Un pasticciaccio?
Fare una recensione non è, solitamente, un affare troppo complicato. Si dice se una cosa è piaciuta o non è piaciuta e si motivano le proprie affermazioni. E così sarebbe stato anche con Barbie, se non fosse che, da quando l’ho visto, l’affare è diventato un pasticciaccio.
Uscito dal cinema e per i giorni seguenti, la mia opinione era positiva, se pur con alcune riserve riguardanti, in particolare, il pre-finale pinocchiesco e la gestione narrativa abbastanza disastrosa del parallelismo tra le due coppie madre-figlia. (Faccio notare, e dopo sarà più chiaro, che questi sono i punti in cui il film prova a dire qualcosa, ad acquisire una voce – e a mio avviso, fallisce).
Più cercavo di sviluppare le argomentazioni per supportare le mie affermazioni riguardo alla pellicola, più un dubbio si insinuava nella mia mente e richiedeva prepotentemente una risposta: Barbie mi era piaciuto o era fatto per piacermi?
Mentre questa domanda disturbava i miei pensieri, veniva a mancare Michela Murgia, e io mi ero ritrovato a guardare un Tiktok in cui la scrittrice, intervistata a Dimartedì, affermava che il populismo è “dare al popolo qualcosa in cui riconoscersi che non necessariamente corrisponde alle sue istanze; è invece popolare ciò che è del popolo e ciò che lo interpella, che dà voce alle sue esigenze reali”. Ecco che allora il mio dubbio aveva assunto dei connotati più specifici: Barbie era un film popolare o populista? E proseguendo, è un film femminista o intercetta, piuttosto, tutti coloro che sono avidi e dispensatori di una certa para-cultura femminista descritta e citata nell’articolo di Valentina circa lo stesso film? Insomma, Barbie nasce dall’esigenza di esprimere determinati sentimenti o vuole piuttosto indurre determinati sentimenti? È questa la questione fondamentale.
La parentesi del quadrato di Malevič
Parallelamente alle domande circa il film che ha tinto di rosa il logo della Warner, in agosto conducevo un’altra ricerca, riguardo ciò che è considerato arte, e mi sono imbattuto nel Manifesto del Suprematismo di Malevič.
In esso, il pittore russo afferma che tutta l’arte è guidata da un nucleo centrale che è il sentimento di qualcosa, e questa è la ragione del significato universale dell’arte: se oggi vediamo colonne, frontoni, quadri, sculture e molte altre opere esposte nei musei, non è a testimoniare la loro eccezionalità o unicità, ma il fatto che da sempre l’uomo abbia avuto esigenza di esprimere ciò che prova. Così ad esempio tutte le sculture, dalla Venere di Willendorf all’Amore e Psiche di Canova, manifestano un’esigenza tipicamente umana di manipolare plasticamente i materiali e di volta in volta possono esprimere sentimenti diversi. In altra maniera, l’architettura può manifestare la tensione dell’uomo verso il cielo (basti pensare al Gotico) o verso la terra (innumerevoli tombe e catacombe a testimoniarlo). Ciò che conta, e che permette di definire l’arte e separarla da altri ambiti di produzione, è la rintracciabilità di questo sentimento centrale dirimente. Questa definizione, a mio avviso, si presta molto bene a guidarci nel giudizio della Settima Arte. Infatti il cinema è per la natura della sua produzione (un po’ come la musica elettronica) un’espressione a connotazione fortemente tecnologica (il che ha aperto, più volte nella storia, il dibattito su una sua inclusione nel pantheon delle arti).
La questione della natura di Barbie
Se mi avete seguito fino a qui, potrete aver già previsto la conclusione che sto per affermare: Barbie non è arte. Valentina, nel suo articolo (risparmiandomi del lavoro), chiarisce in maniera efficace la storia produttiva del film. Quello che vorrei evidenziare io è, invece, la natura produttiva del film. Si tratta, fondamentalmente, di un investimento di marketing per rilanciare la bambola più famosa al mondo e forse, ma ancora troppo presto per dirlo, del primo di una lunga serie di film targati Mattel. Insomma, il valore di Barbie non va cercato in un qualche sentimento ispiratore con cui possiamo empatizzare e in cui possiamo identificarci, ma altrove.
Andando ad analizzare le ragioni del successo miliardario al botteghino, possiamo individuarne due principali:
- La prima è che il film si configura come espressione attuale della cultura e dello spirito del tempo. Tra i suoi meriti, quello di una rappresentazione ironica (ma non sarcastica, perché il sarcasmo prevede una rabbia che è un’emozione impossibile sotto l’attuale regime capitalista, il filosofo Byung-chul Han docet) e prettamente postmoderna (insomma, è tutto un garbuglio e soluzioni facili proprio non ce ne sono, tant’è che, come il romanzo di Gadda, nemmeno questo film finisce davvero). È una pellicola depressa (per me apertamente, per altri forse non altrettanto evidentemente) ma non deprimente, in linea con i contenuti che amano consumare le generazioni più giovani, la quale schiva la maledizione del revival che colpisce i contenuti di molte altre piattaforme (Disney + in testa) e medium. Se la cifra della tragedia classica è quella di avere dei destini già determinati (si sa che finirà male, anche i personaggi lo sanno, tant’è che non fanno nulla per nasconderlo, a volte affermandolo apertamente) e una catarsi finale, Barbie si configura lucidamente come una tragedia attuale, in cui i personaggi hanno libero arbitrio ma non sanno che farsene, perché esso non coincide con la libertà, che è una questione prettamente sociale e sistemica (è questa l’illusione fondante i grandi Stati Uniti d’America) e non possono nemmeno aspettare rassegnati la catarsi finale della morte, perché proprio quel libero arbitrio li incalza a fare qualcosa della loro vita. Credo molti si possano riconoscere in questo dramma esistenziale…
- La seconda è la magistrale capacità della regista Greta Gerwig, e di tutti coloro che sono coinvolti nella costruzione delle immagini della pellicola, di manipolare gli strumenti narrativi e retorici e la tradizione del cinema. Come il monolite di 2001: Odissea nello spazio, Barbie si staglia contro uno sfondo desertico e invita le bambine ad una furia iconoclasta. E i cinefili muti e conquistati. È l’inizio di un pastiche che è costruito ad arte (Gerwig e Baumbach sono artigiani esperti) per appagare un po’ tutti (tranne i fidanzati eterosessuali che hanno accompagnato la ragazza al cinema, forse). Da chi ha reso “essere woke” un tratto di personalità, alle madri cinquanta/sessantenni, sino alle bambine, tutti trovano qualcosa che può piacere e l’esperienza di guardarlo in sala riflette ciò. Al boato e applauso dei più piccini e dei boomer all’inizio del film, contrasta il silenzio del cinefilo che rivede Kubrick, o del filosofo che si chiede se la Gerwig abbia mai letto Feuerbach; alla risata dei più vecchi e degli incel quando Barbie, pattinando nel mondo reale afferma che né lei né Ken hanno genitali, si oppone lo sdegno muto della porzione di sala più woke.
Barbie è scienza, ma è anche un’occasione mancata
Il film, quindi, è a mio avviso un artificio ben congeniato e, come tale, godibile dal punto di vista intellettuale. Per di più ha un valore di documento storico: un’istantanea dello Zeitgeist, della cultura occidentale nel 2023. È scienza perché è scientemente cucinato e i saperi tecnologici e narrativo-retorici creano una macchina che raggiunge il suo scopo, piacere (e quindi incassare).
Questa fucina è però un ecosistema in cui ogni potenziale slancio artistico si trasforma in un relitto satellite che non può raggiungere la velocità di fuga perché richiamato dalla gravità del pianeta marketing e rimane in orbita come monito: libero arbitrio e libertà non sono la stessa cosa. Gerwig e collaboratori sono dotati del primo ma non hanno mai davvero avuto accesso alla seconda durante la creazione di questo film, Barbie si è conquistata il primo e ora si trova a vivere da umana in un mondo in cui la seconda è fortemente limitata.