«Considerati com’è possibile in questo momento, appena di sfuggita, gli occhi dell’uomo sembrano sani, l’iride si presenta nitida, luminosa, la sclera bianca, compatta come porcellana. Ma le palpebre spalancate, la pelle raggrinzita del viso, le sopracciglia improvvisamente ribelli, il tutto, chiunque può verificarlo, è sconvolto dall’angoscia.»
– J. Saramago, Cecità, Feltrinelli 2013, trad. di Rita Desti
Cecità si apre con un incidente insolito, che scatena immediatamente l’intera vicenda. D’un tratto, un automobilista fermo a un semaforo si accorge di essere diventato cieco. Lento ma inesorabile, questo malessere si fa strada tra la gente di questa città senza nome (e che rimarrà innominata per tutto il romanzo), fino a diventare una vera epidemia di cecità fulminante. L’assurdità in tutto ciò è veicolata anche dal modo in cui si presenta tale malattia: basta essere entrati in contatto anche per pochi secondi con un infetto e la si contrae dopo pochissimo. Soprattutto, è una cecità bianca. Si sbattono le palpebre e da un momento all’altro non si vede più niente, solo biancore a non finire.
L’idea di un male invisibile e iper-contagioso è dolorosamente familiare a tutti noi che abbiamo vissuto il primo scoppio del Covid e il primo lockdown, in attesa di misure alternative. Ho preso in mano Cecità per la prima volta ad Aprile 2021 e mio padre ha voluto ammonirmi: “Non è una lettura facile in questo periodo, io l’anno scorso l’ho dovuto mettere giù perché non riuscivo ad andare avanti”.
Leggendolo, mi sono resa conto di cosa intendesse: oltre a trattare argomenti sensibili, come lo stupro, l’omicidio a sangue freddo e la violenza, è proprio l’atmosfera creata da Saramago ad impregnare la mente, come una spugna pesante sulla fronte del lettore. L’autore non rende la lettura semplice: il testo è un blocco quasi unico sulla pagina, con rare divisioni fra i paragrafi. I segni grafici che distinguono i dialoghi dal resto della narrazione sono assenti, e bisogna arrancare con pazienza dietro ai lunghissimi periodi e imparare a distinguere le voci degli altri personaggi, separate dalla battuta precedente soltanto da una virgola alla quale segue una parola che inizia con la lettera maiuscola. Come se non bastasse, Saramago evita di dare nomi propri ai suoi personaggi, i quali sono invece identificati tramite espressioni impersonali, come “la moglie del medico”, “il primo cieco”, “il vecchio con la benda” e così via. Nonostante tutto questo, succede l’incredibile: la lettura scorre spedita e non si riesce a staccare gli occhi dal testo. Non so come sia possibile, ma anche solo per questo paradosso posso dire che Saramago si sia meritato il Nobel per la letteratura.
Il tema della cecità è legato a quello dell’indifferenza, che è portata fino all’esasperazione dal dilagare dell’epidemia; è chiaro, però, che fosse già presente prima degli avvenimenti del racconto. Saramago usa il pretesto della cecità per riflettere sull’uomo e sui rapporti di forza e sopraffazione dei più forti sui deboli, ed accentua, grazie alla cornice dell’emergenza sanitaria e dell’internamento, i diversi caratteri dei neo-ciechi, che si trovano isolati insieme nello stesso edificio, in una quarantena che sembra non finire mai. L’isolamento è stato un’idea del governo, che si è trovato improvvisamente in difficoltà nella gestione del numero in aumento degli infetti. Suona familiare?
Questo romanzo dice sempre la verità, senza edulcorarla. Non risparmia il male, ma non omette nemmeno i pochi gesti di vera umanità e le occasioni di riscatto, che pure fanno parte della vita. Non mancano le figure positive, come la moglie del medico: senza fare anticipazioni, vi dico solo che lei ha una marcia in più. Nella vita però c’é anche il negativo , e un altro tema che si fa strada è quello dell’insensatezza delle calamità. La cecità colpisce i buoni e i cattivi, giunge inaspettatamente, e non si riescono a identificare le condizioni affinché non si venga contagiati. Non risparmia ladri bambini stupratori vecchi donne. È il male che è cieco e ingiusto.
di Vittoria Tosatto
Nata a Vimercate nel 2001 e cresciuta nei meandri della Brianza, frequento il corso di Lingue, Comunicazione e Media all’Università Cattolica di Milano, e ancora mi chiedo perchè ho scelto la vita da pendolare. Le mie “guilty pleasures” sono i musical, le aste e i libri che finiscono male. Assieme a Alessandro Orlandi gestisco la sezione di scrittura articoli, e spesso mi troverete a scrivere pezzi su letteratura, donne sconosciute della storia, e la cultura pop.