In principio, vi fu Amy Schumer.
Anzi, a dirla tutta un live-action dedicato a Barbara Millicent Roberts, alias Barbie, era in programma fin dal 2009, inizialmente per la Universal Pictures1, poi, dal 2014, per la Sony2 (con cui si parlava addirittura di un franchising), che, dopo aver testato differenti sceneggiatori, solo nel dicembre 2016 ingaggia appunto la comica Amy Schumer per interpretare la bambola più famosa del mondo e per collaborare alla sceneggiatura, insieme alla sorella Kim Caramele3.
Dopo quasi otto anni, il film annuncia finalmente che le riprese cominceranno a giugno 2017, ma a marzo Schumer lascia il progetto per “conflitto di programmazione”4, anche se recentemente ha dichiarato che lo screzio sarebbe stato piuttosto riguardo alla direzione da dare al film, che lei voleva «cool e femminista», a differenza della produzione5. In seguito, vari nomi popoleranno le voci di corridoio riguardanti il live-action di Barbie, tra cui una Anne Hathaway protagonista6 e una Alethea Jones alla regia7, ma nel 2018 il contratto con la Sony decade e il progetto passa alla Warner Bros. Qui, il film incontrerà le aspirazioni di Margot Robbie, subito individuata come possibile attrice principale8, ma soprattutto fondatrice della casa di produzione, la Lucky Chap Entertainment, che finalmente darà la spinta necessaria a far vedere la luce a quel Barbie9 che ha tinto di rosa shocking l’estate appena trascorsa.
A Margot Robbie, soprattutto, si deve la scelta della regista e sceneggiatrice Greta Gerwig, già candidata all’Oscar per i suoi precedenti film, Lady Bird (id., 2017) e Piccole donne (Little Women, 2019). La sinergia tra Robbie e Gerwig, assistita in fase di scrittura dal marito Noah Baumbach, è il primo grande asso nella manica di Barbie e una delle ragioni del suo successo. Greta Gerwig ha sempre lavorato nel cinema indipendente, prima da attrice e poi anche come sceneggiatrice e regista, con un primo scarto grazie al citato Piccole donne, che, con il marchio Columbia Pictures e un budget di 40 milioni di dollari10, se non proprio un blockbuster, non è neanche una produzione fatta in casa (d’altronde, dopo una candidatura all’Oscar per il proprio debutto alla regia, pochi tornano ai Kammerspielfilme risicati dal retrogusto bohémien da seguaci di John Cassavetes).
Il primo lavoro ad alto budget dei registi che arrivano dal cinema più o meno indipendente, secondo me, è sempre un esperimento interessante: infatti, essi sono abituati a lavorare per sottrazione, tenendo sempre in mente il nucleo centrale del film e i suoi elementi irrinunciabili, per i quali sono pronti a lottare con le unghie e con i denti – sperando di non trovare dall’altro lato della scrivania, come la povera Chloé Zhao, qualche produttore esecutivo dalla visione un po’ troppo rigida.
Un film come Barbie, dunque, che si portava dietro una storia produttiva lunga e infruttuosa ancora prima di aver concluso la fase di pre-produzione, e che in più aveva l’onere di bilanciare un’icona pop egualmente amata e criticata, attorno alla quale girano discorsi e dibattiti ultrasessantenni, necessitava di una guida che sapesse tenere la bussola sempre ben diretta verso il core, il centro emotivo, narrativo e tematico che si voleva esprimere.
Greta Gerwig, tuttavia, si è rivelata una scelta particolarmente felice anche per i temi che il film ha voluto affrontare, e per i modi in cui li ha articolati: la questione femminile, in particolare, per esempio nella negazione di un percorso univoco e stereotipato dello sviluppo di una giovane donna, nelle pressioni sociali che le ragazze, specialmente, sentono a proposito della scelta dei propri “ruoli” (entrambe tematiche già soggetto di analisi in Lady Bird e Piccole donne) e il sentimento di smarrimento e allo stesso tempo la voglia di vivere di chi si affaccia all’età adulta in un mondo sempre più complicato, come narrato in Frances Ha (id., 2012, dir. Noah Baumbach, da Gerwig scritto e interpretato), il tutto raccontato attingendo alle modalità del teatro e della teatralità esibita11 per enfatizzare gli aspetti legati allo sguardo che la società patriarcale riserva alle donne. Infine, irrompe in quest’ultima fatica, più che negli altri suoi film, il rapporto madre-figliǝ – forse anche grazie alla nascita del primo figlio dei co-sceneggiatori, Harold, nel 201912.
Una delle dinamiche più interessanti di Barbie, infatti, è quella tra Gloria (America Ferrera) e Sasha (Ariana Greenblatt), la madre e figlia umane che aiutano Barbie nel Mondo Reale. Quando le incontriamo per la prima volta, si trovano in un classico momento di crisi: Sasha ormai è un’adolescente dalle idee taglienti e i modi decisi, che, nel processo di auto-scoperta tipico della pubescenza, si allontana da Gloria e dal suo modo di essere, a suo avviso troppo solare e inautentico. A sua volta, Gloria, incastrata tra un lavoro noioso e la figlia ribelle, è entrata in un periodo di scoraggiamento. Per fortuna il loro rapporto non si esaurisce in questo conflitto già visto e francamente un po’ stereotipato: al contrario, esse mostrano che, nonostante le differenze caratteriali e generazionali, l’affetto che provano l’una per l’altra non si annulla allo spuntare dei primi brufoli. Potremmo addirittura dire che proprio nelle loro differenze esse ritrovano rinnovata energia, in un rapporto di sana e vicendevole ispirazione.
Un ruolo di rilievo, poi, è ricoperto da Ruth Handler, creatrice della prima Barbie nel 1959 e interpretata nel film da Rhea Perlman. Handler svolge ripetutamente il ruolo di dea ex-machina, prima aiutando la bambola a scappare dalla sede della Mattel, poi, nel finale, offrendole una via di uscita dall’impasse in cui si trova, una volta resasi conto di aver superato la perfezione superficiale, di plastica, di Barbieland (su questo torneremo). Grazie alla sua creatrice, Barbie per la prima volta prende una decisione. Quella iniziale propostale da “Barbie Stramba”, come sottolinea la battuta inclusa anche nel trailer13, in realtà è obbligata dalle esigenze della trama: una casualità cui la bambola, in quanto giocattolo, quindi per eccellenza l’oggetto manovrato dall’immaginazione altrui, è ovviamente abituata (anche su questo torneremo). Ruth Handler mostra a Barbie cos’è il Mondo Reale, un mondo quanto più lontano da Barbieland non solo perché imperfetto, ma anche perché in continuo cambiamento.
Panta rei non è solo la caption “profonda” per le vostre foto del mare, ma è anche un concetto filosofico estremamente vero, come scopre la nostra Barbie: Barbieland, il mondo degli stereotipi, dei giorni identici, della perfezione, della plastica, degli oggetti, è la morte. Permettendole di compiere una scelta e trasformarsi in soggetto, Ruth Handler dona a Barbie la vita.
A questo punto, dovrebbe essere evidente allə lettorə che, in quanto apoteosi del femminile, cioè rappresentazione della Madre, creatrice di vita, il personaggio di Ruth Handler è informato da suggestioni religiose non indifferenti. Ne è un esempio lampante la deliberata citazione visiva alla Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti. La creatrice di Barbie diventa quindi la Creatrice in senso lato, permettendoci di interpretare altri momenti del racconto come una sovversione del mito biblico, o quanto meno di alcuni suoi tropoi. Fra questi, ad esempio, il rapporto tra le Barbie e i Ken, che non soltanto gioca a ribaltare l’ordine patriarcale del mondo, ma si presta bene anche a ribaltare la sua supposta origine. La Signora Dio creò la Barbie a Sua immagine, e poi la Signora Dio disse: “Non è bene che la Barbia sia sola: voglio farle un aiuto che sia simile a lei”. Ken è letteralmente una “costola” del prodotto Barbie: il suo percorso evolutivo terminerà nel momento in cui troverà una sua autodeterminazione indipendente dallo sguardo di Barbie.
Ovviamente, il giocattolo è uno dei soggetti migliori per discorrere dei concetti di creazione, creatura, soggettivo e oggettivo, poiché il giocattolo è un oggetto speciale, in quanto per sua natura investito di una soggettività fittizia proprio grazie all’attività del play. Utilizzo il termine inglese (ma anche il francese jouer e il tedesco spiel, tra gli altri, si prestano) perché in italiano si perde una magica dualità della parola, che, come lǝ lettorǝ sapranno, può significare sia “giocare” che “recitare”. Lǝ bambinǝ, infatti, quando giocano inventano storie che fanno “recitare” ai propri giocattoli, specie nel caso di prodotti umanoidi e iperrealistici come le Barbie e i Ken. Attraverso il play, quindi, creiamo effettivamente una realtà fittizia, una Barbieland, che coesiste con il nostro Mondo Reale nonostante la radicale differenza di ruoli: quelle che nel Mondo Reale sono bambole, oggetti non senzienti manovrati dal soggetto creativo e creatore, che, come dicono ancora in maniera sinteticamente brillante glǝ amicǝ anglofonǝ, plays God (“gioca a fare Dio” o “recita la parte di Dio”), nel mondo creato di Barbieland sono (pseudo)soggetti, attori (ovvero esseri che compiono azioni) che si relazionano fra di loro.
Il Barbieland è fittizio, ma non irreale, nello stesso modo in cui i personaggi e le dinamiche che si formano sul palcoscenico durante una recita sono fittizie e reali, benché confinate nello spazio e nel tempo della rappresentazione. Il film evidenzia ripetutamente questo aspetto, ad esempio mostrando le Barbie che si lavano senz’acqua o le loro macchine che procedono senza motore, stabilendo fin da subito che quelli che vediamo sullo schermo sono personaggi più automi che autonomi. Il viaggio nel Mondo Reale, dove la bionda protagonista dovrà rinunciare alle proprie convinzioni vis à vis dei valori contraddittori che il Mondo Reale stesso le ha affibbiato, sarà il motore che spingerà Barbie Stereotipo al grande salto – di nuovo, l’inglese direbbe, con rimandi kierkegaardiani, al leap of faith – da una pseudo-soggettività donata da una mente esterna a una soggettività vera e propria e interiore, mentre in sottofondo una malinconica ed esistenzialista Billie Eilish canta What was I made for?, “per che cosa sono stata creata?”. Ancora una volta troviamo un rimando alla Genesi, al frutto della conoscenza, che è poi quello che ha reso Eva mortale e quindi umana. Greta Gerwig ha ricevuto un’educazione cattolica e non ci sembrano perciò così improbabili queste congetture teologiche14.
Il personaggio di Margot Robbie, dunque, come le protagoniste di Lady Bird e Piccole donne, segue il più classico degli archi narrativi del coming-of-age, espressione particolarmente azzeccata se ricordiamo ciò che abbiamo appena detto, ovvero che il film stabilisce che essa è:
A. una figlia;
B. una “soggetta” la cui coscienza è stata appena risvegliata;
C. una bambola che per il novanta per cento del film è manovrata e influenzata da una Creatrice, la bambina che gioca, plays God, con lei.
Il punto C, ampiamente e palesemente dichiarato nella sceneggiatura, è una motivazione molto solida per supporre che il coming-of-age di Barbie coincida con il coming-of-age di chi la sta giocando. Possiamo interpretare l’intera vicenda del film come un play inventato da una bambina alle soglie della pubescenza, o comunque come una proiezione della sua situazione. La sua naturale maturazione porta la giocatrice ad allontanarsi da un’idea infantile di vita “perfetta”, rosea e anzi rosa, ma inautentica e implausibile. (Sarà che le lingue mi appassionano, ma scrivendo questo paragrafo due altre espressioni inglesi mi stanno pregando di essere citate: to live life through rose-colored glasses, letteralmente “vivere la vita [vedendola] attraverso occhiali dalle lenti rosate”, detto di chi anche ingenuamente romanticizza la propria vita; e l’espressione gergale to be plastic, spesso declinata in un vagamente sessista she’s plastic, che sprezza una persona percepita come falsa, disonesta o fisicamente non “naturale”). Come per la bambola del film, è lo scontrarsi con il mondo degli adulti a scatenare questo cambiamento nell’adolescente, il fatto di doversi forzatamente riconoscere come donna e soprattutto come corpo femminile, il che implica non potersi sottrarre ai processi di definizione esogena e politicizzazione del proprio corpo. Il corpo femminile non è mai esente dallo sguardo esterno, spesso maschile e sempre patriarcale, che pretende di assegnarvi un ruolo stereotipato e limitante: ma le donne non sono bambole, e comunque persino le bambole di Barbie desiderano autodeterminarsi.
Barbie, dunque, si propone come uno dei pochi film che tratta di un coming-of-age specificatamente e intenzionalmente femminile. L’adolescenza femminile, dicevamo, è il momento in cui ci rendiamo conto della nostra posizione oggettificata nella società. Così, appena arrivata nel Mondo Reale, prima di rivendicarsi come soggetta, Barbie Stereotipo comincia a provare un senso di angoscia e subisce violenza di genere verbale e fisica. Tutte le lettrici, penso, ricorderanno almeno un episodio, accaduto loro tra i dieci e i tredici anni, che ha provocato un disagio ma che si sono sapute spiegare solo anni dopo, quando avevano gli strumenti per identificarlo: catcalling, tocchi inappropriati, a volte veri e propri abusi.
Pure il linguaggio che le Barbie e i Ken usano risulta deliberatamente infantile, con la ripetizione incessante (e ad un certo punto sinceramente fastidiosa) della parola “patriarcato”, gettata un po’ a vanvera come definizione talvolta inesatta dei loro problemi. Se però la teoria di cui sopra è fondata, non è assurdo pensare a una volontà di ricostruire una coscienza adolescenziale non ancora completamente formata né consapevole, che attraverso il play cerca di ordinare le esperienze nuove provate nella vita reale.
Non possiamo dimenticare, ovviamente, che la formula inglese to come of age viene usata proprio per indicare il passaggio all’età fertile: anche in questo caso il percorso di Barbie, da essere asessuato a donna che ha l’esigenza di prenotare una visita ginecologica, riflette la crescita fisica della bambina. Non a caso, la crisi del personaggio parte proprio dal palesarsi di un chiarissimo segno di maturità femminile, la cellulite.
Per essere un film così dichiaratamente femminile (e femminista: poiché se all’acquisizione di consapevolezza di sé in quanto donna corre in parallelo l’acquisizione di consapevolezza di sé in quanto oggetto dello sguardo patriarcale, come detto, lo sviluppo femminista è l’unica destinazione logica del percorso di crescita), l’impressionante risultato al botteghino di Barbie risulta ancora più sorprendente. E se il marketing del film è stato efficace ed originale, con alcune trovate, come la Casa dei Sogni affittabile a Malibu15, che rasentano la genialità, sono convinta che il successo presso il pubblico sia dovuto anche all’uscita del film in un momento culturale particolare. Da qualche anno, infatti, soprattutto i social hanno permesso ad una specie di “para-cultura” femminile di emergere e diffondersi. Questa para-cultura rivendica tutto ciò che è girly, ha i propri riferimenti culturali (quasi una vulgata di principi femministi e/o individualistici rimescolati in salsa pop), le proprie icone (attori e cantanti, basti vedere il rinnovato successo di artiste come Taylor Swift16 o di serie come Mercoledì17), il proprio linguaggio (fatto di slang derivati da film, canzoni, o semplici momenti virali, l’ultimo dei quali è l’onnipresente “girl dinner”), sottoculture (le cosiddette “aesthetic”18). I fandom, fenomeno sociologico da sempre intimamente legato alle donne, soprattutto alle più giovani, stanno avendo un loro personale Rinascimento: dieci anni fa se dicevi di essere una fan di Lana del Rey ti davano della sfigata o della depressa, ora i tuoi antichi bulli corrono in massa a vederla in concerto al Lido di Camaiore19. Dieci anni fa, tuttǝ hanno sentito dire, e probabilmente detto: «che schifo il rosa, è da femmine». Oggi, le sale cinematografiche e i feed di Instagram sono pieni di outfit rosa per andare a vedere Barbie.
Essere femmine è in, Barbie lo sa e strizza l’occhio a tutto l’immaginario di cui sopra, che spesso tende la mano al mondo queer (sul queer-coding nel film ci sarebbero da aprire altre mille parentesi, ma questo articolo è già abbastanza lungo).
Il cinema hollywoodiano è quanto di più industriale la Settima Arte abbia da offrire, ma proprio per questo il successo di Barbie dovrebbe farci riflettere sulle conseguenze che potrebbe avere: Hollywood segue gli incassi, e ad oggi gli incassi li ha fatti un film co-scritto, prodotto e diretto da donne, che ha per target principale e dichiarato le donne, anzi, le ragazze. Potrebbe essere finalmente la svolta verso una maggiore parità nell’industria cinematografica, sicuramente è una rivoluzione a suo modo punk, e pazienza che per le femministe navigate i concetti che questo film cerca di esprimere siano scontati: per moltǝ, vi assicuro, non lo sono, ma è più probabile che lo diventino se continueranno a comparire in film che incassano un miliardo di dollari20, piuttosto che in pellicole indipendenti più schierate e più radicali, ma viste solo da un pubblico già “iniziato”. Sarò pessimista, ma non credo nella magica purezza dell’underground e temo che se davvero vogliamo un cambiamento culturale bisognerà scendere a patti con il potere e non criticare una sorella perché il suo film super mainstream non è “abbastanza femminista”21. Dopotutto, Barbie e i piccoli film radicali possono coesistere.
A ognuno il suo.
[…] tutti coloro che sono avidi e dispensatori di una certa para-cultura femminista descritta e citata nell’articolo di Valentina circa lo stesso film? Insomma, Barbie nasce dall’esigenza di esprimere determinati […]