Premessa
Era il suo mestiere. Schiudere le palpebre prima che il sole bruciasse l’aria bassa e pesante di quel paesino arroccato sulla spiaggia; remare finché le braccia non gli dolevano, i polmoni non gli esplodevano e il cuore batteva i pugni perché si fermasse; mischiare lacrime e sudore, sudore e spruzzi di marea. Giorno dopo giorno, alba dopo alba, alzando lo sguardo, se la foschia non era troppo fitta o l’aria troppo opaca, lo si poteva ritrovare là, perso nell’immensità vuota e deserta sul suo guscio di legno. Lontano dalla riva, lontano dal suo villaggio.
Quando si svegliò, allora, che non era né giorno né notte, il gallo non aveva ancora le forze di cantare e Salvatore aveva smesso di spendere tutto il suo stipendio da manovale alla taverna, soffiava già un vento caldo, asciutto; di quelli che li respiri e subito divieni un animale il cui unico obiettivo è trovare una pozza d’acqua. E comunque camminò come al solito, scambiò qualche saluto veloce con altri pescatori, come al solito, e si arrampicò, sudato, sul suo piccolo vascello. Una goccia di sudore, il respiro affannoso. Si accese una sigaretta: lo zolfo del fiammifero si accese e bruciò in quel buio di fornace. Fumò ardentemente. Della dura fatica che lo aspettava ne era consapevole, ne era quasi abituato. Ogni tanto, tra uno “splash” e l’altro dei colpi dei remi, ripensava alla sua vita e il terrore di quell’abitudine lo sopraffaceva. E allora fumava e il vizio lo faceva sentire umano.
Fumo: nella bocca, nella trachea, nei bronchi. La nicotina gli donava un senso di leggerezza dalla vita. I colpi dei remi gli parevano più lievi, battiti d’ali per volare lontano, su di un cielo blu come il mare. Coi polmoni di carbone e il necessario per la caccia, afferrò un remo e il legno ruvido dell’altro, che gli perforò il palmo con una scheggia.
A largo era solo e l’orizzonte una linea. Il mare piatto non si mostrava riccio, né mosso o leggermente ondulato, non crespo e nemmeno frisé. Non un’onda macchiava la perfezione dell’infinito indefinito. Giunto al punto dove ogni punto era in possibilità quello del giorno precedente, dove la lotta per la sopravvivenza aveva luogo, prese un respiro profondo e urlò a squarciagola. La sua ugola si perse tra l’acqua immobile e il sole nascente rosso, che non si poteva distinguere da quello dell’ovest.
L’impresa che ogni mattina doveva affrontare era stancante, ma anche necessaria. La tenaglia con cui lo stomaco lo faceva sopravvivere e gli occhi innocenti dei suoi figli lo riportavano là, tra mare e cielo, schiacciato dall’eco che il deserto di acqua produceva. Là, in quel bagno di solitudine, di tanto in tanto gli sembrava di impazzire. Gli sembrava di risentire le frasi fatte, i discorsi buonisti: “Il mare è nostro amico… amico. Ci regala i doni di cui ci cibiamo… ci cibiamo”. Con la lenza in mano, imprecava contro i sessanta metri di acqua salata, avida, menefreghista, egoista. Quella lo spingeva là per ore sotto al sole, la pioggia o la neve, per dargli cosa? Il necessario per assicurarsi che il giorno dopo fosse ancora lì, nel deserto delle anime dimenticate. Si badi bene, le correnti erano così generose da risparmiargli la morte, anche se questa, a vederci bene, gli avrebbe permesso di fuggire da quella routine, da quella schiavitù naturalizzata per cui anche la luce del sole aveva smesso di infondere speranza.
Gettò l’esca e la superficie cerulea si fece mosaico dorato alla luce dell’astro nascente. Nel mentre che egli aspettava, il carro di Apollo galoppava nel campo celeste incendiando l’atmosfera sotto cui poggiava gli zoccoli. Si era sempre chiesto perché i suoi compaesani insistevano nel chiamarlo con quel nome greco quando Attila, per lui, sarebbe stato un nome più adatto. Sudò ed aspettò ed imprecò, perché quello era ciò che faceva tutti i giorni: il suo grido affinché si spezzasse la catena che lo teneva imprigionato. Un grido grezzo, rozzo perché quell’acqua, quel giorno, gli desse finalmente ciò che gli spettava.
Finalmente qualcosa abboccò: era grosso e tirava. Non c’era gioia più grande. Iniziò, dunque, a rispondere alla creatura marina con tutta la forza che aveva, tendendo tutti i muscoli, uno ad uno fino a diventare un fascio teso, tutt’uno con la lenza. Ma questa lo trascinava e lui non era abbastanza forte. Denutrito, debole per gli anni passati a remare, giorno dopo giorno, per giungere lì, non aveva forza in corpo per combattere contro gli abissi. Era grosso e tirava e lo trascinò via, dove l’aria non si avventura e la luce si spaura.
Piovra s. f. [dal fr. pieuvre] 1. (fig.) Persona avida e priva di scrupoli, che vive sfruttando egoisticamente e spietatamente un altro o altre persone, fino a distruggerne le risorse e le energie.
L’editoriale che L’Eclisse propone nel mese di luglio viene dedicato a tutti coloro che si sono ritrovati faccia a faccia con il mostro, irretiti nelle sue spire tentacolari, soffocati in un abisso senza fondo dove la luce ha paura ad avventurarsi.
È dedicato a tutti coloro che hanno gridato, si sono dimenati, han pianto e cercato una spalla su cui trovare conforto, hanno urlato “Aiuto!” ma nessuno – non un bagnino, né un bagnante, né un pescatore – nemmeno un pesce passato per caso ha tentato nulla contro la “Cosa”, l’innominabile, spaventevole, mostruosa bestia dalle mille ventose.
È dedicato a coloro cui il mare ha portato troppo a largo, lontani dai loro cari, dai loro affetti e dalla loro comunità, in una desolazione in cui nessuno doveva venire a trovarsi.
Questo editoriale è dedicato a coloro che si sono sentiti dimenticati, trascurati, schiacciati dall’indifferenza, dal peso di un’acqua torbida e oscura prima ancora che dalla morsa strangolatrice dell’enorme mollusco.
1066 sono le vittime innocenti delle mafie in Italia accertate di cui 509 attendono ancora di ricevere giustizia.
Questo editoriale è dedicato a loro.
“Tutto è brace.
Corrono solo le ombre”
La Redazione
Indice
- Premessa della Redazione
- Massomafie, servizi deviati e sistemi criminali di A. Girardin, a cura di F. Vecchi
- Cronache di Battaglia di M. Urriani
- La mafia liquida: intervista a Marco Fraceti di F. Vecchi
- Il mafioso sullo schermo, tra razzismo e glamourizzazione di V. Oger
- Anch’io sono lo Stato: la vicenda di Pietro Nava di M. Carenini