie conoscenze attraverso diverse città europee, ma che aveva come meta prediletta l’Italia. Diciamo che potremmo assimilarlo al ben più noto InterRail contemporaneo, intrapreso da giovani con grande capacità di adattamento. Sicuramente il Grand Tour più noto è quello raccontato da Goethe nel suo Viaggio in Italia, un saggio – composto da due parti perché due furono i suoi soggiorni italiani – dalla forma diaristica dove egli ci racconta le sue impressioni a contatto con il nostro Belpaese. Goethe, in quel periodo, accusava una forte mancanza di ispirazione a causa della sua occupazione primaria, che non era quella di scrittore bensì quella di ministro, così decise di avventurarsi in gran segreto per i meandri dell’Italia, alla scoperta della nostra cultura, per la quale aveva sempre nutrito una profonda ammirazione, soprattutto per l’arte, che ha lo scopo
di riportarci alle condizioni dell’epoca e degli individui che le produssero. Circondati dalle statue antiche, ci sentiamo come immersi nel moto d’un’esistenza naturale, percepiamo la multiformità della struttura umana e siamo ricondotti in tutto e per tutto allo stato più puro dell’uomo, col risultato che lo stesso osservatore acquista vita e umanità autentica.
Sostando a Verona, una delle sue prime tappe, scrisse una considerazione che riassume, in un solo periodo, speranza e realismo nei confronti di questo suo viaggio:
Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello d’illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti.
Goethe era consapevole che le sue speranze sarebbero potute essere tradite, una volta in Italia. Ciò non avvenne, anzi vi tornò per un secondo viaggio, rimanendo colpito soprattutto dalla magnificenza di Roma. Non fu dello stesso avviso Leopardi, che, invece, da Roma fu estremamente deluso: recatovisi con lo scopo di fuggire dalla ristrettezza di Recanati – e da suo padre Mondaldo, uomo rude e insensibile – e con l’intento di trovare un proprio posto nel mondo, trovò solo una città caotica, dove l’arte veniva messa in secondo piano da degrado, un lento avanzare della modernità e una socialità troppo frenetica, che non permetteva quindi un ritiro intellettuale:
Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di viver esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna.
Nonostante la pessima esperienza romana, del viaggio in generale Leopardi ha una considerazione positiva, da quello di Ulisse a quello di Colombo, in quanto lo vede come un’esperienza di conoscenza e di fuga dalla noia. Nel Dialogo con Pietro Gutierrez, suo luogotenente, Colombo rifletterà su come, nel corso del suo viaggio alla volta delle Americhe, gli sia sorto il dubbio su quanto effettivamente quel viaggio avrebbe condotto a qualcosa:
Io non voglio ricordare la gloria e l’utilità che riporteremo, succedendo l’impresa in modo conforme alla speranza. Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
Le parole di Colombo parlano chiaro: il senso del viaggio, per Leopardi, è anche correre il rischio di non trovare nulla, ma di essere comunque sfuggiti alla noia seguendo il brivido dell’ignoto. O addirittura di avere visto già tutto, come nel caso di Alessandro Magno in Stranamore (1978) di Vecchioni, che «si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente / e tanta strada per vedere un sole disperato/ e sempre uguale e sempre come quando era partito». Vecchioni si chiede spesso, nelle sue canzoni, quale sia il senso ultimo del viaggio: lo racconta, ad esempio, come una fuga dalla morte, come in Samarcanda, ma anche come un continuo perdersi e ritrovarsi ai confini dello spazio e del tempo. In Viaggi del tempo immobile (1996), una piccola raccolta di dieci racconti, il Professore cerca di darsi proprio una risposta a questo senso. Lo ritrova nelle vite dei tanti personaggi che Teliqalipukt, un essere immortale, ha incontrato nelle sue tante vite. Personaggi diversi tra loro, ma accumunati da un solo aspetto: l’essere partiti e l’essere tornati. In una sola parola: l’avere viaggiato con uno scopo:
– Sapete cos’è una partenza? – replicò Teliqalipukt prendendo un enorme fiore e accarezzandogli i petali. – Una partenza è come questo fiore intatto. Togliete lentamente un petalo alla volta, fino all’ultimo, e rimane solo il centro del fiore.
– E cos’è il centro del fiore – chiese Puna
– È il ritorno.
– Ma perché si parte, da dove si parte? – domandò Misha.
– Quando sarete uomini, partirete sempre.
Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria.
Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno.
Credo che il viaggio sia proprio questo: le mille anime che accompagnano l’attesa e il desiderio dato dalla partenza; poi, c’è l’esperienza e infine il ritorno, che è uno, come ci dice Vecchioni, perché in questo caso non si sa come si parte, ma si sa come si torna, ovvero rinnovati, cresciuti anche.
Ma oggi è davvero ancora così? Diamo ancora davvero questo senso così profondo al viaggio? Lo viviamo ancora come un’esperienza in grado di cambiarci e farci crescere interiormente? Non so se ci sia una vera risposta, a questo mio bislacco quesito. Sicuramente, oggi abbiamo più disponibilità di viaggiare di quella che potevano avere Goethe o Leopardi: abbiamo più mezzi, fisici soprattutto. Possiamo spostarci più velocemente grazie a treni ed aerei; non abbiamo bisogno di portarci dietro mille libri per poterci informare del luogo che stiamo visitando, nel quale stiamo “viaggiando”, perché abbiamo in tasca un telefono, che in un secondo ci fornisce ogni informazione di cui abbiamo bisogno. Non abbiamo necessità di farci accompagnare da un ritrattista in grado di immortalare su una tela i posti che stiamo visitando: abbiamo sempre il telefono o la macchina fotografica che, con un click, creano un ricordo immediato e subito condivisibile con gli altri.
Quello che mi chiedo è: quanto di quello che vediamo, che viviamo “in vacanza”, effettivamente ci resta impigliato addosso? Endrigo, ne La dolce estate (1964) parlando di una storia d’amore estiva, cantava:
Quando questa dolce estate sarà finita […] non avrai fotografie, né conchiglie o souvenir, ma i tuoi occhi perduti nei miei.
In passato era così: dei luoghi che si visitavano restava qualche foto, che arrivavano solo dopo parecchio tempo, in quanto andavano fatte sviluppare in uno studio fotografico, e tanti ricordi, dati da una diversa valutazione del tempo… da una diversa qualità del tempo vissuto. Un tempo più lento, forse, ma a mio parere più vissuto, in grado di lasciare più ricordi, seppur non immediatamente testimoniabili. Perché oggi, un “filosofo” dei nostri giorni, Fedez, dice che «è più importante condividerlo che viverlo» il momento, no? Forse, se alzassimo solo un momento i nostri occhi dallo schermo, ci renderemmo conto di avere davanti, e non dietro alle spalle, come dice Gabbani, «un morso di felicità».
Epilogo… per ora
Ebbene sì: anche io sono arrivata alla fine di questo mio viaggio, anzi, siamo arrivati alla fine di questo viaggio insieme. Infatti, questo è l’ultimo almanacco di questo anno solare. È stato un viaggio lungo durato ben dodici mesi: ancora mi fa strano pensare che io abbia scritto per ben un anno, un viaggio attraverso i colori e la poesia che ogni mese ci ha riservato. Questo viaggio mi è servito molto: come ho detto prima, anche io sono partita da un’idea, ma non sapevo dove questa idea mi avrebbe portata. Ma sono fatta così: mi sono fatta guidare dall’idea stessa. In fondo, sogni e idee sono simili, perché sanno sempre la strada. Arrivata alla fine di questo primo anno, posso dire che, almeno per me, Almanaccqq+ ha significato casa, un piccolo momento nel quale rifugiarmi in ciò che mi piace e dal quale ho imparato anche io molto. Spero di avervi lasciato tanti spunti e di avervi portato a vedere ogni mese con occhi nuovi e un nuovo modo di sentire.
A settembre cominceremo un nuovo anno solare e un nuovo anno di Almanaccqq+. Stesso stile, stessa poesia, stessa cura per le piccole cose e per tutto ciò che “sa di vecchio”, ma una linea nuova, sicuramente diversa da quella che ci ha accompagnato quest’anno, e nuove suggestioni, per dirla alla Pierangelo Bertoli, «con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro». Non vi dico altro…
Per ora vi auguro un lieto tempo vacuo. Ci rivediamo a settembre!
Ciao ciao,
Marta