Qualche giorno fa mi trovavo sul solito treno, direzione Rogoredo-Pavia, per tornare a casa dall’università. Una tratta di venti minuti circa che tendo ad affrontare con l’idea di ricontrollare gli appunti delle lezioni, puntualmente abbandonati in borsa una volta tirato fuori il telefono e aperto Instagram. E così quei venti minuti trascorrono veloci come se fossero cinque, tra qualche storia a cui rispondere o qualcuno a cui scrivere.
Torniamo quindi a lunedì 4 ottobre, giorno in cui sono andati in down Instagram, WhatsApp e Facebook, come il mondo intero ha avuto modo di notare. Io personalmente non mi ero resa conto di nulla: ho passato tutta la tratta per Pavia a insultare mentalmente il mio ragazzo perché non avevo più ottenuto risposta. Il viaggio, in attesa che il messaggio venisse visualizzato, mi è sembrato durare il doppio.
Perciò, a posteriori, mi sono ritrovata a pensare, al di là di tutti i discorsi triti e ritriti sulla nostra dipendenza da social, al nostro modo di percepire il tempo.
Nessuno mi venga a dire che sono l’unica che sente le lancette di un orologio inesistente ticchettare senza tregua ogni volta che invia un messaggio importante e non ottiene risposta nell’immediato.
Era il 1889 quando Henry Bergson, filosofo francese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, scrisse il suo Saggio sui dati immediati della coscienza. In quest’opera, il concetto di Tempo viene considerato secondo due accezioni, ovvero il tempo della scienza e il tempo della vita. La prima descrive un tempo misurabile, oggettivo e scomponibile in una serie di istanti concatenati tra loro. L’immagine che lo rappresenta è quella di una collana di perle, individuate e precise nella loro posizione. La seconda accezione ci presenta invece un’immagine del tempo come un gomitolo di lana, dai fili attorcigliati su loro stessi, un groviglio inestricabile di cui non si viene a capo. Facile capire come questa si colleghi a un’idea di tempo che è quello percepito dalla nostra coscienza. Un fluire continuo che non tiene conto del tempo spazializzato della scienza, ma del nostro modo di percepire le situazioni.
In breve: WhatsApp mi segnala che lui ha visualizzato dieci minuti fa, ma la spunta blu senza una risposta me li fa percepire come un insieme di domande del tipo “con chi è?”, “cosa sta facendo?”, “mi ama ancora?”. E dieci minuti assumono una durata che la scienza non potrà mai calcolare.
Penso che la riflessione di Bergson possa ben adattarsi ad un libro che ho amato e che fa emergere, seppur non dichiaratamente, l’idea di un tempo soggettivo che sembra dilatarsi o restringersi a seconda della circostanza emotiva in cui ci troviamo.
Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, un inno al tempo trascorso nell’attesa di qualcosa che non arriva mai. Pubblicato nel 1940, narra la storia di un ufficiale, Giovanni Drogo, che trascorre la propria vita nella Fortezza, un luogo isolato che poco ha a che fare con i sogni di gloria che la carriera militare inizialmente gli presentava. La vita di Drogo procede in un susseguirsi di giorni tutti uguali scanditi dal ritmo delle abitudini militari, ma sempre accompagnati dalla speranza che un giorno, dal deserto al di là delle mura della Fortezza, si vedano arrivare i leggendari Tartari. Il ritmo della narrazione è lento, estremamente lento, e si ha l’impressione di vivere accanto a Drogo, di essere catapultati nella sua realtà e in particolare nel tempo delle sue emozioni. Il tutto per arrivare al climax finale e alle ultime pagine, che proseguono invece incalzanti e si può immaginare il perché (ma niente spoiler).
La mia domanda è: lo spazio bianco della chat di Instagram dopo aver aggiunto una reazione al ragazzo a cui andiamo dietro da mesi è come un deserto dei Tartari postmoderno?
Ci sarebbero tanti altri esempi letterari da portare, ma a questo sono particolarmente legata perché ho affrontato la sua lettura proprio durante il primo lockdown, e lì sì che il tempo della mia vita sembrava procedere al ritmo di quella di Giovanni Drogo.
Vorrei parlare di altri due casi, questa volta presi dalla pittura, che vanno di pari passo con le idee che ho presentato finora.
Julio Larraz è un artista cubano i cui quadri vengono definiti realisti, ma che arrivano a creare situazioni paradossali al limite del surrealismo, in un cortocircuito che rende il tutto ipnotico. La sua è un’arte legata all’attualità del proprio paese attraverso un’ironia sottile che si riflette nei titoli, ma non è questo ciò su cui voglio concentrarmi. Quello che mi colpisce di più è la patina di sospensione da cui sono avvolte le atmosfere, ciò che mi spinge a chiedermi quale sia la percezione del tempo della vita dei personaggi nel quadro e come sia possibile percepire una durata differente da quella che indicano le lancette dell’orologio.
Il secondo caso è un dipinto del 1967, A bigger splash di David Hockney (l’artista vivente più pagato al mondo: il suo Portrait of an artist del 1972 è stato venduto all’asta per 90,3 milioni di dollari nel 2018).
Hockney dipinse il quadro a partire da una fotografia scattata da qualcun altro. In seguito affermò di aver impiegato molto più tempo a dipingere lo spruzzo d’acqua del tuffo rispetto alla casa sullo sfondo. Ciò che lo affascinava era la contraddizione prodotta da questo procedimento: la casa è stabile e permanente, mentre il tempo dello spruzzo è di pochi secondi, esattamente l’opposto del tempo impiegato per portare a termine le parti della composizione. L’acqua della piscina rimane così, congelata nell’attesa di tornare alla sua calma piatta. Per noi che osserviamo, quanto dura il secondo di un tuffo?