Consiglio di accompagnare la lettura di questo articolo con Vexations di Satie (a questo link)
Una coppia in salotto, di sera. Lui legge il giornale seduto in poltrona, lei strimpella pensosa ed annoiata il pianoforte.
Non ci guardano. Non si guardano. Sono completamente assorti nei loro pensieri, nelle loro attività, nella loro profonda solitudine: insomma, abbiamo davanti agli occhi una scena quotidiana, quasi banale, ma nostro malgrado ne restiamo colpiti. Non per nulla quest’opera, Stanza a New York, è una delle più famose di Edward Hopper, considerato il maggiore esponente del realismo americano. Possiamo sentire il silenzio, forse interrotto solo dal suono di una radio fuori campo o di qualche sirena in lontananza, che permea la scena, la quale sembra viva nella sua immobilità, come se il pittore avesse cristallizzato un momento di pausa nella vita dei due personaggi, una transizione dalla frenetica routine newyorkese di oggi a quella di domani.
È emblematico, a mio avviso, come nei quadri di Hopper i personaggi siano sempre assorti nel loro non far nulla, spesso seduti o distesi. Spesso, noi stessi siamo occupati nelle nostre attività quotidiane, persi nel tran-tran della civiltà moderna (i cui primi assaggi si trovavano proprio nell’America del ‘sogno’ contemporanea ad Hopper; quella ‘terra di opportunità’ dove i self-made men potevano risollevarsi dalle crisi della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale e costruire il loro personale Impero). Quando siamo così indaffarati, la nostra mente è costretta a pensare all’infinita lista delle cose da fare, ma, se ci fermiamo a riprendere il fiato, sperimentiamo la noia della contingenza, che ci suggerisce un vuoto interiore (forse quel nulla d’essere dell’esistenza di cui parlava Sartre), come se fossimo un sacco vuoto che deve essere riempito: e allora brandiamo la sciabola del quotidiano contro l’angoscia esistenziale che cerca di avanzare e di prendere posto nel nostro vacuo sacco.
Vita, stile e influenze
Edward Hopper nasce il 22 luglio del 1882 a Nyack, piccola cittadina borghese sul fiume Hudson, da una famiglia modesta, che ne incoraggia le doti artistiche, favorendo una carriera come disegnatore e pubblicitario.
Nel 1907 compie un viaggio a Parigi, dove scopre l’Impressionismo, che influenzerà le sue pennellate veloci, la sua predilezione per scene d’interni, il taglio fotografico delle sue composizioni e il ruolo portante che la luce avrà nei suoi dipinti. Nella capitale artistica del momento, Hopper ammira le opere di Manet, Cézanne, Degas, Goya, El Greco e Velázquez senza lasciarsi coinvolgere dal fermento avanguardistico che all’epoca sconquassava le pacate vie di Montmartre.
Non a caso, già alcuni degli artisti fin-de-siècle avevano saputo trasmettere le idee di solitudine e pensosità, specie nei soggetti femminili, come vediamo negli esempi qui sopra, oltre che nelle splendide serie pittoriche di Degas sulle prostitute di Montmartre (sempre rappresentate di spalle e nelle loro azioni quotidiane) e lo sguardo desolato della bevitrice nel suo L’assenzio.
Rielaborando la lezione dei maestri europei del passato più recente, Hopper comincia a creare quel suo particolarissimo stile che, però, non subito ha successo in patria. Nei primi anni Dieci si stabilisce a New York, dove apre il suo studio: pur riuscendo a vendere qualche quadro, deve sostenersi anche tramite l’attività di illustratore pubblicitario.
Nel 1924 sposa l’artista Josephine Nivison, che diverrà la modella per tutti i suoi personaggi femminili e, sempre nello stesso anno, alcuni suoi acquerelli vengono esposti a Gloucester, nella galleria del pittore Frank Rehn, regalandogli finalmente il tanto agognato successo. La relazione burrascosa con la moglie, caratterialmente opposta a lui, lo sviluppo post-bellico dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta, l’alienazione dell’uomo rispetto alla vita metropolitana e la sua fondamentale solitudine di fronte alla società del boom, più interessata alla scalata socio-economica che alla profondità delle relazioni umane, sono tutti temi che ritornano ossessivamente nelle sue tele.
Edward Hopper muore il 15 maggio del 1967 nel suo studio a New York, seguito, dieci mesi dopo, dalla moglie. L’ultima sua tela (del 1965) è Due attori, un vero e proprio addio alle scene.
L’artista è generalmente considerato il primo e maggiore autore del Realismo americano, in contatto con molte correnti artistiche anche translatlantiche, dal Novembergruppe della Germania di Weimar agli esperimenti zdanovisti sovietici, dal Realismo epico messicano alla Nuova Oggettività e alle sue declinazioni europee. Se nel XIX secolo il Realismo era stato un movimento dalla forte matrice sociale e socialista, il secolo breve impone un “ritorno all’ordine”, che espande la definizione di realtà, per includere anche esiti formali sorprendenti.
In particolare, il Realismo statunitense riscopre le radici culturali nazionali, ponendosi come alternativa alle Avanguardie europee.
Se la tavolozza mai tetra e la luce limpida e fredda possono ricordare De Chirico, Hopper resterà sempre fedele ad una visione smaliziata e fotografica della sua contemporaneità, riuscendo a dare allo spettatore quella sensazione di “vedere il silenzio” che sempre permea i suoi spazi e le coscienze dei suoi sparuti personaggi. È proprio il silenzio a permetterci di vedere la realtà per quello che è, sfrondata di ogni distrazione. Davanti ai nostri occhi solo l’essenziale.
Il pittore Charles Burchfield, in una delle prime analisi di Hopper, pubblicata sul giornale Art News, definì quella dei suoi quadri una ‘dimensione dell’ascolto’. «Hopper ha saputo cogliere un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all’attimo un significato eterno, universale». Le sue scene, appiattite dalla luce uniforme e dall’insistenza su una composizione orizzontale, riescono sempre a risultare sospese, in attesa di qualcosa che le faccia uscire dall’assurdità della loro routine, che rimetta in moto il tempo dinamico e vitale.
Il taglio che Hopper dà alle sue opere è al limite del voyeuristico: i personaggi che osserviamo sono sempre assorti nella loro solitudine, e noi ci sentiamo un po’ sporchi nell’affacciarci sulle loro vite. Non è un caso che il cinema abbia sempre avuto un amore profondo per l’artista americano, a partire da Alfred Hitchcock, che vi si ispirò per La finestra sul cortile e Psyco, come anche Dario Argento, David Lynch e Ridley Scott, che hanno colto la dimensione anche un po’ inquietante di questa opprimente quiete.
Il nostro presente hopperiano
Lui stesso affermò: «Renoir diceva che il più importante elemento in pittura non può essere definito… e forse è meglio». In effetti, nei suoi dipinti c’è sempre un qualcosa di indefinito, di non-detto, che squarcia il velo su un’America così concentrata sul proprio sogno da non accorgersi di star perdendo la sua linfa vitale: una nazione che, quando pensa che nessuno la stia guardando, si lascia andare ad una malinconia per qualcosa di perduto (o forse di mai avuto).
Nel suo indagare la solitudine dell’uomo moderno, Hopper risulta un artista col quale riusciamo incredibilmente ad empatizzare, soprattutto in questi mesi sospesi: quale più grande solitudine di quella che stiamo vivendo noi in questo periodo? La donna rappresentata in Stanza d’albergo, qui sotto, salvo per l’acconciatura flapper, potrebbe essere una qualsiasi di noi. Seduta sul letto e vestita solo del suo intimo, legge un libro, ma sembra che cerchi di passare il tempo, o che sia in attesa di qualche notizia che, però, possiamo immaginare solo come funesta.
Il suo stesso linguaggio del corpo ne indica una profonda tristezza: la schiena curva e molle, il libro abbandonato sulle ginocchia, che sembra quasi in procinto di scivolarle dalle mani. Ai piedi del letto, valigie ancora chiuse ed un foulard abbandonato sulla sedia, inutilizzato da chissà quanto tempo. L’unico contatto con l’esterno, la finestra, sembra murato, come se il mondo fuori da quella stanza fosse completamente estraneo, come se la stanza stessa esistesse nella sua personale, isolata dimensione.
Per noi, la solitudine interiore che caratterizza l’occidentale moderno (o, forse, tutti gli uomini in tutte le epoche) si è esteriorizzata in un isolamento forzato, imposto da una minaccia spaventosa perché incontrollabile, a differenza di tutto il resto del mondo che ci circonda. Ci siamo ritrovati impotenti, lontani dai nostri cari, estirpati dalla nostra quotidianità, proiettati in un nuovo mondo fatto di mascherine, allarmismo, regole ambigue, contraddizioni; obbligati ad affrontare l’assurdità della contingenza senza poter difenderci con un «Non ora, siamo occupati». In una parola, soli. Completamente soli.
La prima reazione è stata la noia. Cosa fare delle nostre giornate, ora che non dobbiamo più correre per prendere l’autobus e passare otto ore delle nostre giornate sui banchi di scuola? Allora ci siamo detti: «siamo fortunati, viviamo nell’era tecnologica; abbiamo Netflix, Amazon, WhatsApp. Forse possiamo goderci un po’ di relax ed allo stesso tempo mantenere una parvenza di normalità, magari con un bell’aperitivo su Skype con gli amici». Ma, ben presto, ci siamo accorti che la tecnologia, forse, ci allontana ancora di più dai rapporti umani di cui ci aveva illusi di essere un surrogato. Ci siamo ritrovati a rimpiangere le piccole cose: il calore di un abbraccio, il tepore di un sorriso, la consuetudine di una stretta di mano tra colleghi.
Il virus ci ha chiusi a chiave in una torre che sì, sarà anche d’avorio, ma ci lascia con la peggiore compagnia possibile (noi stessi), a riflettere sui nostri limiti e sulle nostre tracotanze. Abbiamo scoperto che non solo non siamo invincibili come credevamo, ma addirittura siamo causa del nostro stesso male. Ed intanto aspettiamo, come la donna di Stanza d’albergo: ma le uniche notizie che ci arrivano da fuori sono notizie di morte, nuovi contagi, collasso economico e sanitario e tanta, tanta rabbia sociale.
Scrissi la prima versione di questa riflessione più di un anno fa, a metà marzo, quando sembrava che il confinamento nazionale fosse stato efficace e che presto saremmo tornati alla nostra vita pre-pandemica. Era marzo, stava arrivando la primavera, mi stavo preparando per l’esame di Stato e, nella mia immaginazione, la fine del liceo e la fine dell’emergenza sanitaria avrebbero più o meno coinciso. Certo, c’era l’amarezza di non aver potuto vivere quei momenti da “fine ciclo di studi” a cui tutti guardiamo con nostalgia e che sono importanti per processare l’addio ad una fase della nostra vita, però, tutto sommato, guardavo all’autunno con ottimismo, contenta di avere degli obiettivi da perseguire.
Lo devo ammettere, ora che sto preparando questa seconda versione dell’articolo, oggi, 15 maggio 2021, è molto più difficile essere ottimista. Un po’ perché non ho più nessun grande progetto verso cui proiettare le mie energie e le mie aspettative, un po’ perché comincio a rendermi conto degli effetti che un anno di restrizioni ed incertezze hanno avuto su di me e sulla mia psiche, un po’ perché il costante apri-chiudi degli ultimi mesi mi ha lasciata diffidente nei confronti delle zone gialle troppo prolungate. Ho quasi pensato di cambiare il quadro con cui concludere questo mio sproloquio su un artista che tanto amo e magari proporvi I nottambuli, indubbiamente il più famoso. Ma, citando le parole (sacrosante) di una canzone di Neffa che mi sono ritrovata ad ascoltare spesso in questo ultimo anno: «Anna non essere triste/Presto il sole sorgerà/Di questi tempi si vende/Qualsiasi cosa anche la verità/Ma non sarà così sempre/Perché tutto cambierà».
Perciò, ho deciso di concludere con la stessa opera di Hopper dell’articolo originale. È un’opera che trovo diversa da tutte le altre, benché ad un primo sguardo presenti tutti gli elementi cari al pittore: la luce chiara, le linee semplici e nette, l’ambientazione urbana ed interna, l’assordante silenzio ed un solo, isolato protagonista, in questo caso una donna seduta sul letto che si porta le ginocchia al petto. Il dipinto in questione è naturalmente Sole di Mattina e trovo che la differenza principale, rispetto alle altre scene di Hopper, sia la luce, che qui è molto più calda che in Stanza d’Albergo e arriva dall’esterno. La donna del quadro (la nostra Anna!), inoltre, sta guardando proprio fuori dalla finestra, da cui questa volta riusciamo a vedere lo scorcio di una città. Vorrei interpretare come un piccolo segno di speranza questa luce solare, che inonda il viso della donna: se possiamo imparare una lezione dalla pandemia, è che non possiamo controllare tutto nella nostra vita. Ad un certo punto, una volta che ci siamo chiusi in tutte le nostre contemplazioni e rimuginazioni, bisogna accettare quello che ci capita. Se farlo con rinnovata energia o lasciandosi andare alla malinconia, tocca a noi deciderlo.
di Valentina Oger
Nata a Bologna, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66.
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