Nunc est bibendum
Da settembre a ottobre è stato un salto veloce,
come quello del vino che esce da una foce;
e tra fumi di mosto dei nonni sento ancora la voce.
Bentornatə tra le pagine di questo diario filosofico. Spero che il malinconico settembre, con quell’aria sospesa tra la fine dell’estate (e delle vacanze) e l’inizio del calendario dei buoni propositi, sia passato in fretta. Almeno per me, è volato. Comunque sia, finalmente ci lasciamo questo mese indefinito alle spalle ed entriamo nell’autunno pieno.
Ottobre è un mese che mi piace. È un mese tranquillo, fatto di odori buoni e contraddizioni. È un mese sottovalutato e assolutamente contraddittorio, almeno qui a Roma. Qualche giorno fa, infatti, affacciata alla finestra, mi arriva al naso un odore inaspettato, quello della legna bruciata nel camino proveniente da qualche casa del vicinato. Mi ritrovo così a pensare a quella frase di Maggese (2005) di Cremonini, «Ottobre, oggi è arrivato ottobre, col suo cappotto nero e piove». Sorrido al pensiero di quella frase, dalla quale si palesava una prima contraddizione. Nell’aria c’era odore di legna arsa, che fa subito autunno, ma l’aria era ancora calda e al contempo frizzante, il cielo limpido e terso e il sole splendente, e tutto sembrava raccontare l’esatto contrario della canzone. Può esistere un autunno caldo e sereno? Ebbene sì.
«Godi. Non hai nella memoria un giorno più bello, un giorno senza nube, come questo[…] È così pura questa gioia fatta di luce e d’aria […]»1, pensavo, con le narici ormai impregnate di legno e nello sguardo la prima luce della mattina, ricordando i versi che Ada Negri dedica appunto a questo mese così denso di anime. Si può essere così felici per un sole fuori stagione? Io lo sono sempre, soprattutto quando è il sole di un autunno non ancora così autunno. Parlavo di contraddizioni perché se pensiamo all’autunno non pensiamo di certo a sole e aria calda, ma a quelle atmosfere che conosciamo grazie alle parole di chi descrive in modo più canonico l’autunno. Tralasciando le classiche filastrocche che ricordiamo di avere letto e imparato a memoria alle elementari, fior di poeti hanno dedicato infinite poesie a questa stagione così atavica e che così velocemente, il tempo di un battito di ciglia, si trasforma in inverno. E forse proprio a questo pensava Guccini quando scriveva «Non so se tutti hanno capito Ottobre la tua grande bellezza» (Canzone dei dodici mesi, 1972), proprio a queste tante anime che si susseguono in un solo mese.
Non scherzo quando dico che praticamente ogni poeta esistente ha dedicato una poesia all’autunno. Poeti come Pascoli, Quasimodo, Cardarelli, con il loro pennello, quale è la penna, descrivono un autunno che sembra quasi un quadro, fatto di foglie gialle ormai cadute e migrazione delle rondini, gli «stormi d’uccelli neri» di Carducci. E poi ci sono loro, i miei amati crepuscolari, che, come nella maggior parte delle loro liriche, dialogano con la natura, in questo caso quella dell’autunno, quasi fosse umana cosa intrisa di malinconico gelo; come Arturo Graf, che nel suo Sonetto d’autunno (1903) lo chiama stanco. Una delle descrizioni più belle dell’autunno, a mio modestissimo parere, ce la regala però Guido Gozzano, sul finire del cp. VIII de La signorina Felicita ovvero la felicità (1911), in un cammeo così vivido da avere quasi la percezione di essere noi a camminare nel paesaggio torinese da Gozzano descritto. Vi lascio ai suoi versi.
La morte dell'estate era tranquilla in quel mattino chiaro che salii tra i vigneti già spogli, tra i pendii 385 già trapunti da bei colchici lilla. Forse vedendo il bel fiore malvagio che i fiori uccide e semina le brume, le rondini addestravano le piume al primo volo, timido, randagio […]2 390
Pochi tratti, poche pennellate che riflettono lo stato d’animo dell’avvocato, forse l’alter ego di Gozzano, che sta per tornare alla sua grigia Torino. Poche pennellate che mostrano la fragilità di un uomo, tenuto a rispettare delle leggi morali non scritte del suo tempo a cui deve attenersi, di fronte all’impossibilità di un amore, inattuabile proprio per quelle convenzioni. Ci troviamo davanti ad un’estate lontana, ad una natura più morta che viva, dai colori spenti, se non per quei colchici lilla, piantine velenose che crescono prettamente in autunno, qui segnale chiaro, per le rondini, dell’arrivo del freddo. Ed infine ai vigneti, già spogli, segno che la vendemmia è già stata effettuata. E i vigneti ci riportano a quell’“autunno non autunno” di cui parlavo in precedenza.
Chi è di Roma sa sicuramente a cosa alludo. Per noi ottobrata significa una sorta di seconda estate. In realtà, quando si parla di ottobrata, non si tratta solo di una condizione metereologica, e quindi di un aggettivo. Nei primi decenni del XX sec., l’Ottobrata era una scampagnata “fuori porta” che si teneva appunto nel mese di ottobre, organizzata per festeggiare i frutti della vendemmia. Seguendo tutto un insieme di rituali che richiamavano pratiche antiche tipiche dei Baccanali, le festività latine in onore del dio Bacco, si partiva a bordo delle “carrettelle” e si raggiungevano diverse località più o meno lontane dall’Urbe, come ad esempio la zona dei Castelli Romani, dove si passavano delle giornate all’insegna di balli, canti e libagioni rigogliose a base di buon cibo e di buon vino.
E il vino è sicuramente il protagonista del mese di ottobre. Non a caso, tornando ai miei ricordi scolastici dell’ora di storia, durante la Rivoluzione Francese il periodo che andava dal 21 settembre e il 21 ottobre era chiamato appunto Vendemmiaio, ed era il primo moi d’automne, mese d’autunno. Il vino da sempre riporta alla convivialità, alla condivisione, a un tempo breve e a suo modo goliardico, quasi come il carnevale, che dura il tempo di una festa, o di una cena. A questo proposito Folgore da San Gimignano (1270-1332), autore umbro della tradizione comico-parodica trecentesca (di questo filone letterario ai più risulterà noto soprattutto quel Cecco Angiolieri del Si’ fossi foco), nel sonetto dedicato ad ottobre, tratto dalla sua Corona dei mesi, invitava proprio dei ricchi commensali a bere del mosto, metonimia per vino, e ad inebriarsi di esso, essendo quello il piacere massimo della vita («[…]e bevete del mosto ed inebriate/ché non ci ha miglior vita, en veritate»3). Se parliamo di vino e banchetti non possiamo non tirare il ballo il caro vecchio Orazio (65 a.C-8 d.C.), noto ai più per la sua filosofia del carpe diem, «cogli l’attimo». Con tutto il rispetto per Folgore, ovviamente…
Orazio ha dedicato moltissime odi e carmina al vino. Magari in un’altra sede vi racconterò del banchetto nella classicità, chissà, per ora mi limito a raccontarvi del nostro. Orazio, oltre ad essere un abile ed arguto autore, noto per la celebre e divertentissima Satira del Seccatore, era anche quello che oggi definiremmo un sublime enologo. Possiamo notarlo, ad esempio, nel noto carme d’invito a Mecenate (Odi, I, 20), il quale era una sorta di talent scout, per una fusion anglo-latina, che invece di promuovere cantanti andava alla ricerca di autori promettenti in grado di tessere le lodi del mitico imperatore Augusto. In questo carme Orazio si destreggia con le parole non solo tra diverse qualità di vino, ad esempio il Sabino, bevuto nei modesti Cantari (vv. 1-2) perché considerato un vino di poco pregio, o il Cecubo, considerato al tempo uno dei vini più pregiati (v.9), un rosso prodotto nelle zone vinicole dell’Agro Pontino, tra Fondi e Itri4, ma anche nelle descrizioni di alcune pratiche attuate per produrre il vino, come l’atto di imbottigliarlo (conditum levi, v. 3) o di pestare l’uva nel torchio (prelo domitam uvam, v. 9). Per Orazio il vino non è solo una bevanda e parte integrante del banchetto, ma è una vera e propria filosofia, che si può riassumere in una frase, ovvero nunc est bibendum, ora si deve bere (Odi, I, 37).
Come grammatica latina vuole, ci troviamo davanti ad una perifrastica passiva, che in generale indica un senso di dovere, necessità. Questo costrutto è qui usato da Orazio per incitare i romani a godere della vittoria su Cleopatra bevendo del vino, ovvero godendo del momento presente, dell’hic et nunc, del qui ed ora. Si deve bere perché non si può mai sapere domani cosa ci aspetta, se arriveremo al domani, in sostanza. È il succo del carpe diem.
E proprio perché «del doman non v’è certezza», in un’altra ode Orazio invita la giovane Leuconoe a […] sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces (vv. 6-7, Odi, I, 11) ovvero «Fa’ senno, mesciti vino e, poiché la vita è breve, tarpa le ali ad ogni lunga speranza» (trad. di C. Pavese), appunto a godere solo ed esclusivamente del presente, perché «nella letizia del vino scopri gli affanni dei saggi e i segreti» (vv. 14-16, Odi, III, 21, trad. di L. Canali). Ancora una volta possiamo vedere come con molta naturalezza Orazio metta in campo le sue competenze enologiche in quel vina liques, l’atto di mescere il vino.
Non so per voi, ma vedere e partecipare in prima persona alla vendemmia è una cosa molto stimolante. Vivendo in una zona di vino ho assistito spesso alla sua realizzazione, dalla raccolta dell’uva all’imbottigliamento, passando per il mosto e la pigiatura dell’uva nel torchio. A fare la vendemmia erano i miei nonni, quando io ero molto piccola. Mi limitavo a tagliare i grappoli d’uva che si trovavano nelle viti più in basso, quelle cui riuscivo ad arrivare. Mi risuona ancora nel naso quell’odore aspro di mosto. Quella del vino, come quella dell’olio, sono tradizioni antiche che è bene che siano tramandate perché non si disperdano tra i fumi di uno smartphone. È per questo che esistono i nonni. I nonni accesi come la radio, li definiva Stefano Benni su Bar Sport. I nonni raccontano storie di altri tempi e tempi andati, tirano fuori perle di vita meravigliose, spiegano con pazienza, leggono i giornali, fanno torte di mele. O nel mio caso guardavano il ciclismo la domenica, facevano le parole crociate e leggevano qualche buon giallo. Tutto sta nel saperli ascoltare, nel volerli ascoltare….
E forse non è un caso che ad ottobre, in questa stagione intermedia che è l’autunno, che volge all’inverno, tramonto delle stagioni, sia stata spostata la festa dei nonni, il 2 ottobre. In origine si festeggiava in estate, ma dal 2005 una legge ha istituito che venga festeggiata in questa data. Una festa che spesso, a mio parere, diamo per scontato o di cui ci dimentichiamo, per frenesia quotidiana, per trascuratezza. Spesso dimentichiamo che siamo ciò che siamo grazie alle nonne e ai nonni, che non solo ci insegnano e ci hanno insegnato a vivere invitandoci a a lottare sempre per la libertà, fisica e mentale, trasmettendoci l’amore per il passato e per quelle storie che siamo soliti leggere, con poca, pochissima attenzione, sui libri di scuola. Ciò che dimentichiamo spesso è che sono proprio loro, i nostri nonni, i protagonisti di quelle storie, donne e uomini che hanno lottato per liberarci dall’invasore e con grande pazienza, entusiasmo e forza d’animo hanno rimesso in piedi i mattoni distrutti dalle bombe e dalla guerra.
Quindi, il prossimo anno, dal momento che è già passata, andate da qualche fioraio e regalate loro un mazzolino di non ti scordar di me, che è il fiore ufficiale della festa dei nonni, un fiorellino piccolo e di un gradevole azzurro. Non sto qui a spiegarvi perché sia proprio questo il fiore scelto, un fiore che sembra più un vero appello: “non ti scordare di me”.
Per rallegrarvi un po’ lo spirito, in chiusura, voglio regalarvi una piccola curiosità. Chi mi conosce sa quanto io sia in fissa con il mondo dei Peanuts, le strisce a fumetto realizzate da Charles Shulz, che vedono come protagonisti Snoopy, Charlie Brown e tutti i loro amici. Nel 1950, proprio nella data in cui oggi si festeggia la festa dei nonni, il 2 ottobre, uscì sul Washington Post la prima striscia che vedeva come protagonista Charlie Brown:
… parlo tanto, non mi dire,
tra versi e canzoni,
tra emozioni e riflessioni;
al prossimo mese, tutto da sentire.
Bibliografia
- Negri, A., Sole d’ottobre, da Il dono, Mondadori, Milano, 1936
- vv. 383-90, Gozzano, G., La signorina Felicita ovvero la felicità, da Poesie e prose, Feltrinelli, Milano,2019
- Da San Gimignano, F., Ottobre, da Sonetti dei mesi, opera del XIII sec.; non essendo presente una edizione cartacea, rimando, per testo integrale e altri sonetti della suddetta raccolta, al sito della Biblioteca Italiana, progetto di ricerca portato avanti dall’università La Sapienza, volto alla realizzazione di un archivio in open access di testi della tradizione italiana pre rivoluzione Gutemberg, al seguente link: http://www.bibliotecaitaliana.it/testo/bibit000304
- La Penna, A., Saggi e studi su Orazio, Sansoni, Firenze, 1993, pp. 296-297
di Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi.