Lo scorso 3 settembre si è conclusa la ventesima edizione del Festival della Mente di Sarzana (SP). Per questa rivista ho avuto l’occasione di partecipare al secondo e terzo giorno di festival (2 e 3 settembre), di cui potreste aver visto un piccolo reportage sulla nostra pagina Instagram.
Il Festival della Mente è un’iniziativa culturale, diretta da Benedetta Marietti e promosso dalla Fondazione Carispezia e dal Comune di Sarzana, dedicata alla creatività e alla nascita di idee. Per tre giorni, relatori italiani e internazionali propongono incontri, letture, reading-concerti e laboratori nei tre poli dedicati: il Multisala Moderno, il Teatro degli Impavidi e l’area semi-aperta allestita in piazza Matteotti, la principale della città.
La mia prima volta a Sarzana non è iniziata nel migliore dei modi: sveglia alle sette meno un quarto, dopo una notte insonne tipica di chi si è impelagata in una tesi decisamente troppo complicata per una triennale; in più le curve lunigiane di prima mattina non sono mai divertenti. Insomma, ero preoccupata di non essere dell’umore giusto per una giornata di conferenze e riflessione.
Tuttavia, non appena arrivata in Piazza Matteotti per una colazione veloce, prima di andare a ritirare il pass stampa, sono stata immediatamente contagiata dall’“atmosfera da festival” che sprizzava da tutti i pori degli inconfondibili muri pastello delle case liguri. Anche prima che cominciasse il primo incontro della giornata, Sarzana pullulava di menti, da sole o in gruppo, che discorrevano degli ospiti della giornata e delle idee che erano pronte a discutere.
Il programma di quest’anno, organizzato intorno al tema della “meraviglia”, è riuscito a equilibrare precisamente lezioni di stampo scientifico e letterario-umanistico, permettendo ai visitatori di poter collegare tra di loro campi apparentemente lontani, come la fisica e la psicologia, l’arte cinquecentesca e l’oceanologia.
Tra i relatori, immancabili Matteo Nucci, ormai ospite fisso da parecchi anni, che ha deciso di portare un trittico sulla meraviglia in Platone, Omero e Gabriel García Márquez, e Massimo Recalcati, autore di forse una delle più belle e commoventi conferenze di quest’anno (anch’essa divisa in due giornate e dedicata alla perdita, al lutto e alla nostalgia).
Personalmente, sono rimasta colpita dall’intervento di Massimo Zamboni, il quale ha proposto un reading del suo nuovo libro Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi (La nave di Teseo), accompagnato dalle illustrazioni di Stefano Schiaparelli e da suoni ambientali, quello di Vittorio Lingiardi, autore di una riflessione sulla «neuromeraviglia» dei sogni, e di Guido Tonelli, che ha proposto un collegamento molto interessante tra la meraviglia (anche nella sua forma negativa, cioè la paura) e la curiosità umana rispetto alla materia, attraversando le epoche.
Molto interessante anche la presentazione di Sabrina Speich sul lavoro degli oceanografi fisici, anche perché ha permesso di aprire al tema del cambiamento climatico e alla sua influenza sul “grande blu”, per dirla con Luc Besson. Di Martina Mazzotta e della sua lezione sulle Wunderkammern, dal Cinquecento alle avanguardie, ho apprezzato la chiarezza espositiva e la precisione nella presentazione di un soggetto estremamente specifico di cui conoscevo molto poco.
Naturalmente, la grande star del Festival è stato, anche quest’anno, Alessandro Barbero, che ha concluso la giornata di sabato con un intervento sulla quarta crociata e la “scoperta” di Costantinopoli da parte degli europei occidentali. Il suo arrivo è stato accolto con una media di decibel pari a quella di un concerto degli Iron Maiden e, per quanto io stessa apprezzi il talento del professore nel rendere appetibile una materia come la storia, eterno fanalino di coda nella lista di priorità degli studenti (e degli adulti), ho trovato un po’ scoraggiante un’accoglienza così calorosa prima ancora che iniziasse a parlare. Per fortuna il professore ha abbastanza buon senso e princìpi etici da non entrare in politica.
Poiché ero abbastanza inquietata dalle mani e dagli occhi che cercavano di aprire il tendone di piazza Matteotti per poter sbirciare (in una specie di ibrido intellettuale tra la Beatlemania e un film di Wes Craven), ho deciso, dopo aver adempiuto i miei compiti da inviata – cioè aver fatto un paio di foto e video – di seguire il resto della lezione dall’esterno. Ovviamente non ero la sola e devo dar credito agli organizzatori del Festival per aver permesso a una piccola folla in religioso silenzio di poter ascoltare all’esterno del tendone (che, per inciso, è dotato di altoparlanti e, come ho detto, è semi-aperto, per cui anche da fuori si sente perfettamente). Altre manifestazioni culturali, come il Salone del Libro, non autorizzano raggruppamenti del genere, che però, una volta controllato che si rispettino le norme di sicurezza, sono l’unico modo per venire incontro a una richiesta decisamente maggiore del numero di posti disponibili, anche contando un eventuale bis.
L’evento di Barbero è stato anche uno dei pochi in cui ho notato un mélange generazionale. Ecco, se devo trovare una pecca in questa iniziativa altresì ammirevole e luminosa, nel buio dello stato della cultura in Italia, è che a mio avviso si dovrebbero tentare delle strade per essere ancora più intergenerazionali, sia nel pubblico che si cerca di attirare, sia, contestualmente, nei relatori invitati e negli argomenti affrontati. Non pretendo naturalmente che le prossime edizioni siano esclusivamente dedicate a un pubblico giovane o giovanile (non sarebbe neanche giusto), però trovo che sia importante che la cultura alta, istituzionale, accademica, si metta sempre in gioco e dialoghi costantemente con la società e le sue evoluzioni, cercando di evitare l’alimentazione di pericolose turres eburneae, in cui troppo spesso gli intellettuali tendono a rintanarsi. Sarebbe bellissimo introdurre sempre più spesso interventi legati a culture non occidentali, in un mondo in cui la globalizzazione è un dato di fatto e lo scambio interculturale una ricchezza immensa.
Non sono neanche d’accordo con un diffuso sentimento disfattista che non considera i giovani interessati alla cultura: il fenomeno BookTok, i dibattiti sulla cosiddetta “cancel culture”, anche questa rivista (senza modestia) sono la dimostrazione che siamo pronti a metterci in gioco intellettualmente, ma alcuni temi li sentiremo sempre più pressanti di altri. Perciò, ben vengano le proposte come il reading concerto di Leggere Lolita a Teheran (a cura di Cinzia Spanò e Roberta Di Mario), che ha sfruttato forme diverse di cultura – la lettura, la musica, la riflessione sul contemporaneo.
La conclusione della mia avventura al Festival, non a caso, è stata firmata da Francesco Costa, che con ironia e dovizia di esempi ha incoraggiato i suoi spettatori (molti dei quali trentenni o più giovani ancora) a informarsi meglio, meravigliosamente, per non trovarsi impreparati alle richieste di democrazie sempre più fragili e articolate. Un auspicio per il futuro, ma anche la conferma dell’importanza di partecipare a eventi come il Festival della Mente, di porsi domande, di non accantonare le idee in un angolo delle nostre vite frenetiche (tanto poi si ripresentano immancabilmente alle due di notte), ma al contrario continuare ad informarsi, riflettere e mettersi in discussione. Meravigliosamente, of course.
di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha tre gatti e molti dubbi.
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