Entrare in una galleria d’arte presuppone di rispettare il medesimo religioso silenzio richiesto al momento di varcare la soglia di una chiesa. Il museo intende coinvolgere lo spettatore in un rapporto conoscitivo mediato da informazioni storiche puntuali, nel tentativo di raccogliere un pubblico il più ampio possibile da accompagnare quasi tenendolo amichevolmente per mano. Le spiegazioni delle guide, gli sbadigli dei membri delle scolaresche, le lamentele dei bambini annoiati con i conseguenti rimproveri dei genitori, i commenti non richiesti di anziani saccenti: questo il brusio che costituisce il sottofondo di una visita al museo. Invece, lo spazio bianco della galleria, il cosiddetto White Cube, si caratterizza per il suo silenzio, il suo vuoto e il suo bianco. Tutto ciò non implica l’impossibilità di frequentare questi luoghi apparentemente tanto elitari ed esclusivi, quanto più la necessità di comprenderli per poterli affrontare.
Innanzitutto, per accedere alle gallerie, spesso, bisogna suonare un citofono e far sapere, a chi è all’interno, che ci si trova lì per visitare l’esposizione in corso: uno spazio che sembra allontanare ma che allo stesso tempo invita a frequentare un luogo intimo, come se si stesse entrando in casa di qualcuno. Quando ci si reca a casa di un amico, solitamente non si paga: non recatevi in una galleria con l’idea di spendere soldi per un biglietto, non accadrà mai. Invece, potrà accadere che vi innamoriate di una determinata opera, in tal caso potrete recarvi dalla persona che vi ha accolto all’ingresso per informarvi sul prezzo dell’oggetto del colpo di fulmine: a vostro rischio e pericolo, l’amore potrebbe spegnersi con la stessa velocità con cui si è acceso.

Fino al 15 aprile 2023 potrete citofonare al numero 38 di Corso Porta Nuova a Milano, sede della Cardi Gallery, per visitare l’esposizione retrospettiva Making Spaces, dedicata alla ricerca dell’artista Paolo Scheggi.
Renato Cardi fondò la galleria, divenuta storica, nel 1972, con l’intenzione di sostenere gli artisti dell’Arte Povera e dello Spazialismo. Come evidenzia il titolo dell’esposizione, le opere attualmente in mostra di Paolo Scheggi si inseriscono in quest’ultima corrente: al piano terra gli Inter-Ena-Cubi, superfici disposte in scala cromatica realizzate tra 1965 e 1971, che dialogano con le nove Intersuperfici della parete di fronte, costituite ciascuna da tre tele sovrapposte tagliate in forme irregolari o circolari.

Inoltre, al piano superiore è stato ricostruito l’ambiente Interfiore, presentato per la prima volta alla Galleria La Tartaruga nel 1968: ottantotto anelli di legno di varie dimensioni, sospesi grazie a un filo invisibile di nylon a varie altezze, prendono vita in una stanza completamente buia grazie a una luce di Wood che permette allo spettatore di immergersi in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio della quotidianità.

In questi lavori è evidente il legame di Scheggi con Lucio Fontana, conosciuto dopo l’arrivo a Milano nel 1961. Quest’ultimo artista è considerato l’ispiratore dello Spazialismo, la cui data di nascita si fa coincidere con la pubblicazione, nel 1946, del Manifesto Blanco (Manifesto Bianco): i firmatari, allievi di Fontana stesso, sostenevano la necessità di un cambiamento nell’essenza e nella forma dell’opera, andando oltre la pittura, la scultura, la poesia e la musica. Gli artisti erano uniti dalla volontà di costruire forme tridimensionali che si trasformassero così come la natura, per realizzare immagini dinamiche nel tempo e nello spazio. Fontana stesso firmò nel 1961 la Proposta di un regolamento.Movimento spaziale.

La visita alla Cardi consente di fare esperienza delle “sensazioni spaziali” – di cui parla il manifesto- nel momento in cui si entra all’interno dell’opera e si vive la materialità dello spazio: perdersi nel buio e cercare un nuovo centro grazie a forme stranianti. Le medesime sensazioni che dovrebbero derivare dal confronto con le tele al primo piano, così emblematicamente descritte dal critico Germano Celant: “La materia si affina, come pure la scelta e il ritaglio delle forme. La sbordatura si ripiega all’interno, le superfici diventano tre, sovrapposte. Lo spazio del fondo si arricchisce così di un nuovo piano […] la potenzialità spaziale di Fontana è diventata in Scheggi spazio a N dimensioni”1.
Da questa galleria, a circa venti minuti di metro, ci si può spostare alla Viasaterna, nata nel 2015 per iniziativa di Irene Crocco, il cui nome deriva da una via immaginaria, Via Saterna, presente nel “Poema a Fumetti” di Dino Buzzati del 1969. Qui, fino al 24 marzo, è possibile visitare la mostra Duetto, che mette in dialogo opere degli artisti Giuseppe Chiari (1926-2007) e Luca Massaro (1991).

Il primo fu tra gli unici esponenti italiani del movimento Fluxus, corrente artistica nata intorno al 1958 per iniziativa degli artisti legati all’insegnamento di John Cage: comprendere questo movimento significa lasciarsi coinvolgere dal flusso espresso nel suo stesso nome, all’insegna dell’aleatorietà e dell’intermedialità. La storia di Fluxus è segnata da festival, eventi ed esperienze in cui era centrale la partecipazione dello spettatore, coinvolto in ogni aspetto di un’arte indeterminata creata nel momento stesso in cui veniva fruita attraverso la commistione di numerosi media differenti. All’interno del movimento, Giuseppe Chiari si dedica all’interazione tra musica, linguaggio, gesto e immagine: in mostra a Viasaterna vi sono una serie di spartiti, senza note o derivate da opere di musica classica, su cui l’artista è intervenuto con colori e scritte che invitano a una fruizione del tutto differente dell’opera musicale.

Il linguaggio della musica diviene aleatorio, integrando i media più diversi, nell’intenzione di coinvolgere il più possibile lo spettatore. Quella di Chiari intende essere, nella sua stessa teorizzazione, “musica d’azione”, così come dichiarato in una delle opere in mostra riguardante le modalità del fare artistico: “chiudere gli occhi/ toccare qualcosa/ colla mano/ quel toccare è/ scultura”.

Infatti, accanto alle opere incentrate sulla “musica d’azione”, che implicano comunque l’uso di un linguaggio, seppur di tipo musicale, sono esposti quadri incentrati sul rapporto tra parola, immagine e spettatore, nel tentativo di destabilizzarne la percezione stimolando riflessioni sui concetti di veridicità, autorialità e sull’essenza stessa dell’arte.
A questa serie si legano le opere in mostra di Luca Massaro derivate dalla riflessione sul rapporto tra immagine e didascalia: “due serie di dipinti su lastre di metallo enfatizzano l’area grigia in cui il messaggio e la ripetizione si sovrappongono mentre esplorano l’interfaccia tra il modo in cui le informazioni appaiono e il modo in cui gli spettatori interagiscono con esse. Dipinti a mano in bianco su sfondo nero, imitando il processo fotografico negativo-positivo, parole e simboli risaltano ancora più nettamente, posizionati come sono al centro dello spazio pittorico”2.
L’effetto d’insieme è un vortice di parole, in cui ci si trova a muoversi alla ricerca di punti fermi che costituiscano un centro, forse emblematicamente simboleggiato da un punto di domanda, di colore blu elettrico e dalle notevoli dimensioni, realizzato da Massaro, al piano inferiore dell’esposizione.

1 Germano Celant, 1967
2 Giuseppe Chiari, Luca Massaro “Duetto” presso Viasaterna, Milano, Mousse Magazine, 9.02.2023

Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 22 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.