Quel “diavolo in gonnella” di Alfonsina Morini Strada
Agli inizi del Novecento, il ciclismo era considerato uno sport esclusivamente da uomini. Il “gentil sesso” non era adatto a tale gara di resistenza, dicevano. Perciò, quando nel 1924 Alfonsina Morini si presentò al Giro d’Italia in mezzo alla concorrenza maschile, suscitò grandissimo stupore: nessuno si aspettava che il concorrente registrato come “Alfonsin” fosse in realtà una donna. Già prima del Giro, però, Alfonsina aveva dovuto fare molta strada per arrivare a quel punto.
Alfonsina Morini nacque, seconda di dieci figli, in una famiglia umile di Castelfranco Emilia, nel Modenese. Di padre contadino e madre balia, i Morini erano talmente poveri da non potersi permettere nemmeno un giocattolo per i loro bambini. Finché, un fatidico giorno, il padre tornò a casa dal mercato con una bicicletta, che le fonti definiscono “al limite della rottamazione”. Alfonsina e la bici divennero inseparabili: a soli quattordici anni aveva già trovato il modo di partecipare a diverse gare di paese, nascondendolo ai suoi genitori, ai quali diceva di andare alla Messa domenicale. Appena sedicenne si recò a Torino, dove era stata fondata l’Unione velocipedistica italiana e dove le donne potevano praticare ciclismo liberamente. È nell’ambiente della città piemontese che iniziò a porre le basi della futura carriera: riuscì a sconfiggere la nota collega Giuseppina Carignano e, forte del titolo di miglior ciclista italiana, dopo aver segnato il record mondiale di velocità in una gara femminile, si recò in Russia, a San Pietroburgo, dove venne premiata dallo Zar Nicola II.
Nonostante i continui successi, i suoi genitori non vedevano di buon occhio la passione della figlia. Erano convinti che se lei avesse preso marito, avrebbe dovuto mettere la testa a posto per pensare al suo ruolo di casalinga. Invece il matrimonio con Luigi Strada, meccanico milanese, capovolse le aspettative dei Morini: come regalo di nozze Alfonsina ricevette una nuova bicicletta, e il marito diventò anche il suo primo manager. Strada diventerà il cognome di Alfonsina, che, ironicamente, le calzava a pennello: la sua essenza era pedalare, tanto da ottenere il soprannome “diavolo in gonnella” (all’epoca la passione di una donna per la bicicletta era ritenuta una manifestazione del diavolo).
I due novelli sposi si trasferirono a Milano, dove iniziarono gli allenamenti sulla nuova bici da corsa. Nel 1924 Luigi venne ricoverato al manicomio di San Colombano al Lambro, da cui non uscirà più fino alla morte dopo venti anni di malattia; dovendo mantenere la famiglia e non essendo sufficiente la paga di 6 £ al giorno guadagnate con il lavoro da sarta, Alfonsina decise di iscriversi alla più importante gara ciclistica nazionale: il Giro d’Italia. All’epoca una donna non poteva partecipare a una corsa ciclistica prettamente maschile, ma Alfonsina non era tipo da arrendersi. Così quell’anno si presentò alla sede centrale della Gazzetta dello Sport e chiese di parlare con Armando Cougnet, uno degli organizzatori della gara. Inizialmente Cougnet rifiutò la sua richiesta, ma nessun regolamento le impediva di partecipare, per cui decise di chiudere un occhio. Morini fu registrata con il nome di Alfonsin Strada, e solo alla partenza tutti si accorsero che era una donna. Per la prima volta in Italia una donna correva in una importante competizione maschile. Nel giro di pochi giorni divenne la beniamina del pubblico e la vera attrazione del Giro d’Italia, tanto che la cronaca sportiva diceva di lei:
«In sole due tappe la popolarità di questa donnina si è fatta più grande di quella di tutti i campioni assenti messi insieme. Lungo tutto il percorso della Genova-Firenze non si è sentito che chiedere: – C’è Alfonsina? Viene? Passa? Arriva? A mortificazione dei valorosi che si contendono la vittoria finale, è proprio così. È inutile, tira più un capello di donna che cento pedalate di Girardengo e di Brunero. […] D’altronde a quale scopo, per quale vanità sforzarsi d’arrivare un paio d’ore prima? Alfonsina non contende la palma a nessuno, vuole solo dimostrare che anche il sesso debole può compiere quello che compie il sesso forte. Che sia un’avanguardista del femminismo che dà prova della sua capacità di reclamare più forte il diritto al voto amministrativo e politico?»
(Silvio Zambaldi, La Gazzetta dello Sport, 14 maggio 1924)
Il tracciato del Giro 1924 attraversava la penisola per 3613 km, con dodici tappe intervallate da undici giorni di riposo. Partendo da Milano, Alfonsina percorse regolarmente le prime quattro tappe del Giro. Anche se ormai si trovava a più di due ore di ritardo rispetto al primo in classifica, veniva sempre accolta in trionfo. Inoltre, durante l’ottava tappa, L’Aquila-Perugia, il tempo era peggiorato radicalmente. Per colpa della pioggia, Alfonsina cadde ripetutamente, e in uno di questi incidenti le si ruppe il manubrio. Riuscì a ripararlo come poteva con un manico di scopa e dello spago, e questa soluzione la fece comunque arrivare al traguardo di Perugia fuori tempo massimo, quattro ore dopo il vincitore. Inizialmente alcuni membri della giuria non volevano estrometterla dalla corsa, considerando tutto il tempo perso tra forature e cadute, ma alla fine si optò per una soluzione di compromesso: la ciclista poteva prendere comunque parte alle restanti tappe, ma i suoi tempi non sarebbero stati conteggiati. Alfonsina venne dunque esclusa dalla classifica del Giro. Probabilmente la decisione fu influenzata dal clima maschilista dell’epoca, in cui mal si tollerava che una donna sfidasse apertamente gli uomini e riuscisse addirittura a batterne alcuni:
«Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono… un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa 10 lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato 500 lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene.»
(Alfonsina Strada, intervista al Guerin Sportivo.)
Dopo l’edizione del 1924, gli organizzatori del Giro d’Italia negarono l’iscrizione ad Alfonsina, la quale tuttavia percorse ugualmente le tappe della gara, conquistandosi l’amicizia e l’ammirazione di giornalisti e di colleghi ciclisti, come Costante Girardengo. Corse in molte altre competizioni di diversi altri Paesi e vinse per ben trentasei volte contro colleghi maschi. Nel 1938 conquistò, all’ippodromo di Longchamp di Parigi, il record femminile dell’ora, con 35,28 km percorsi in 60 min.
Rimasta vedova di Luigi Strada, si risposò a Milano nel 1950 con Carlo Messori, ex ciclista, con il quale aprì un negozio di biciclette con annessa officina per la riparazione. Ogni giorno si recava al lavoro con la sua vecchia bicicletta da corsa, finché non fu troppo stanca per pedalare, e allora comprò una moto, la sua fidata Guzzi 500. Restò nel mondo del ciclismo fino al suo ultimo giorno di vita, il 13 settembre 1959: mentre assisteva alla gara delle Tre Valli Varesine, a seguito di un malore, morì di infarto mentre riavviava la sua moto dopo essere tornata a casa.
Oltre alla motivazione economica che la spingeva ad aiutare il marito, Alfonsina corse al Giro del 1924 per una ragione ben più profonda rispetto a quella sportiva. Credeva fortemente in un ideale da “bastian contraria”, era parte della sua mentalità: già quando sfuggiva (metaforicamente e letteralmente) alle imposizioni dei genitori, lo faceva per contrastare le costrizioni della società, quelle che l’avevano obbligata a partecipare alla gara sotto falso nome. Ma era proprio la sua diversità a dimostrare il suo vero valore e la sua testardaggine a portarla dove poi è arrivata. Per questo, vi incito ad essere sempre donne testarde, e a pedalare sempre, nonostante le intemperie e gli ostacoli.
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