Prima della pandemia (che è, nella percezione comune, uno spartiacque alla stregua della nascita di Cristo), in un periodo di depressione personale in cui ero incerto sul da farsi riguardo al mio futuro (come se ora abbia una qualche certezza), conobbi su Twitter un ragazzo messinese di nome Alessandro. Le nostre interazioni diventarono più frequenti, mi dava sollievo e piacere avere un amico con cui parlare, qualcuno che non fosse vicino a me e che non potesse essere risucchiato nella mia orbita depressiva, che in genere dava come esiti o pietismo o consigli non richiesti.
Stasera mi trovo nella casa di Alessandro e di Fabrizio, il suo ragazzo. Io e Damiano (il mio partner) veniamo accolti in un graziosissimo spazio. Ci adagiamo sulle sedie di un piccolo tavolo che si lasciano alle spalle due camini riempiti di libri di moda e fotografia e l’intervista inizia davanti a dei calici di vino bianco siciliano e un aperitivo.
Presentati ai nostri lettori!
Ciao a tutti (mimando la voce di Chiara Facchetti), sono Fabrizio Milazzo, ho 25 anni e sono nato a Palermo, in un quartiere terribile in realtà, Brancaccio (risate di Alessandro), noto anche per alcuni delitti di mafia. A settembre 2021, dopo una breve parentesi di Erasmus berlinese, mi sono trasferito a Milano.
Com’era Berlino? Una buona parte della mia for you page di Tiktok riporta pareri contrastanti su questa città, voglio sentire anche il tuo.
Berlino è veramente punk, punk in modo pesantissimo. Io sono stato a Londra, ed avevo aspettative molto alte riguardo alla scena underground, che sono state disattese, forse anche per colpa mia che non sapevo bene dove andare. Ma Berlino non mi ha deluso. A fine anni ‘70, inizio anni ‘80 la scena punk berlinese viene inglobata dalle nuove tendenze underground, soprattutto quella della techno. Quel nascente modo di approcciarsi al clubbing e all’uso delle droghe si è conservato e tutt’ora buona parte del turismo berlinese è associato alla frequentazione di alcuni club (ad esempio il Berghain). In città si respira un’aria di libertà assoluta e quindi, ai nostri occhi, anche un po’ perversa. Per dirti, io un giorno ho visto una persona totalmente vestita di latex che urinava tra due macchine in mezzo ad Alexanderplatz.
E la gente?
Nessuno ha detto niente. Tutti hanno proseguito rilassati a fare le loro cose. A me Berlino è parsa di una libertà che non so capire bene. Se fossi rimasto penso mi sarei perso. Quindi ho deciso di tenermela come primo amore e andare altrove.
Ma torniamo ai cenni biografici. Tu hai fatto il liceo artistico?
(Risate di Alessandro)
Questo non lo mettiamo nell’intervista.
Lo tagliamo, però dillo a me.
Ho fatto il turistico perché volevo studiare lingue e mi hanno convinto che si viaggiasse di più che al linguistico. E invece abbiamo fatto le solite gite annuali, come tutti. Tra l’altro anche abbastanza di merda. Col senno di poi probabilmente avrei fatto il liceo classico, mi avrebbe dato delle basi culturali più solide per affrontare ciò che ho scoperto essere i miei interessi, all’università.
Che cosa hai studiato?
Mi sono laureato in scienze della comunicazione per le culture e le arti, che a Palermo è bellissima perché incentrata sugli aspetti più culturali, su discipline come l’antropologia, la sociologia e la semiotica, quasi per nulla sul marketing. Per me è stata una fortuna perché mi ha dotato di un bagaglio di conoscenze spendibili nel mio campo di lavoro, la fotografia.
Quando hai iniziato a fare foto?
Ho cominciato a 13 anni, quando c’era un po’ il mood di fare i fotografi con la propria reflex derivato da Tumblr. I miei non mi hanno comprato una macchina nuova, ma mia madre mi ha dato la sua analogica, e da allora fino a 18 anni ho scattato in pellicola a colori.
Tua madre era contenta che tu avessi iniziato a scattare?
Sì! Mia mamma è laureata in pittura all’Accademia di Belle Arti. Ha sempre avuto interesse per le arti figurative ed era felice che la tradizione artistica proseguisse.
Quali sono stati i primi apprezzamenti o riconoscimenti per il tuo lavoro?
Il quinto anno di superiori fondo un collettivo fotografico chiamato LAND con altri due ragazzi, una coppia, che mi contattano dicendomi che le mie foto piacciono loro molto. Iniziamo a fare ricerca fotografica sul paesaggio, esclusivamente in pellicola. Il progetto ha il suo culmine con la mostra fotografica Roots in un circolo Arci di Palermo che, nonostante il budget prossimo allo zero, presenta una realizzazione molto bella e conosce anche un discreto successo di pubblico.
Un altro riconoscimento per me importante è l’inaugurazione, nel 2019, insieme a Simona Mazzara, di una mostra al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo curata da Letizia Battaglia dal titolo: Le notti della Queerilla. L’esposizione rappresenta il reportage fotografico della serata Party Nudo, evento queer di Palermo a cui partecipavano persone da tutta la Sicilia.
Sfogliamo assieme il catalogo della mostra sopracitata; finisce il vino e Fabrizio ne prende dell’altro. Intanto si sta consumando una discussione sui daddy issues di Damiano e Alessandro, che parlano dei loro e delle loro ex.
I tuoi primi lavori (retribuiti)? Mi hai detto precedentemente che con l’esperienza della fotografia di paesaggio hai capito che potevi monetizzare, mentre gli altri due ragazzi del collettivo non erano interessati. E questa, tra altre, è stata la ragione del suo scioglimento.
Sì, mi sono rotto la minchia con la fotografia di paesaggio. Succede una cosa bellissima, durante il Sicilia Queer Film Festival: mi ferma un ragazzo, dicendomi che ha molto apprezzato le foto sul mio profilo Instagram e quelle di Party Nudo, e mi chiede di scattare la campagna del suo brand di moda. In una casa meravigliosa a Palermo, modelli invitati ad una festa che non devono recitare ma vivere, con i vestiti di Mattia addosso, mentre io che mi aggiro a scattare, creando dei mini-set nei vari ambienti e a seconda delle situazioni.
La prima esperienza con la fotografia di moda mi ha fatto rendere conto che era quella giusta per me: canalizzava i miei interessi e le mie passioni, mi permetteva di costruire scatti fittizi. Io voglio fare il finto, mi interessa comporre il set in maniera da rappresentare un racconto, un mood, un’atmosfera. Non voglio realismo, anzi trovo che, essendo il realismo impossibile in fotografia, perché l’occhio dell’esecutore e quello dell’osservatore influiranno sempre sulla fruizione, la costruzione di un qualcosa di fittizio si avvicini di più ad un’oggettività fotografica.
Perché ti piace la moda?
Io credo fortemente nel valore culturale della moda: quando è fatta bene, ha la capacità di raccontare la contemporaneità. E mi piace capire, come un gioco, l’interpretazione che lo stilista dà al presente, e soprattutto come si sente in relazione ad esso.
Un nome che ti piace?
Trovo che Alessandro Michele non sia un gran designer, anzi forse non lo è affatto, ma mi interessa la sua archeologia culturale e la maniera in cui imposta le sue collezioni e le sue sfilate, ovvero creando o ricreando un mondo in cui si può scorgere un filo narrativo. Sono l’immaginazione, la capacità di regalare un sogno, un’utopia, che mi interessano; sono sogni e utopie di cui la contemporaneità ha bisogno e in cui può trovare rappresentazione, consolazione e stimolo a reinventarsi.
Poi, l’arrivo a Milano.
Uno dei motivi per cui mi sono trasferito a Milano è che a Palermo stavo già facendo quello che volevo fare al massimo delle possibilità che la città poteva offrirmi. Mi ero fermato, adagiato, ero il fotografo dei 3 massimi brand per cui potevo lavorare. Non è stata un’ottima scelta dal punto di vista economico, ma non volevo accontentarmi a soli 24 anni e sentivo di non starmi mettendo abbastanza in gioco. Quello che Palermo poteva darmi me l’ero preso. La città ha i difetti di tutte le città medie e piccole: se pensi di aver fatto qualcosa di bello ti senti un dio, semplicemente perché non c’è nessuno con cui confrontarti.
Ovviamente arrivato a Milano si sono susseguiti pianti, crolli, depressione, solitudine; nessuno mi si inculava.
Ma tu eri convinto che quello che facevi fosse valido?
Ma amo… (risata). Non lo so… c’è una canzone di Club Domani, Manifesto, che dice che Milano “unisce i talentuosi ed esclude i mediocri”, vedremo.
E per quanto riguarda il lavoro al Plastic?
Io sono arrivato a settembre a Milangeles, e fino a gennaio non ho fatto un granché. In città conoscevo solo Alessandro, il mio ragazzo, e due amiche. I weekend, e in particolare il sabato sera, non sapevo che fare. Poi soprattutto grazie alle mie amiche Beatrice (Quinta, NdR) e Adriana ho cominciato a conoscere gente. A gennaio, dopo il lockdown, mi arriva un messaggio da Andrea Ratti (uno degli art director e deejay della serata del sabato al club Plastic, chiamata Club Domani, NdR) che mi chiede un portfolio e se avevo voglia di continuare a fotografare i party, dopo essere stato ospite e avermi conosciuto a Palermo assieme a Stephanie Glitter.
Quali sono i fotografi e più in generale gli artisti a cui ti ispiri?
Per quanto riguarda la fotografia mi piace moltissimo Nadia Lee Cohen, perché ha una maniera molto cinematografica di comporre e scattare e perché attaverso i suoi scatti si riesce a respirare l’aria di Los Angeles. La sua è un’estetica della middle class anni ‘50 negli USA, capelli cotonati, set casalinghi.
In generale sono molto affascinato dalla cultura degli Stati Uniti, il mio professore di antropologia all’università ha fatto un ottimo lavoro di rimozione dello stereotipo che vede gli americani come rozzi e incolti, o quantomeno culturalmente inferiori agli europei. Guardo a quel mondo con molta curiosità e senza la fretta di giudicare.
Stephen Shore e William Eggleston sono i miei fotografi di paesaggio preferiti: studiano lo spazio escludendo completamente l’attore umano ma includendo la traccia dell’uomo nell’ambiente, il modo in cui abita gli spazi:parcheggi, città e quant’altro.
Sempre rimanendo in tema americano, amo la cinematografia anni 70 americana e i più contemporanei Quentin Tarantino, Harmony Korine.
Come si può capire ho un po’ una fissa per gli USA. Mi interessa il modo in cui il mito americano è stato costruito e la ricerca di una cultura comune, in un territorio troppo grande per essere anche solo immaginato tutto insieme.
Quindi ti piaceranno Lana del Rey e la sua estetica.
Lana del Rey è totalmente il mio mood: posti giganti, il potersi perdere e fondere con il luogo in cui si abita, punk ma soave, meditabondo e sognante.
Tornando ai fotografi e alla moda…
Amo il lavoro di Glen Luchford, non a caso uno dei fotografi principali di Gucci, anche lui capace di estrema cinematograficità, di fare di un set un’opera di fiction. In generale però mi crea un po’ di ansia rapportarmi ad altri fotografi, perché poi la gente cerca qualcosa di loro nelle mie foto e non lo trova, e questo perché la mia maniera di apprezzare non è imitativa o emulativa.
Last but not least: quali sono i tuoi desideri e progetti per il futuro?
Che domanda difficile!
Voglio fare un sacco di soldi! No, scherzo, vorrei migliorare le mie conoscenze tecniche riguardo agli strumenti del fotografo, perché sono un cane. Mi annoia da morire la tecnica fotografica. E vorrei raccontare di più, con più coerenza e corposità, attraverso le mie foto.
E infine, se avessi un budget più alto, abbandonerei totalmente il digitale in favore di un ritorno alla pellicola.
Ale mi dice: pari Mara Venier. Io rispondo: manca il seno. Damiano replica: ci puoi lavorare amo.
Tornando un attimo al Plastic: come ti trovi?
Mi piace molto, anche se delle volte è molto stancante lavorare il sabato sera fino a notte inoltrata. Però si è creato un clima familiare, il mio lavoro è apprezzato e tutti sono molto gentili.
La mia permanenza da quasi un anno al Plastic mi sta mettendo alla prova: uno dei problemi più grandi dei fotografi è che il loro occhio si abitua all’ambiente in cui lavorano e magari non colgono più il suo potenziale espressivo e quello dell’interazione delle persone con ciò che le circonda. Nel club mi sto allenando a rinnovare la mia visione e a combattere contro questa maledizione. Sono molto fortunato a lavorarci, perché è un pezzo di storia che ancora vive e che è stato ed è celebrato da molti artisti.
Ma una raccolta fotografica con le foto scattate al Plastic?
Sogno un libro, magari tra dieci anni.
Non diamo, al giorno d’oggi, molto valore alle foto scattate nei club perché ci muoviamo in ecosistemi digitali saturi di immagini. Tutte le discoteche dopo ogni serata pubblicano scatti, è la norma. Ma non è affatto banale che ci siano questi scatti, che una persona si dedichi a ritrarre le persone in un momento di libertà e di freni inibitori allentati. I club sono gli ambienti dove succedono le cose, la gente parla, la gente si scambia contatti ed esperienze. E il Plastic è una cartina tornasole di quello che la gente è e fa in quel momento, o almeno una cerchia di persone, ristretta ma che fa da riferimento per un gruppo molto più ampio di individui. Ed è anche un ambiente sorprendentemente meritocratico, in cui il tuo impegno in un campo, sia esso la moda, lo stile, fare la drag queen, viene visto, riconosciuto e anche premiato, magari da un complimento o da un’offerta lavorativa.
L’intervista termina perché io, mentre faccio pipì in bagno, scopro che c’è uno stooping di due poltrone di design vicinissimo a casa di Fabrizio ed Ale, che escono di corsa ancora in pigiama e ciabatte, buttandosi addosso un cappotto con me e Damiano. Affrontiamo la notte gelida e quasi un chilometro di strada per non trovare più nulla. Chissà se Atget o Eggleston avrebbero fatto una foto a quelle poltrone. In ogni caso di esse ci rimane l’istantanea di un post Instagram e il ricordo di una camminata tutti insieme per una Milano gelida, uno scatto che si può respirare.
Trovate Fabrizio su Instagram @fabrizio_milazzo e su Tiktok.
di Nikolin Lasku
Studiavo medicina, mi sono perso e ritrovato a lettere moderne. Leggo di critica sociale da un iPhone lilla. Mi piace scrivere in stile advanced pop e ascoltare l’hyper-pop. Sono su Instagram @lsknkln.