Un mesetto fa, grazie all’annuale rassegna milanese Le vie del cinema, ho avuto l’occasione di vedere in anteprima il nuovo film di Edgar Wright, Ultima notte a Soho (Last Night in Soho), presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e disponibile nelle sale italiane dal 4 novembre.
Sarò onesta: uscita dalla sala, non ero certa di aver totalmente apprezzato quello che avevo appena visto. Non ero neanche sicura di averlo totalmente metabolizzato: da una certa scena a metà del secondo atto in poi (niente spoiler), Last Night in Soho non soltanto supera le incertezze ritmiche della prima ora, lanciandosi in una climax narrativa sfrenata, ma, addirittura, va oltre quello che potrebbe sembrare l’apice di questa climax, arrivando quasi a sfiorare il grottesco.
Questa, forse, è la più grande debolezza e, allo stesso tempo, la più grande forza del film: nelle mani di un altro regista, Last Night in Soho sarebbe diventato un polpettone irrealistico, una di quelle torte con sette strati, uno più artificiale dell’altro, che, magari, vengono molto bene in foto, ma fanno venire il mal di pancia al solo pensiero di mangiarle. Invece, lo stile esuberante di Wright e la sua profonda cinefilia (chi lo conosce cinematograficamente sa che egli è un Tarantino con molto più senso dell’umorismo) riescono a tenere sull’orlo del burrone del “trash” alcuni snodi della sceneggiatura ed è proprio questo che, nonostante tutto, conquista.
Parlare della trama di Soho senza fare spoiler è molto complicato. Partiamo dalle basi: la protagonista, la diciottenne Eloise (Thomasin McKenzie), è un’orfana della campagna inglese, appassionata di moda e di cultura anni ’60, che viene ammessa al London College of Fashion e si trasferisce nella capitale. Inizialmente, alloggia nel dormitorio dell’università, ma ben presto capisce di non riuscire ad adattarsi allo stile di vita mondano e alla mentalità da mean girls delle sue colleghe – ad emarginarla è specialmente la sua compagna di stanza, Jocasta (Synnøve Karlsen, che forse avrete visto nei panni della moglie di Lorenzo de’ Medici nella serie Rai/BBC).
Dunque, Eloise decide di prendere in affitto una stanza nella casa della vecchia signora Collins (Diana Rigg, nel suo ultimo ruolo), ma, subito dopo il suo trasferimento, la ragazza comincia ad avere ogni notte strani sogni, sogni che sembrano reali, sogni che le mostrano il passato e che lasciano tracce nel presente. Eloise viene trasportata nella Soho del 1965, dove si ritrova nel corpo di Sandy (Anya Taylor-Joy), un’aspirante cantante, che, a sua volta, conosce l’impresario Jack, con cui intreccia una relazione amorosa e professionale.
All’inizio, Eloise è entusiasta di poter vivere, almeno per poco, nella sua epoca prediletta, così come è elettrizzata dalle esperienze che vive nel corpo di Sandy, molto più estroversa ed intraprendente della nostra protagonista. Gli eventi, però, precipitano e comincia ad essere chiaro che questi vividi sogni siano, in realtà, incubi. Non è tutto oro quel che luccica.
Il tema delle apparenze ingannevoli è presente sin dai primi fotogrammi del film, quando vediamo, sul muro della camera di Eloise, il poster di Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s, B. Edwards, 1961). Anche chi di voi, carǝ lettorǝ, non avesse visto la celeberrima pellicola, avrà sicuramente in mente l’immagine di un’elegantissima e glamour Audrey Hepburn, che mangia un cornetto nella sua impeccabile mise firmata Hubert de Givenchy – abito lungo nero, guanti da opera e parure di diamanti con tanto di diadema. L’immagine che è restata nell’immaginario collettivo è questa: grazia, raffinatezza e stile intramontabile. Tuttavia, dietro alla sua sceneggiatura da commedia romantica, Colazione da Tiffany racconta una storia drammatica, come emerge soprattutto dall’omonimo racconto lungo di Truman Capote, da cui è tratto. Holly Golightly è una prostituta appena maggiorenne, scappata da un matrimonio con un uomo che potrebbe essere suo padre, sperduta in una vita tanto caotica e tanto insensata quanto il traffico della New York post-bellica in cui è ambientata la vicenda.
Anche Eloise, a quanto sembra, è attratta dall’idea patinata e edulcorata del decennio 60-69: anche lei è vittima, come amavamo dire tuttə ai tempi d’oro di Tumblr, di una “nostalgia per un’epoca che non ha mai vissuto”. Ed effettivamente bisogna viverla, per capire che non esiste un’era edenica della nostra Storia, né nel passato, né nel presente.
Ultima notte a Soho illumina di luci al neon i lati oscuri della condizione femminile di metà Novecento e crea paralleli inquietanti con la situazione odierna. Attraverso la lente del genere cinematografico (prima il Bildungsromanfilm, poi il giallo all’italiana, poi l’horror psicologico), Wright estrapola l’orrore dal quotidiano e gli fa ballare il twist.
Un altro punto di forza è, innegabilmente, l’aspetto visivo. Pochissimi gli effetti ottenuti con la computer grafica, innumerevoli i movimenti di macchina ambiziosi e i riferimenti ai film del passato, soprattutto a quelli di Romero, Argento, Bava, Hitchcock e Polanski. Impeccabile anche la scelta musicale, come può facilmente immaginare chi ha visto Baby Driver – Il genio della fuga (Baby Driver, E. Wright, 2016).
Altalenanti, invece, le prove attoriali. Chi scrive ha apprezzato particolarmente Matt Smith, nei panni di Jack, e la compianta Dame Diana Rigg, che moltǝ (a meno che anche voi non siate fissatǝ con i film del periodo) conosceranno per aver interpretato Olenna Tyrell ne Il trono di spade (Game of Thrones, 2011-2019). Purtroppo, non mi ha particolarmente convinta Anya Taylor-Joy, forse perché è troppo fresca la sua pressoché impareggiabile interpretazione di un’altra ambiziosa ragazza degli anni Sessanta, Beth Harmon, o forse perché Wright non è riuscito a gestire appieno quella nota di falsità che rende tanto interessanti quanto potenzialmente irritanti le performances dell’attrice anglo-argentina. Anche Thomasin McKenzie risulta un po’ sprecata in un ruolo che, complici i canoni del genere, richiede, più che una duttilità dei connotati, una potenza non indifferente nelle corde vocali.
Altra pecca, duole ammetterlo, sono i costumi. Se la scenografia riesce ad essere immersiva al cento per cento, il guardaroba, con le dovute eccezioni – ad esempio, gli outfit di Sandy nella sequenza della discoteca, sulle note di Land of 1000 Dances dei Walker Brothers, così come l’iconico cappotto in vinile bianco – sembra poco ricercato, poco accurato storicamente e, soprattutto, sembra nuovo di zecca, appena tirato fuori dalla fabbrica, mai indossato e mai neppure guardato: in una parola, è evidente che gli abiti siano costumi di scena e non, invece, vestiti che appartengono ai personaggi, scelti ed indossati con cura e volontà propria. Non ci stupirebbe se entrassero in scena con ancora il cellophane intorno.
In definitiva, è difficile dare un giudizio oggettivo su Last Night in Soho, soprattutto senza anticipare i numerosi plot-twists che infittiscono la trama. (Per questo motivo, vi lascio solo il teaser e non il trailer completo, che, secondo me, è troppo rivelatore.) Sicuramente, l’ultima fatica di Wright è un film di livello e merita l’esperienza in sala, ma l’indice del mio personale gradimento è certamente viziato dall’affinità con i temi trattati, dalla mia passione per i cappotti in vinile e, soprattutto, dalla mia esperienza come fuorisede.
Magari non avremo a che fare con il soprannaturale, ma tuttə noi studentə trapiantatə sappiamo cosa vuol dire gestire le ansie dell’università, delle nuove relazioni – in amicizia, in amore e al lavoro -, di una città estranea…. In fondo, forse, abbiamo tuttə i nostri fantasmi, anche se non assomigliano ad Anya Taylor-Joy.