Il 28 settembre 2022 è uscito su Netflix Blonde, film di Andrew Dominik che si propone come biografia romanzata e orrorifica della diva americana per eccellenza, Marilyn Monroe, interpretata da Ana de Armas.
La pellicola ha collezionato pareri contrastanti, tra cui il nostro grazie a Vittoria Tosatto, e non è la prima volta che l’arte cerca di raccontare Marilyn, le sue contraddizioni, il suo significato nella nostra cultura, la dualità della sua persona e, in definitiva, la nostra fascinazione con la sua tragica figura. Tuttavia, raccontare Marilyn è un’operazione estremamente difficile (e forse proprio per questo così accattivante), perché Marilyn Monroe non è stata semplicemente una donna, un’attrice. Anzi, Marilyn Monroe non è mai stata, non è mai esistita. Marilyn è un mosaico di immagini freudianamente – e non a caso è stata una delle più fedeli adepte della psicanalisi – proiettate da miliardi di agenti diversi, in primis dallo studio, dalla macchina hollywoodiana, e poi dalla stampa, dai suoi partner veri o supposti, dai registi che l’hanno diretta, dai fotografi e gli artisti che l’hanno ritratta, dagli scrittori che l’hanno raccontata, dalla memoria collettiva, dalla società americana post-bellica e, più di tutti, da ogni singolo spettatore che l’abbia mai ammirata sullo schermo.
Marilyn Monroe, imperatrice del monte Olimpo del divismo hollywoodiano, può essere raccontata solo attraverso il mito, brevi racconti che affrontano una sola sfaccettatura alla volta: l’infanzia difficile, la spaccatura tra Norma Jean e Marilyn, il rapporto con gli uomini, la lotta contro gli studios, l’oggettificazione del suo corpo, la sua intraprendenza e etica lavorativa, e via dicendo.
Chi scrive non ha la presunzione di aver capito tutto di Marilyn, ma vorrebbe trovare una via coerente in questo labirinto di specchi. Questo vuole essere il primo di un piccolo ciclo di articoli su quella che Elena Ferrante chiama brillantemente, nella sua celebre saga L’amica geniale, «l’invenzione della donna». Mi sembrava giusto cominciare non solo da un ambito che, per passione e area di studi, mi è particolarmente familiare, ma anche da uno dei massimi esempi globali del fenomeno: l’invenzione di Marilyn Monroe.
Brevi cenni biografici
Norma Jean Mortenson Baker nasce a Los Angeles il primo giugno 1926. La madre, Gladys, che lavorava alla Consolidated Film Industries, diede a Norma Jean i cognomi di entrambi i suoi ex-mariti – probabilmente per evitare che venisse considerata illegittima – ma la vera identità del padre rimane un mistero. Poiché Marilyn stessa, nella sua autobiografia1, parla di un uomo che lavorava allo studio, i biografi tendono ad identificarlo con l’impiegato alle vendite Charles Stanley Gifford, ma è certo che lei non lo conobbe mai, né fu mai tanto preoccupata di conoscerlo, a differenza di quello che insinua Blonde. Vero è, invece, che la madre teneva appesa sopra il letto di Norma Jean una foto di Clark Gable e aveva detto alla bimba che quello era suo padre: credenza poi disillusa al primo incontro di Marilyn, ormai ventenne, con il grande attore.
L’infanzia di Norma Jean, è risaputo, è costellata di difficoltà. La madre, mentalmente instabile (verrà poi definitivamente ricoverata per schizofrenia paranoide nel 1935) e finanziariamente incapace di occuparsi della figlia, l’affidava ai Bolender, una coppia di Hawthorne che accoglieva bambini in cambio di denaro e aiuto in casa. Nonostante la ferrea educazione religiosa, pare che i rapporti dei Bolender con Norma Jean fossero ottimi; anzi, fino ai sette anni, era convinta che fossero i suoi veri genitori.
Per un breve periodo, dopo il ricovero della madre, che di conseguenza non poteva più pagare i Bolender, la bimba viene affidata alla migliore amica e collega di Gladys, Grace McKee (la quale la avvicinerà alla passione per il cinema), ma, in seguito al matrimonio di quest’ultima, dal 1935 al 1938 Norma Jean vive all’orfanotrofio “Children’s Home Society” di Los Angeles. Durante questo periodo, viene affidata a una decina di famiglie, ottenendo però solo violenze e disattenzioni e subendo addirittura un abuso sessuale intorno all’età dei nove anni, ad opera di uno dei suoi padri affidatari. Marilyn racconta di aver avuto difficoltà a fare amicizia con i figli delle famiglie adottive, ma anche con i compagni di scuola e di essere stata una bambina tendenzialmente solitaria e sognatrice.
Durante la pre-adolescenza, Norma Jean, tornata a vivere con Grace McKee, si accorge dell’ascendente che il suo corpo in via di sviluppo ha sui coetanei di sesso maschile. All’età di quindici anni, inizia una relazione con James Dougherty, che sposerà l’anno successivo (allora in California l’età minima per sposarsi era fissata ai sedici anni) per non tornare in orfanotrofio, visto l’imminente trasferimento di McKee e marito in Virginia, i quali non volevano portare con sé Norma.
La ragazza abbandona gli studi per dedicarsi alla vita domestica, ma, quando Dougherty viene chiamato al fronte, inizia a lavorare in fabbrica per aiutare l’economia familiare. È proprio durante un servizio fotografico proposto da David Conover e la rivista Yank per «fotografare ragazze che tirassero su il morale delle truppe al fronte» che Norma Jean viene scoperta ed esortata ad intraprendere la carriera di modella. Nel 1946 Norma divorzia da Dougherty e posa per importanti fotografi, ottenendo contratti con riviste di moda che pubblicano gli scatti in giro per il mondo. È in questo periodo che, sotto consiglio di Emmeline Snively, direttrice della più importante agenzia pubblicitaria di Hollywood, comincia a schiarirsi i capelli e impara a sorridere e ad usare la giusta tonalità di voce. Grazie al discreto successo delle sue fotografie, Norma Jean riesce ad ottenere un contratto con la 20th Century Fox, dove le viene consigliato di cambiare il suo nome in qualcosa di più sensuale: nasce Marilyn Monroe, dal nome dell’attrice e ballerina Marilyn Miller e il cognome da nubile della madre di Norma, Gladys Monroe.
I primi anni cinematografici di Marilyn si rivelano un insuccesso, un po’ per l’infima importanza dei ruoli propostile, un po’ perché Darryl Zanuck, direttore della Fox, non credeva che avesse la stoffa dell’attrice cinematografica. Il contratto non le venne rinnovato. Solo nel 1948 Marilyn ottiene una parte da protagonista in Orchidea bionda (Ladies of the Chorus, P. Karlson) per la Columbia, ma si rivela un insuccesso e anche questo contratto scade senza offerta di rinnovo. Marilyn comincia allora a prendere lezioni di recitazione e canto, si sottopone a piccoli interventi di chirurgia estetica al naso e al mento e soprattutto conosce Johnny Hyde, un talent scout che era rimasto colpito dalla sua piccola parte in Una notte sui tetti (Love Happy, D. Miller, 1949). Egli otterrà per lei due ruoli che cominceranno a farla notare, entrambi per la Metro Goldwyn-Meyer: Angela Phinley in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle, J. Huston, 1950) e Claudia Caswell in Eva contro Eva (All About Eve, J. L. Manckiewitz, 1950).
Complici le innumerevoli lettere dei fan e lo scandalo della pubblicazione non autorizzata di alcune foto per cui Marilyn, in difficoltà economiche, aveva posato nuda, l’attrice viene reingaggiata dalla Fox, che questa volta si impegnò per promuoverla come attrice se non di punta, quanto meno adatta a ruoli principali e che evidenziassero la sua bellezza.
Il 1953 è l’anno magico per Marilyn: la tripletta d’oro di Niagara (id., H. Hathaway), Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire, J. Negulesco) e soprattutto Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes, H. Hawks) la consacrò come nuovo sex symbol – secondo alcuni, il primo sex symbol. Gli ultimi due titoli traslano la carriera di Marilyn da un passato di femmes fatales doppiogiochiste ad un futuro di bionde svampite, più adatto al suo talento comico: sexy sì, ma quasi loro malgrado, come vedremo più avanti.
Indubbiamente, questo archetipo di personaggio è quello con cui quasi tutti identificano Marilyn, spesso arrivando erroneamente a sovrapporre il vero carattere dell’attrice con le sue performance. La stessa Marilyn comincerà a lamentare, in questo periodo, la superficialità con cui veniva vista dallo studio, che non riusciva a cogliere la sua «grande anima» (per usare le parole della sua insegnante di recitazione, Natasha Lyness) e le sue doti drammatiche, ma era più interessato al suo decolleté.
Tra il 1954 e il 1955, il fenomeno Marilyn continua ad impazzare (è il periodo del matrimonio a Joe Di Maggio e del concerto alle truppe americane stanziate in Corea), ma la qualità delle sceneggiature (e del salario) che le vengono proposte stenta a decollare, con la notabile eccezione di Quando la moglie è in vacanza (The Seven-Year Itch, B. Wilder, 1955), che, se non è il film migliore del regista, è sicuramente uno dei più intelligenti meta-commenti sulla figura di Marilyn, come vedremo. Dopo il divorzio da Di Maggio, la diva si trasferisce a New York, dove comincia a seguire le lezioni dei coniugi Strasberg all’Actor’s Studio e inizia il suo percorso di psicanalisi. Nel frattempo, inizia una relazione con Arthur Miller e fonda la propria casa di produzione, la Marilyn Monroe Productions, ottenendo dalla Fox la co-produzione dei successivi suoi film e quindi una maggiore libertà decisionale sui ruoli da interpretare: la prima pellicola co-prodotta dalla MMP è Fermata d’autobus (Bus Stop, J. Logan, 1956), seguita da Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, L. Olivier, 1957). Sposato Miller, Marilyn decide di prendere una pausa dalla recitazione, in parte a causa dello shock del suicidio della sua vecchia tutrice, Grace McKee, in parte perché voleva avere dei figli con il nuovo marito. Purtroppo, anche a causa della probabile endometriosi di cui soffriva, Marilyn ebbe più di dieci aborti (spontanei e indotti), fatto che segnerà pesantemente la sua salute mentale.
Il ritorno sullo schermo della diva bionda è lasciato ancora una volta a Billy Wilder e al suo A qualcuno piace caldo (Some Like it Hot, 1959), il cui set è purtroppo segnato da suoi ritardi e improvvise sparizioni, ansie, paura da palcoscenico e abuso di farmaci e alcol che la rendevano spesso mentalmente distante. Wilder, che già si era scontrato con i ritardi e le insicurezze di Marilyn tre anni prima, ripeterà spesso le sue lamentele a proposito, riconoscendo, però, in lei «un genio assoluto come attrice comica».
Il peggioramento della sua salute fisica e mentale, il deterioramento dei rapporti con Miller, l’abuso di sostanze e l’insoddisfazione per l’insuccesso delle gravidanze segnano pesantemente l’inizio degli anni Sessanta. L’ultimo regalo di San Valentino da parte di Miller sarà la sceneggiatura de Gli spostati (The Misfits), film drammatico con un ruolo scritto appositamente per l’attrice e nel quale avrà l’occasione di recitare con suo “padre”, Clark Gable, per la regia di John Huston. Purtroppo, sia a causa di numerosi ricoveri per problemi di salute, sia per il giudizio negativo di Marilyn sulla pellicola da lei giudicata «una storia di uomini e cavalli», la diva sarà spesso in ritardo o assente dal set, obbligando la produzione a chiudere con un notevole ritardo. Ormai Marilyn è completamente dipendente da alcol e psicofarmaci: viene internata al Payne Whitney Psychiatric Clinic di New York, situazione che degenererà in una sorta di detenzione contro la sua volontà, fino all’arrivo di Joe Di Maggio, che riuscirà a trasferirla in una clinica meno rigida.
Abbandonata dagli amanti Frank Sinatra e John F. Kennedy e di fronte al nuovo matrimonio dell’ormai ex-marito Arthur Miller, Marilyn si ritira nella villa di Fifth Helena Drive a West Los Angeles, sprofondando sempre di più nella depressione e nell’abuso di sostanze e perdendo sette chili. Nel frattempo, era iniziata la produzione di Something’s Gotta Give, film diretto da George Cukor dal quale Marilyn fu dapprima licenziata per le troppe assenze, e poi re-ingaggiata tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 1962. Il film non verrà mai concluso, poiché, com’è noto, l’attrice verrà ritrovata morta nella sua villa di West Los Angeles il 5 agosto 1962 a causa di un’overdose di barbiturici.
Nata ieri
Come affermato in precedenza, la maggior parte dei personaggi interpretati da Marilyn Monroe, sicuramente i più celebri, sono assimilabili sotto l’etichetta della “bionda svampita” o della “nata ieri”. Questo archetipo, cui solitamente – ma non sempre – si contrappone una “bruna sveglia” (vedi Jane Russel ne Gli uomini preferiscono le bionde o Lauren Bacall in Come sposare un milionario), gioca sull’infantilizzazione di una donna di bell’aspetto che, però, è totalmente sprovveduta, proprio come se fosse nata ieri. L’uomo della situazione, dunque, è soggiogato dal suo sex appeal, ma allo stesso tempo si pone su un piano superiore poiché è incaricato di insegnarle come vivere nel mondo reale (spesso la bionda svampita ha sogni di gloria relativi a qualche campo “poco serio”, come lo showbusiness). Ovviamente, l’apprendistato passa anche da sotto le lenzuola, ça va sans dire, rafforzando la fantasia maschile di essere il Primo (amante, amato, maestro, ecc.) di una donna che, essendo nata ieri, è in tutto e per tutto dipendente da lui e sprovvista di metri di paragone.
Naturalmente, l’archetipo viene poi declinato in maniera diversa di film in film. Se la Lorelai de Gli uomini preferiscono le bionde dimostra di non essere poi così sprovveduta e vacua, Zucchero di A qualcuno piace caldo o Pola di Come sposare un milionario non trovano scampo da una visione sessista che sottintende una facilità di costumi che, per quanto dettata da un’innocenza esageratamente infantile, è comunque vista con puritano disappunto, così come l’intenzione di sposare per convenienza un uomo ricco è sì, uno dei motori dell’impianto comico delle vicende, ma porta con sé una leggera puzza di disprezzo. Infatti, se la donna è ingenua e infantile, come si può accettare che sia tanto astuta da voler raggirare un uomo per sedurlo e approfittare delle sue ricchezze? La questione viene risolta rendendosi conto che quest’ambizione non rappresenta il vero carattere della donna, probabilmente traviata momentaneamente dal mondo corrotto intorno a lei, che si accorgerà di amare davvero (di un amore “puro”, virginale) l’uomo, per il quale può anche rinunciare alla carriera flamboyante – cantante, ballerina ecc. – per la quale i soldi le avrebbero anche fatto comodo.
Questo archetipo complesso e moralizzante, che cerca di ricondurre sulla retta via la femme fatale indipendente non punendola esplicitamente, ma addolcendone i tratti grazie ai capelli biondi e alle forme rotondeggianti che ricordano i putti barocchi, ricordandole che è ancora ad uno stadio infantile sulla scala sociale, è stato fondamentale nell’assimilazione di Marilyn al complesso divistico. Anche fuori dallo schermo, la sua storia tragica e il suo viso bellissimo, l’aria gentile e un po’ spaurita e le curve del suo corpo sono andate a suggellare l’immagine chimerica di una bambina mai veramente cresciuta, un po’ triste, da salvare, mai pienamente consapevole del suo potenziale erotico e, proprio per questo, incredibilmente conturbante. Rispetto ad una Grace Kelly bionda ma gelida, bellissima ma elegante e sicura di sé, dea lontana da raggiungere e convincere a scendere dai cieli per raggiungere un uomo inferiore che si eleva solo seducendola, la fantasia di conquista di (un tipo come) Marilyn passa per il riconoscimento da parte di lei di un’autorità già superiore, che semmai la eleva al suo livello sociale, etico e culturale. E se poi veramente lei chiamava “daddy” (“papino” in inglese) tutti i suoi amanti, probabilmente aveva capito che cosa gli uomini volessero da lei.
Nella realtà, Marilyn non era affatto ingenua, né tanto meno stupida: aveva attraversato periodi molto difficili, aveva imparato a cavarsela in tutti i modi e, anche intellettualmente, ambiva a migliorarsi sempre. Si era iscritta ad un corso di Storia dell’arte all’università, leggeva assiduamente, amava Čechov, Sandburg, Freud e Jung, prima della morte aveva disposto i fondi per quattro film di cui sarebbe stata regista, sceneggiatrice e attrice. Per tutta la sua carriera si è sottoposta a corsi di recitazione e canto, imparava perfettamente la parte e restava fino alle ore più tarde a provare nel camerino: tutti i suoi collaboratori, nonostante i ritardi e le ansie da prestazione, hanno sempre concordato nel trovarla una lavoratrice instancabile.
Soprattutto, Marilyn era pienamente consapevole della propria immagine. La sua autobiografia è scritta in uno stile candido che si propone contemporaneamente come una confessione totalmente onesta ( talvolta si lascia andare a rivelazioni che, normalmente, scalfirebbero la sua reputazione, ma che in questo contesto la rafforzano proprio in virtù della sua onestà) e come una difesa dai suoi detrattori che, però, sembra, più che arrabbiata, incredula, incapace di immaginarsi le ragioni delle critiche che le sono state rivolte. Una vittima perfetta, insomma, davanti alla quale è impossibile non dirsi «oh, poverina, se ci fossi stat* io avrei forse potuto convincerti che sarebbe andato tutto bene». Anche dopo la liberazione dall’istituto psichiatrico di New York in cui era rinchiusa contro la sua volontà, Marilyn non si scherma dai flash dei fotografi né si sottrae ai giornalisti che la aspettano davanti all’uscita. Certo, è abbastanza sensibile e scossa da non rilasciare interviste proprio in quel momento – e comunque è sempre stata parecchio riservata nelle interviste, chiedendo spesso di approvarne la stesura finale prima della pubblicazione – ma comunque ha sempre un sorriso gentile o un «grazie» da sussurrare velocemente: è sempre quella bambina povera che sognava il cinema e che sarà per sempre grata a noi, poveri mortali spettatori o giornalisti, che le abbiamo donato la fama e l’affetto.
Personalmente, penso che questi sentimenti fossero in gran parte genuini, così come la sensazione di non venire mai compresa fino in fondo né da Hollywood, né dalla stampa e, in definitiva, neanche dal pubblico. Tuttavia, è innegabile che il modo in cui ha saputo dosare ciò che di lei si sapeva è uno dei motivi principali per cui, ancora oggi, siamo così interessati a conoscere la “vera” Marilyn, a capire le radici della sua tristezza, a riempire i buchi nella trama della sua vita. Marilyn era una bambina triste che bisognava salvare, era una donna bellissima che bisognava amare, ma nessuno ci è riuscito. Se fosse però diventata un’attrice drammatica affermata e una regista-produttrice-sceneggiatrice di successo, probabilmente non sarebbe restata il mito che conosciamo.
Come inventare una dea
Marilyn è riuscita a trovare un equilibrio unico nel panorama divistico: ha creato un’icona, con tratti fisici e caratteriali immediatamente riconoscibili, una statua divina appunto, ma ha lasciato delle piccole crepe attraverso cui traspariva la sua interiorità. Queste crepe non sono abbastanza grandi da renderla troppo individuale, da mostrarci esattamente la specifica della sua persona, ma bastano per creare un legame affettivo con lei e riconoscerci nei suoi problemi. Altre dive, per quanto grandi, non sono mai riuscite in quest’impresa, eccedendo sempre sul fronte della riservatezza, come l’intoccabile Garbo, o al contrario finendo troppo spesso in prima pagina (una fra tutte, Elizabeth Taylor).
Ho usato come soggetto dell’inizio di questo paragrafo “Marilyn”, ma intendo in realtà chi l’ha inventata: non solo Norma Jean, quindi, ma lo studio, la stampa con i suoi scandali studiati ad arte, Arthur Miller che su di lei ha basato tanti personaggi da cominciare a confonderla con essi, i piccoli dettagli della sua vita modificati tante volte da diventare leggendari.
Secondo l’opinione di chi scrive, tra gli esempi migliori dell’invenzione di Marilyn e del suo mito, a opera degli altri e (forse soprattutto) di se stessa, c’è il rapporto della diva col sesso. Il pubblico, naturalmente, ha sempre considerato Marilyn Monroe, poiché radice dei suoi pensieri erotici incontrollabili, portatrice di desideri analoghi. Al contrario, in svariate occasioni, sia nella già citata autobiografia che in numerosi scritti privati2, Norma/Marilyn esprime un sostanziale disinteresse verso il sesso, il che ha portato alcuni studiosi ad ipotizzare una sua asessualità (va qui notato che Marilyn stessa dice di aver pensato spesso di essere “frigida” o “una lesbicona”3 e che alcuni hanno speculato su alcune sue relazioni saffiche, ad esempio con Joan Crawford; tuttavia, non avendo conferme delle stesse, sembra legittimo intendere l’uso del termine “dyke” come sinonimo di “non interessata agli uomini”). In realtà, Marilyn non si dichiara disinteressata al sesso in generale, ma solo nei confronti di uomini di cui non era innamorata: più che di asessualità, dovremmo parlare di demisessualità.
Eppure, ancora un nodo: se nell’autobiografia (pubblicata e quindi per forza pensata nell’ottica di costruzione del personaggio e protezione della reputazione) il concetto viene ribadito più volte, negli appunti personali esso viene limitato al periodo del primo matrimonio, dichiaratamente di convenienza e comunque contratto ad un’età talmente giovane da rendere comprensibile che Norma, peraltro proveniente da un’educazione fortemente religiosa, non fosse totalmente a contatto con la sfera del desiderio. Avanziamo quest’ipotesi soprattutto in virtù di una lettera del 1960, risalente al ricovero al Payne Whitney Psychiatric Clinic e indirizzata al suo psichiatra, in cui Marilyn racconta di aver avuto un rapporto soddisfacente con un uomo di cui non è nota l’identità, ma per cui chiaramente l’attrice non provava sentimenti amorosi.
Senza scadere in ulteriori e tutto sommato inutili ipotesi sull’orientamento sessuale di Marilyn, possiamo oggettivamente ridimensionare l’immagine di seduttrice e sedotta seriale che si porta dietro ancora oggi, spesso con velature misogine. Tuttavia, quest’aura di sesso è stata fondamentale nella creazione del suo mito e di questo lei stessa era consapevole, avendo contribuito con sottile humour (la famosa battuta «Con cosa dormo? Qualche goccia di Chanel n. 5») e studiate amicizie ad alimentare la leggenda. Come sappiamo, questa è stata forse la più affilata delle armi a doppio taglio.
Di Marilyn resta, dopo la sua morte e grazie ad essa, un frammento, un ologramma, una fantasia rielaborata man mano e da ognuno. In questo, il suo personaggio in Quando la moglie è in vacanza è esemplare: dichiaratamente una fantasia del protagonista maschile, “La Ragazza” non è nemmeno indicata con un nome nella sceneggiatura e appare nel film in vesti sempre nuove, adattandosi ai desideri, così come alle insicurezze e alle impotenze, di Richard Sherman (Tom Ewell), uomo qualunque che non riuscirà mai a raggiungere il suo miraggio, se non altro per rispetto all’anello che porta sull’anulare (o per codardia).
Allo stesso modo, quella che può sembrare un’operazione tanto semplice come raccontare la vita dell’attrice più famosa del XX secolo, su cui si sprecano le biografie, le indagini nel personale, le analisi filosofiche e le testimonianze, diventa un’impresa gargantuesca, perché Marilyn, come i romanzi-mondo di Tolstoj e Dickens, è diventata nel tempo un personaggio-mondo in cui si scontrano le tensioni che attraversavano un Paese sull’orlo del cambiamento, si incontrano le empatie individuali, si uniscono le proiezioni dell’inconscio: impossibile da riassumere anche in un film di tre ore o in un libro di quasi mille pagine.
Alla fine, come al solito, aveva ragione Marilyn quando, parlando delle accuse di indecenza che le venivano rivolte, si chiedeva se non le venissero poste non per qualcosa che lei aveva fatto, ma per quello che le persone avevano immaginato o sperato vedendola. «Io sono come uno specchio», scriveva4, «le persone mi guardano, ma quello che realmente stanno vedendo è loro stessi, i pensieri che loro stessi stanno facendo».
Note
- M. Monroe, La mia storia: riflessioni autobiografiche con Ben Hecht, Roma: Donzelli, 2010
- cfr. S. Buchthal, B. Comment (a cura di), Marilyn Monroe : fragments : poesie, appunti, lettere, Milano: Feltrinelli, 2010 e L. Banner, Marilyn Monroe personal : inediti dall’archivio privato dell’attrice, Novara: De Agostini, 2011
- Traduzione dell’inglese “dyke“.
- Questo concetto viene ripetuto lungo tutto il corso delle sue riflessioni, quasi totalmente negli stessi termini.