Era il 22 gennaio 2020 quando, nello storico Theatre Du Châtelet di Parigi, andava in scena una delle ultime feste di quell’annus horribilis, ma anche una delle più grandi e commosse feste che la storia della moda ricordi.
Quel mercoledì, infatti, in conclusione di una fashion week vissuta nel dubbio e nella paura di un nemico che, in quel momento, si trovava ancora lontano – ma che presto avrebbe investito tutti –, Jean-Paul Gaultier dava il suo addio al mondo della moda. Ad accompagnarlo in questo ultimo saluto c’erano più di duemila persone, fra cui giornalisti, editors, fotografi, colleghi designer e un esercito di modelle, scelte fra quelle a lui più care, come le sorelle Hadid, Coco Rocha, Eva Herzigova, Irina Shayk. Dopo cinquanta anni di onorata carriera, Gaultier salutava, per l’ultima volta, il suo pubblico e il mondo.
Del designer, spesso, si narra del suo comportamento ribelle, delle stravaganze, dell’incapacità di stare dentro i limiti, tanto da valergli il titolo ufficioso di “enfant terrible” della moda francese, e proprio dal suo essere enfant dobbiamo partire, per raccontarlo.
La carriera di Jean-Paul Gaultier nella moda inizia, infatti, in tenerissima età, verso la fine degli anni Sessanta, ad Arcueil, un piccolo paese industriale vicinissimo a Parigi. Figlio di una coppia borghese, fu la nonna materna, Marie, ad avvicinarlo per la prima volta al mondo della moda. In numerose interviste ha raccontato di quando la nonna gli mostrava i vestiti della sua gioventù, le pellicce, i gioielli, i cappelli e soprattutto i corsetti, indumento che, già in quegli anni, era stato abbandonato, ma che per il giovane Jean-Paul diventerà un simbolo e la traduzione materiale della sua visione creativa. Gaultier ricorda spesso i racconti di questa nonna che, da ragazza, beveva cucchiai di aceto per provocarsi terribili crampi allo stomaco che le permettessero di raggiungere misure di girovita estremi e poter arrivare a stringere l’ultimo laccio, quello più in alto, del corsetto.
La nostra sensibilità contemporanea ci fa guardare con orrore a queste pratiche, che releghiamo a un periodo storico di costrizione, fisica e mentale, antecedente al 1969 e alle rivolte studentesche, particolarmente vive in Francia; ma è proprio così che Jean-Paul Gaultier poté trovare la sua voce. Il padre non gli comprava le bambole che tanto avrebbe voluto per poter sperimentare, così iniziò a farlo con ciò che aveva a disposizione, ossia un orsacchiotto di peluche, Nana. Su Nana, “il primo orsacchiotto transgender”, nella definizione dello stilista, applicherà, all’altezza del petto, due piccoli coni: quello fu il suo primo reggiseno a cono, uno dei suoi capi più iconici, rimasto nella memoria collettiva perché indossato da Madonna durante il suo Blonde Ambition Tour nel 1990.
Iniziò, in adolescenza, a disegnare bozzetti per la mamma e la nonna, che non potevano permettersi di mandarlo a studiare design nelle scuole parigine. Così decise di inviare autonomamente, per posta, questi bozzetti a stilisti e designer, per farsi conoscere. Una casa di moda rispose: era Pierre Cardin che, stupefatto del suo talento, lo prese sotto la propria ala protettrice, nel 1970.
L’insegnamento più grande che Cardin gli ha trasmesso è anche la regola più importante di qualsiasi artista: non perdere mai la propria libertà. Un insegnamento molto ironico, considerato che questa libertà spesso gli fu negata. Nel 1974, infatti, Gaultier venne mandato nelle Filippine, per gestire la boutique di Cardin a Manila. Lì, nonostante non avesse mai fatto prove di vestiti su misura, piacque molto alla classe politica benestante delle Filippine, e così conobbe Imelda Marcos, l’allora First Lady, moglie del dittatore Ferdinand Marcos. Imelda Marcos rimane nell’immaginario comune per via del suo amore per il lusso e l’alta moda, – leggendaria la sua collezione di scarpe, con più di 2700 pezzi –, mentre il suo Paese, sotto un regime marziale, viveva un periodo di dura repressione politica e sociale. La farfalla di ferro, così fu soprannominata dalla stampa, si innamorò delle creazioni di Gaultier, e lo fece inserire in una no leave list, per impedirgli di uscire dal paese. Gaultier, per liberarsi di un lavoro non grato e al servizio della moglie di un dittatore, finse la morte della nonna per poter tornare in Francia e non ritornare più nelle Filippine.
Nei primi anni Ottanta la sua carriera spiccò il volo e nel 1982 fondò la sua maison. Si possono ricordare tanti pezzi del designer, e non possiamo non partire dal 1983, con la collezione L’Homme Object (Toy Boy). Gaultier si poneva una domanda importante in questa collezione: cosa vuol dire virilità? Mentre il designer dichiarava che la parità di genere non potrà essere raggiunta fino a quando anche gli uomini non verranno considerati “oggetti sessuali” come lo sono sempre state le donne, in passerella ribaltava e sessualizzava, al suo estremo, una delle figure più virili, in senso tradizionale, che potessero esistere: il marinaio. Si esplorava, nella collezione, la carica profondamente omoerotica di giovani marinai, interpretati da modelli che non venivano risparmiati dalla completa esibizione del loro corpo.
In questa occasione ci fu anche la prima apparizione del motivo tipico di Gaultier, la stampa marinaresca, le righe blu orizzontali su sfondo bianco, che rimarrà nella sua estetica e nella sua idea creativa fino alla fine della carriera.
Nel 1985 venne presentata la collezione Et Dieu créa l’Homme che, con un tocco un po’ blasfemo, aveva un solo obiettivo: rompere il binarismo di genere e reinterpretare l’approccio classico alla mascolinità e alla virilità. Per la prima volta su una passerella, sfilavano uomini in gonna e altri capi tradizionalmente riservati al pubblico femminile, mostrando che mascolinità (e femminilità di rimando) non hanno niente a che vedere con ciò che si indossa. Fu una collezione ampiamente criticata da un mondo giornalistico non ancora pronto ad una rivoluzione sessuale di questa portata, ma fu una delle collezioni che ancora oggi ricordiamo.
Guardando velocemente le collezioni di Gaultier attraverso gli anni, è evidente come lo stilista abbia tratto ispirazione da ambiti diversi e lontani fra di loro. Sicuramente c’è sempre una componente estremamente sessuale, con particolare attenzione al mondo del fetish e del BDSM. In alcune interviste dichiarava di essere perennemente ispirato dalla cultura popolare francese, dagli stereotipi del suo paese, come i baschi, la Tour Eiffel e le baguettes. Bisogna anche ringraziare Gaultier in quanto fu fra i primi a portare, in passerella, modelli e modelle non convenzionali per l’epoca: uomini anziani, donne in beehive grigio, modelle plus-size o ricoperte di tatuaggi e piercing. Questa mossa suscitò sempre numerose critiche, ma come dichiarò una delle muse di Gaultier, la modella e performer di burlesque Dita Von Teese: «solo la mediocrità è esente dalla critica».
Il 22 gennaio 2020 Jean-Paul Gaultier, una colonna portante della couture, salutava il suo pubblico, dopo aver lasciato tracce indelebili nella storia della moda e della cultura contemporanea, e lo faceva nella maniera che lo contraddistingueva da sempre: con una enorme festa, insieme celebrazione e parodia della sua carriera, con tutti i cliché della sua estetica e delle sue collezioni passate, davanti al suo mentore, Monsieur Cardin, che morirà più tardi nello stesso anno, con un lavoro serio e ben fatto, ma senza prendersi troppo sul serio. L’enfant terrible non ha mai perso la sua libertà.
di Luca Ruffini
Mi chiamo Luca, 1998, fuori corso a Lettere Moderne in Statale a Milano. Da bambino mi chiamavano “piccolo lord”, il risultato di questo soprannome è che ora vivo in doppiopetto con la cravatta sempre annodata al collo. La letteratura mi affascina, l’arte mi incuriosisce e la moda mi emoziona. Mi piacciono tante cose, fra cui, in ordine sparso: il rococò francese, Lady Gaga, i dolci in pasta di mandorle, la Prima Repubblica e la regina Elisabetta II. Qui spero di scrivere articoli che possano interessare e far nascere una passione nuova in chi legge.
Se mi cercate mi trovate molto probabilmente in Porta Venezia a Milano, con una sigaretta in bocca e un gin tonic in mano.