«Economia binaria»1: “la Tina vagante” alle radici del gender pay gap
L’espressione economia binaria riassume un principio che la riflessione femminista cerca di decostruire nel fallologocentrismo. Due mesi fa, a proposito del sessismo linguistico, abbiamo affrontato il concetto di coppia discorsiva, ovvero coppie di opposti naturalmente associati dove, il primo elemento della dicotomia, risulta, socialmente, il più forte a livello discorsivo. Maschile/femminile è la coppia per eccellenza. Fin dagli albori dello scibile, fin dalle teorizzazioni di Aristotele, il pensiero unico (dove unico sta per maschile, ovvero la visione imperante) ha sempre ritenuto una «necessità indiscussa» escludere le donne «dalla sfera del discorso e dall’azione pubblica»2. Questo perché il femminile è sempre stato concepito come un polo del maschile, come qualcosa di naturalmente tendente, per citare Bachtin, a passionalità ed emotività (De Chiara, pp. 155-7), e quindi incapace di rispondere alla razionalità propria del polo maschile. Detto in soldoni, la donna, secondo il pensiero unico sopra menzionato, è naturalmente meno portata all’azione politica, pubblica e sociale, perché incapace di rispondere alla logica, a causa del suo essere naturalmente e costantemente “indisposta”. Possiamo ben affermare quanto, questo principio, sia stato più volte smentito: le donne, nel corso dei secoli, hanno dimostrato di avere la stoffa, il coraggio e il carattere di rompere il tetto di cristallo e di irrompere, a gamba tesa, nella stanza dei bottoni, cercando di sovvertire e modificare leggi volute da un sistema patriarcale. Facciamo un salto indietro nel tempo, precisamente al 1977
Gli anni ’70 sono stati un decennio di profondo cambiamento, anche e soprattutto per la mobilitazione e la riflessione femminista, che inizia, animata del consolidamento della pratica dell’autocoscienza delineata nel corso degli anni ’60, a concepire la donna come un soggetto pensante in grado di intendere e volere e soprattutto non subordinata al maschile. In un solo decennio, possiamo assistere alla maggior parte delle riforme che interessano la storia e i diritti delle donne, dalla riforma del diritto di famiglia del ’75, all’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza del ’78, alla proposta di legge, nel ’79, sulla violenza sessuale e fisica sulle donne come crimine contro la persona e non più contro la morale, legge che verrà però approvata solo nel 1996. Nel ’76, sotto il terzo governo Andreotti, venne nominata Ministra del Lavoro e della Previdenza sociale Tina Anselmi. Era la prima volta che in Italia tale ruolo veniva ricoperto da una donna. Staffetta nella brigata partigiana autonoma “Cesare Battisti”, i compagni la chiamavano ironicamente “la Tina vagante” per il suo temperamento e la sua resilienza, nonché per la sua tendenza ad una indipendenza costante. Anselmi, fin dalle prime decisioni politiche, lavorò a lungo per i diritti delle donne, tanto che, proprio il 9 dicembre ’77, sarà tra le prime firmatarie della legge 903 riguardo la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. La legge venne riportata sulla Gazzetta ufficiale solo nel dicembre di quell’anno, ma era già da un anno materia di dibattito nelle aule parlamentari. Negli atti parlamentari rilasciati, Anselmi cerca di spiegare, così come al Corriere di informazione, le ragioni dietro la suddetta legge fin dalle prime righe del documento:
Il dibattito ha fornito l’occasione per un ampio esame dei problemi e della condizione della donna che lavora, nel quale sono stati messi in luce sia gli innegabili progressi compiuti sotto il profilo legislativo e sotto quello del costume e dell’evoluzione sociale, sia i gravi ritardi e le difficoltà che ancora si frappongono a soluzioni eque e soddisfacenti.3
Scopo di tale legge era attenuare -se non completamente ridurre – le discriminazioni sui posti di lavoro, come ad esempio il tentativo di cancellare la becera usanza del licenziamento ad nutum (art. 4). Fino all’anno della legge, infatti, il pensionamento, per una donna, era previsto intorno ai cinquantacinque anni (cinque anni prima dei colleghi maschi), e quindi il datore di lavoro poteva licenziarla senza motivazione. La legge, quindi, estendeva gli anni di lavoro fino ai sessant’anni, parimenti quelli lavorati dai colleghi maschi. Il nodo focale della legge è da ritrovarsi, però, nell’art. 2:
“La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne”.
Si trattava di un enorme passo avanti in quanto, il testo di legge, sanciva finalmente, su carta, «la parità tra i sessi nell’accesso al lavoro, alla retribuzione, all’avanzamento di carriera»4. Infatti la legge 903 non era solo un insieme di punti volti all’abbattimento delle disparità formali, ma anche un’analisi dettagliata delle condizioni di lavoro delle donne (che Anselmi conosceva in modo sempre aggiornato grazie ai costanti rapporti con i comitati di lavoro femminile di tutta Italia), nonché un invito all’indipendenza sociale ed economica per la donna, al fine di svincolarsi dall’interdipendenza maschile. Ciò, quindi, era raggiungibile solo attraverso un lavoro regolamentato, equo e fruttuoso. A tal proposito, infatti, Anselmi pensò anche a questo con l’articolo 7, che prevedeva il congedo di paternità, «promuovendo così il principio di condivisione tra genitori della cura dei figli»5.
Leggendo gli atti parlamentari, mi sono resa conto di quanto il testo di legge e la sua spiegazione fossero estreamamente innovativi, per l’epoca, e quanto le parole di Anselmi volte ad evidenziare le tragiche condizioni di lavoro delle donne di fine anni ’70, ritraggano una situazione che, ancora oggi, sembra poco cambiata:
[…] la disoccupazione femminile si mantiene costantemente più elevata della disoccupazione maschile; è vero che le donne, insieme ai giovani, rappresentano la quasi totalità degli impiegati nel lavoro nero […] è vero che le donne sono occupate in numero notevole in attività marginali, stagionali e temporanee; è vero che il tasso specifico di attività femminile, anche se non diminuisce in modo rilevante, resta comunque fermo rispetto ad una ricerca di occupazione in continuo aumento […] Si tratta, soprattutto, delle giovani che, raggiunta una pressoché totale uguaglianza per quanto riguarda la partecipazione alla scuola di ogni ordine e grado, considerano la scelta professionale fondamentale per la loro vita e si presentano nella quasi totalità sul mercato del lavoro. Basterà ricordare che, secondo le stime di esperti della materia, le giovani costituiscono la metà dei laureati e diplomati in cerca di prima occupazione.6
Sembra di leggere le parole pronunciate in qualunque telegiornale della sera dei nostri giorni. Anselmi, oltre che sulla disparità salariale, poneva l’accento sullo stallo dell’occupazione femminile e sulla difficoltà, da parte delle giovani laureate, nel trovare un primo impiego rispetto ai colleghi maschi. La situazione, oggi, non è molto migliorata. Come possiamo apprendere dal Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum, l’Italia, in materia di parità di genere nel mondo del lavoro, è al 63° posto nella scala mondiale (circa a metà classifica). Secondo le statistiche (con un lievissimo cambiamento rispetto al 2020, anno di inizio della pandemia), ci vorranno circa 132 anni – invece di 136- per colmare il divario di genere. Nel corso degli anni, il rapporto tra donne, lavoro e società è molto cambiato rispetto a quello delle nostre madri e nonne: un livello di istruzione maggiore, una gestione diversa del tempo e, soprattutto, un modello diverso di famiglia. Oggi, rispetto al passato, in un nucleo famigliare generalmente lavorano entrambe le parti, anche se, soprattutto gli uomini, ancora oggi faticano ad accettare questa situazione. Non è il primario, ma è sicuramente uno dei motivi cardine della disoccupazione femminile: oltre che la sfiducia da parte dei datori di lavoro, restii nell’assumere una donna in quanto consapevoli e convinti che essa possa essere “indisposta” o, peggio ancora, “in stato interessante”, e quindi prossima al congedo di maternità, oltre all’economia binaria di cui parlavo in apertura, spesso le donne si ritrovano a fare i conti con il male breadwinner model. Si tratta del principio per il quale sarebbe l’uomo a provvedere al sostentamento famigliare e la donna ad occuparsi dell’economia domestica, adempiendo così al ruolo, tradizionalmente imposto dal patriarcato, di cura della casa e dei suoi membri. Come un vaso di Pandora, questo modello è anche ciò che si potrebbe definire una red flag, un primo campanello d’allarme che dovrebbe scattare in quanto, chiaramente, depriva ancora una volta la donna dello spazio pubblico, e spesso primo segnale di una relazione tossica. Come dimostrano anche gli ultimi report del Viminale in materia di violenza di genere e femminicidio, questo modello spesso è alla base della violenza di genere, in quanto l’uomo nasconde dietro il pieno controllo del benessere economico, la propria insicurezza e il pensiero radicato che la propria compagna sia di sua proprietà. Spesso può nascondersi qualcosa di estremamente subdolo dietro alla premurosa frase “ai soldi ci penso io, a cosa serve che tu lavori?”. Il problema alla base del problema, in sostanza, è la visione corrente, che sulla carta e in via formale parla di politiche ad hoc per risolvere la disparità lavorativa, ma nella pratica e nella realtà, la parità risulta ancora una meravigliosa utopia legislativa.
1 pp. 28-9, Soggetti imprevisti, in D’Elia, C., Serughetti, G, Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne nel Nuovo Millennio, Minimum Fax, 2021
2 Ibidem.
3 Atti parlamentari della Camera dei Deputati del 30 giugno 1977.
4 p. 173, Battaglie civili e riforme, in Sapegno, M. S., Identità e differenze.Introduzione agli studi delle donne e di genere, Mondadori Università, 2011
5 Ibidem.
6 Ivi, atti parlamentari.
Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi.