Insomma, il collegamento occhio-encefalo io lo pensavo come un tunnel scavato dal di fuori, dalla forza di ciò che era pronto per diventare immagine, più che dal di dentro ossia dall’intenzione di captare una immagine qualsiasi.
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, La Spirale, 1965, pp. 180.
Ambientata in un mare primitivo, dove le conchiglie ancora decidevano del loro guscio e la vita circostante non puntava gli occhi sulle loro striature corallo, la “biocomica” calviniana, La Spirale indaga un amore tra due corpi, risiedenti in primo luogo nella vivace immaginazione altrui. Il saggio che il lettore si accinge a leggere, però, non si pone come obiettivo una critica puramente letteraria e limitata al solo testo in esame ma, attraverso l’utilizzo di riferimenti critico-saggistici riguardanti varie discipline artistiche e studi socio-culturali, intenderà sottolineare come La Spirale sia, a mio parere, un testo esemplificativo dei cambiamenti significativi avvenuti tra gli anni ‘50 e ‘60 a seguito della massificazione della società di cui l’avvento della televisione risulta essere uno dei fattori scatenanti di maggior rilievo.
Per introdurre il nostro percorso all’insegna della rivoluzione culturale, vogliamo fissare un punto sulla linea Storia che serva poi da confronto e ci restituisca, dunque, l’idea del cambiamento. Per fare ciò, ci si accosterà a un saggio-memoria del poeta statunitense Ezra Pound: Gaudier-Brzeska. Scritto per onorare il lavoro del grande scultore francese, morto prematuramente nel 1915 al fronte, il testo ci risulta di spiccata utilità per le dichiarazioni di poetica che esso contiene, dichiarazioni che aiutano a comprendere non solo le opere di Gaudier, ma anche e soprattutto la poesia di Pound e il movimento vorticista. Quest’ultimo, nato nei primi decenni del secolo scorso, viene preso ad emblema, simbolo e, in ultima analisi, futuro metro di confronto, in quanto frutto di un’indagine sul contemporaneo e, dunque, sintesi delle più comuni sottotrame tessute dalle maggiori avanguardie storiche sviluppatesi in quel periodo. Dagli impressionismi ai cubismi di Picasso e Braque, per arrivare all’astrattismo di Kandinskij, Pound esegue un’analisi dettagliata dell’universo artistico che lo precede e lo circonda. Immerso in un periodo rivoluzionario, coglie la sua essenza e come l’artista si collochi rispetto ad essa, per poi proporre un movimento artistico-letterario di sintesi e rinnovamento:
Ci sono due modi opposti di vedere un uomo: in primo luogo, lo si può pensare come colui verso il quale muove la percezione, come il giocattolo della circostanza, come la materia plastica che riceve impressioni; in secondo luogo, lo si può pensare come colui che scaglia una certa forza fluida contro le circostanze, colui che concepisce invece di accontentarsi di riflettere e osservare.
Ezra Pound, Gaudier-Brzeska, 1916, pp. 98.
Nonostante il poeta statunitense si affretti a precisare come «con ciò, non si vuole affermare che un modo sia migliore dell’altro»¹, sembra evidente allo scrivente una forte preferenza da parte di Pound rispetto alla seconda opzione, che si discosta dalla prima riscontrata nelle arti ottocentesche e, in particolare, nella corrente impressionista. Il soggetto pro-attivo, al contrario, viene ritrovato nella concezione artistica tipica delle avanguardie storiche. L’artista viene inteso, dunque, come un Io dotato di forza cognitiva e percettiva, attivo e in alcun modo passivo, che lancia il suo sguardo attento, vigile, acuto sulla realtà circostante, restituendo la «cosa interiorizzata e l’emozione oggettivata»² sotto forma di opera.
Se, quindi, tenendo conto la profonda accuratezza di studi eseguiti da Pound sull’universo artistico-culturale a lui circostante e contemporaneo, è possibile assurgere il vorticismo e il suo manifesto a rappresentanti dei modelli percettivi diffusi a inizio secolo, quello che interessa ora sarà porre ciò in confronto con un mondo consumista e, in particolare, con un’Italia che si vede radicalmente trasformata dal boom economico degli anni Sessanta e Settanta.
Per procedere nell’intento, credo sia doveroso citare e riportare alla mente del ventunesimo secolo il pensiero di un illuminato analista e critico dei suoi tempi: Pier Paolo Pasolini. Il corpus dei suoi scritti è vasto, e vasto risulta essere quello riguardante i testi trattanti la scomparsa della cultura sottoproletaria, l’omologazione e la critica verso un sistema consumistico-capitalista più in generale. Per riuscire a discernere la sua visione di un mondo andandosi appiattendo in mezzo a un rumore di fondo forte e persistente, gli Scritti Corsari, raccolta di saggi e interventi pubblicati tra il 1973 e il 1975, ci illumineranno la via. In particolare, si vuole aprire il discorso citando un articolo, uscito su Paese Sera l’8 luglio 1974, dal titolo “Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango”. Rispondendo allo scrittore italiano, Pasolini illustra, con chiarezza e sinteticità, ciò di cui più ha nostalgia: questo non è “l’italietta”, definita borghese e democristiana, ma quell’Italia agricola, rurale, sottoproletaria che si distingueva e faceva mondo a sé per la cultura propria e incedibile:
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo […]: il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico.
Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, 1975, pp. 67.
Ma se questo è un dato di fatto che Pasolini non può che riscontrare oramai nella metà degli anni Settanta, risulta interessante indagarne le cause e gli effetti. Per quanto riguarda il primo quesito, ci torna utile un altro scritto pasoliniano, sempre presente nella raccolta Scritti Corsari, che sonda il rapporto tra società consumistica, società di massa e processi di omologazione: Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si concentra più su di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.³
Acculturazione e acculturazione, come suggerisce il titolo, uscito nel 1973 sul Corriere della Sera, sfida il mondo televisivo e apre un’analisi sulle cause dell’appiattimento sociale e comportamentale avvenuto negli ultimi anni in Italia. La televisione, mezzo di “cultura borghese” di massa, si insinua nelle case, nelle vite della gente di periferia, di coloro che erano stati gli ‘emarginati’, e si rende centro di una cultura aliena, consumistica: l’età del pane, che essi avevano sempre vissuto, basata sul consumo di beni necessari ed essenziali, si trasforma in età dell’oro, o almeno in illusione di essa. In questa realtà in divenire, vorticosa e galoppante, catturata dai pixel in bianco e nero dello schermo televisivo, viene a traslarsi anche la figura dell’umano in rapporto con essa.
Notiamo come il sistema consumistico, di cui il teleschermo è emblema rappresentativo, preveda e richieda che lo spettatore, il vedente – da sempre rimasto relegato nell’oscurità della sala cinematografica – esca alla luce diventando elemento spettacolare. Esso, entrando in comunione con una realtà portata nel proprio salotto, diviene parte dell’universo visto, soddisfacendo il volere della macchina capitalista, che detta: OMOLOGAZIONE DELLA MASSA = OMOLOGAZIONE DEI DESIDERI. Poiché l’individuo risulti conforme all’occhio altrui, e dunque non essere escluso dalla massa sociale, è necessario che lo spettatore degli anni Sessanta si mimetizzi con la “realtà”⁴ che gli viene proposta attraverso i nuovi mezzi di comunicazione: è necessario, dunque, che diventi un uomo-consumatore-dipendente. (E quando si scrive dipendente si intende sì dal consumismo e dalle sue conseguenze, ma anche, e soprattutto, dal giudizio, dal riconoscimento e, in ultima analisi, dallo sguardo altrui, veicolo attraverso il quale l’Io può giungere a una concezione di sé, se pur parziale. L’immagine che il soggetto coglie sulle iridi altrui, infatti, è come una tessera di mosaico, un granello di sabbia in una spiaggia assolata che insieme a molte altre compone l’insieme della sua esistenza.)
Per meglio comprendere le conseguenze dell’avvento della televisione sull’Italia dagli anni Sessanta in poi, possiamo prendere in considerazione il lavoro artistico-cinematografico del tardo Federico Fellini, in modo particolare la sua ultima opera: La Voce della Luna⁵. La pellicola mette in scena diversi aspetti governanti una realtà post-industriale, ma in particolare ci si vuole soffermare sul suo valore di analisi dei detriti relazionali prodotti dai nuovi media, alla fine degli anni Ottanta ormai ben visibili e riscontrabili:
È un film sulla televisione, o più precisamente su quello che ha prodotto; sullo sbriciolamento di una realtà che non può più essere ricomposta, sull’assenza di sentimento e di morale di un’epoca caratterizzata dalla volgarità cinica della televisione e dal rumore.
Intervista rilasciata da Federico Fellini a Aldo Tassone. Vedi Aldo Tassone, Fellini 23 ½, 2020, pp. 759.
Il film, risultato di una lunga carriera da grande regista, narra le vicende dei Lunatici⁶, strambi abitanti di un paese contadino della Pianura Padana, che sembrano in grado di vedere – preferendo la campagna al borgo, coacervo di tutti gli orrori della contemporaneità – «la natura nelle sue componenti magiche, capaci di guardare all’anima della campagna»⁷. La natura si riempie di storie, leggende, sogni, fantasie, voli mistici e mitologici perché abitata ancora da soggetti attivi, in grado di assorbirne la clorofilla e restituirne una visione-processo, frutto di una fotosintesi intellettuale e immaginaria. Il borgo, al contrario, è detrito, rifiuto di una comunità che ha fatto/sta facendo i conti con il consumismo sfrenato e, ora, ne percepisce le derive sociali. La spettacolarizzazione, la troppa vicinanza con una realtà che dovrebbe lasciare spazio all’immaginazione («Nulla si sa, tutto si immagina»⁸) ma che ora si presenta sotto forma di dottrina, di dogma, è rappresentata in modo eccellente dall’episodio della cattura della Luna.
In una notte dal cielo terso, lunghe braccia meccaniche si allungano per afferrare il satellite: è fatta, è prigioniera. Icona di una inviolabilità e indicibilità che per secoli si è protratta nella letteratura ma soprattutto nella cultura popolare, sotto le macchine (da presa) viene ridicolizzata in una visione omnicomprensiva, che non lascia spazio al dubbio o all’incognita. «La luna non ha nulla da svelare, per noi tutto è già stato rivelato!»⁹ è quello che sentenzia un alto ecclesiastico a cui Fellini mette in bocca le parole dell’uomo-spettatore contemporaneo. E infine, in una contaminazione-inquinamento di un creato fattosi permeabile all’antropomorfo e alle sue derive, la luna diventa occhio di bue che illumina uno spot distopico sulla contemporaneità: «Pubblicitàaaa…aaa…aa…!»¹⁰
Giunti alla chiusura di questo articolo, ci si starà chiedendo cosa ne sia stata dell’analisi de La Spirale, cosa abbia a che fare tutto ciò con il racconto calviniano e perché sia stato portato all’attenzione del lettore. Ebbene è stata necessaria aprire, a mio avviso, questa lunga parentesi sulla contemporaneità (intesa ovviamente rispetto alla novella di Calvino) in quanto la tesi portata avanti, e che è stata già in parte enunciata nella fase iniziale della nostra discussione, sostiene come le dinamiche disegnanti i rapporti tra i personaggi, e tra i personaggi e il circostante, derivino, in modo immediato e diretto, dalle modificazioni in atto nell’universo socio-culturale di riferimento. Mi si lasci precisare:
E in fondo a ognuno di quegli occhi abitavo io, ossia abitava un altro me, una delle immagini di me, e s’incontrava con l’immagine di lei, la più fedele immagine di lei, nell’ultramondo che s’apre attraverso la sfera semiliquida delle iridi, il buio delle pupille, il palazzo di specchi delle rètine, nel vero nostro elemento che si estende senza rive né confini.
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, La Spirale, 1965, pp. 184.
Qfwfq, assunte le fattezze di un mollusco delle origini, affronta, in questa cosmicomica, il tema dell’altro, del desiderio di esso e di come il corpo, informe, e quindi capace di modellarsi sotto il volere della psiche, reagisca alle sue conseguenze. Aggrappato al suo scoglio, le onde del mare gli portano informazioni tra le quali, un giorno, scova la presenza di un’alterità in quel mare fino a quel momento deserto-cella. È, dunque, amore a prima “vista”, o forse sarebbe meglio dire, a prima intuizione, poiché egli scova, nell’altro, solo la presenza: il resto lo deve immaginare, dedurre, sognare. In ogni caso, Qfwfq si trova nella posizione del desiderante, e siccome non riesce a individuare con certezza l’oggetto desiderato, cosa che potrebbe fare solo attraverso la vista, egli desidera indistintamente, alla cieca. Come la figura del consumatore che mira unicamente al consumo, non di un oggetto in particolare, ma consumato da una pulsione reiterata all’infinito, il protagonista del racconto in esame espande il suo desiderio all’indefinito: questo non ha una meta, ma si estende a raggiera portato dalla corrente marina.
A questa condizione di individuo-amante si accosta quella di individuo-amato, in quanto visto da una realtà circostante e ben presente all’infuori del suo Io. Siccome il nostro protagonista si trova nella condizione di essere percepito a sua volta, si dà a vedere, e in questo darsi a vedere entra in un meccanismo che deve soddisfare il vedente. Si ha quindi una condizione di omologazione marina, simile a quella degli anni Sessanta italiana in cui la luna-spot indagava la società per imporvi un «nuovo modello […] secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria)»¹¹.
Non è complesso, dunque, trarre le conclusioni che seguono. Qfwfq agisce e percepisce come un soggetto passivo tipico dell’era dell’avvento dei nuovi media di massa. Egli, al contrario di quello che si poteva rilevare nelle comunità dei primi anni del Novecento, risulta completamente trasformato dall’avvento della televisione, che lo ha soggiogato alla sua illusione iper-realistica. La realtà entra prepotentemente nel salotto-psiche del protagonista, e gli presenta una alterità alla quale non può che, in balia delle aspettative (logica conseguenza della condizione del visto), rispondere passivamente. L’appiattimento del soggetto a puro desiderante, alla pari di tutti gli altri, conchiglia fra mille su di una bagnasciuga sabbioso, risulta essere conseguenza della condizione di avvicinamento di un reale fittizio, incombente e permeante. Ed è il circolo vizioso che è stato descritto che sta alla base, sia della costruzione del racconto, sia della società consumistico-capitalista in cui Calvino si trova a scrivere.
E per suffragare l’ipotesi si vuole portare un ultimo esempio che si spera possa rischiarare la mente del lettore:
Per la maggioranza dei molluschi, la forma organica visibile non ha molta importanza nella vita dei membri d’una specie, dato che essi non possono vedersi l’un l’altro e hanno solo una vaga percezione degli altri individui e dell’ambiente.
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, La Spirale, 1965, pp. 169.
Calvino, nell’incipit del racconto, ci fornisce tutte le informazioni chiave necessarie per supportare la nostra tesi. I molluschi descritti non vedono e, in questa cecità, affidano scarsa importanza alla realtà circostante: la percezione che possiedono del Fuori è superficiale, granulosa, così come l’individuo-spettatore. Egli non partecipa alla schiusura del fiore dell’ignoto, ma fa aderire la sua realtà alla piattezza dello schermo televisivo, accontentandosi di una visione sgranata e in bianco e nero. Lo spettatore-mollusco, quindi, diventa simbolo di una generazione, in profondo mutamento, che fa breccia nella letteratura: se ne rileva la traccia, il detrito di un malessere diffuso e profondo che sta intaccando il complesso socio-culturale. Chiudendo la nostra discussione, si vuole sollevare un dubbio che era stato a sua volta enunciato da Pasolini: “Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello[…]: ma sono in grado di realizzarlo?”¹² Negli anni Settanta il poeta bolognese rispose con un ‘no’, e non è certo questa la sede per provare a mettere in discussione questa affermazione, ma con un rapido quesito si tenta l’instillazione del dubbio, un dubbio insito nella storia raccontata da Calvino:
Qfwfq non è consapevole della sua condizione di amante fra una moltitudine di desideranti o lo è ma si rifiuta di accettare la realtà perché vorrebbe dire divenire un ‘lunatico’, navigare contro corrente e vedere la propria immagine riflessa nello sguardo altrui in preda alla ‘pazzia’ dell’anticonformista?
Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, 1975, pp. 33.

di Matteo Paguri
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, ve ne prego, non chiedetemi l’ascendente perché non me lo ricordo: già troppe volte l’ho “calcolato”, “cercato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia come si può dedurre. In realtà non amo troppo descrivermi quindi che dire? Studio l’arte del cinema all’università di Padova in particolare frequento il corso di Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Laureato al Dams di Bologna, il motto della mia vita è “sarà quel che sarà”.
Note
- Ezra Pound, Gaudier-Brzeska, 1916, pp. 98.
- Guido Bartorelli, Studi sull’immagine in movimento: dalle avanguardie a YouTube, 2015, pp. 185 7.
- Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, 1975, pp. 32.
- È di fondamentale importanza sottolineare come la realtà di cui si scrive non sia con la erre maiuscola. La spettacolarizzazione del mondo che avviene in questi anni porta a modifiche drastiche nei termini della percezione di questa. “L’immagine non è né la realtà (forse, nietzscheanamente, perduta), né la sua rappresentazione, ma una configurazione icastica e interpretativa, un’oggettivazione microspettacolare. L’immagine diventa la forma eccedente, in cui l’essente fissa la propria icasticità come microspettacolo. Nell’immagine l’essente scompare e diventa una configurazione spettacolare. E l’immagine impregnata di spettacolarità è quanto caratterizza il mondo contemporaneo.” (vedi Paolo Bertetto, Microfilosofia del Cinema, 2014, pp. 36-37).
- Federico Fellini, La Voce della Luna, 1990.
- Termine utilizzato per individuare gli abitanti del paese. L’utilizzo si ritrova nella monografia su Fellini ‘Fellini 23 ½’ ma se ne trova traccia nel libro di Ermanno Cavazzoni, Il poema dei Lunatici, 1987 da cui il film trae spunto.
- Intervista rilasciata da Federico Fellini a Aldo Tassone. Vedi Aldo Tassone, Fellini 23 ½, 2020, pp. 762.
- Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1898. Poi citata all’interno del film Federico Fellini, La voce della Luna, 1990.
- Citazione trascritta in Aldo Tassone, Fellini 23 ½, 2020, pp. 771 e proveniente da Federico Fellini, La Voce della Luna, 1990.
- Trascrizione di Federico Fellini, La Voce della Luna, 1990 contenuta in Aldo Tassone, Fellini 23 ½, 2020, pp. 773. “Sembra che Fellini avesse pensato di mettere sulla luna la faccia di Silvio Berlusconi al posto di quella dell’Aldina! Lo ‘sberleffo’ sarebbe diventato allora un evento epocale”.
- Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, 1975, pp. 33.