Veganwashing
Buongiorno e casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte.
The Truman Show (id., 1998, Peter Weir).
Il corso di sociologia generale che ho seguito il primo anno di università mi ha permesso di entrare in contatto con la pubblicazione Il veganismo tra mainstream e controcultura di Nicola Righetti, Dottore di ricerca in sociologia e ricerca sociale presso l’Università degli Studi di Verona.
Il progetto sociologico in questione mi ha colpito moltissimo e tuttora lo porto con me come parte significativa del mio bagaglio culturale. Accanto alla scrittura chiara e pulita di Righetti, ciò che in particolar modo mi ha affascinata è stata la prospettiva da cui il ricercatore ha esaminato il tema del veganismo. La sua è infatti una messa in luce particolare e interessante, che ci invita a essere più critici verso quello che vediamo, leggiamo e sentiamo. Perché, come ben sappiamo, non è tutto oro ciò che luccica, ed è bene distinguere tra l’ingresso nel mainstream e l’accettazione culturale.
La domanda da cui dobbiamo partire è: secondo la nostra percezione, negli ultimi anni, il veganismo è stato maggiormente accettato dal mainstream? Contrariamente al mio solito, questa volta vorrei partire proprio dalla tesi proposta dell’autore, che nella sua ricerca sociologica non è che la conclusione:
Il mercato reinterpreta il veganismo alla luce dei valori e delle necessità del consumatore mainstream, marginalizzando allo stesso tempo i suoi ideali animalisti controcorrente e inibendo indirettamente la loro promozione.
Nicola Righetti, Il veganismo tra mainstream e controcultura, in Micro e Macro Marketing 1/2018, pag. 109. Originale in lingua inglese.
A volte rischiamo di fare la fine di Truman Burbank, e cioè di non riuscire a vedere oltre il nostro mondo, oltre ciò che quotidianamente ci circonda. Andiamo a fare la spesa, entriamo in un supermercato e vediamo una zona separata e ben distinta: si tratta degli scaffali dedicati ai prodotti vegani. Bistecche di soia, tofu, quinoa, bresaola vegetale. C’è chi pensa: ma di che diavolo stiamo parlando. E chi invece la bresaola vegetale la mangia veramente. Ad ogni modo, ognuno è indotto a pensare: il mercato sta diventando sempre più accogliente nei confronti dei vegani, ora pensa anche alle loro esigenze. Tutto molto bello, se non fosse che di “veg” quei prodotti hanno ben poco.
Ci avete mai fatto caso, provoca Righetti, al fatto che i prodotti vegani hanno sempre e solo un packaging verde? Magari qualche foglia, un ciuffo d’erba. I loghi dei marchi vegan non concepiscono altri colori e non usano mai soggetti che non rimandino al mondo naturale. Ma crediamo davvero che il veganismo possa essere identificato attraverso questi claim? Il mainstream, di cui il mercato dei beni alimentari fa parte, lo ha preso e l’ha portato sotto l’ambito-ombrello del benessere, della natura, del mangiare “light”. Insomma, valori più mainstream che, sebbene siano utilizzati anche nella comunicazione delle associazioni vegan, non sono pienamente congruenti con la loro motivazione animalista.

Questo è ciò che Righetti chiama meccanismo di integrazione mediante risignificazione: il veganismo, per essere integrato commercialmente, subisce una risignificazione. Gli alimenti vegani sono integrati nel sistema dei prodotti della grande distribuzione organizzata attraverso il filtro della consolidata offerta Bio, naturalistica e salutista. Il riferimento all’etica animalista non spicca affatto, anzi appare sistematicamente assente. Un prodotto vegano che sia stato culturalmente integrato presenterebbe claim, packaging e campagne pubblicitarie ben diverse. E invece, guarda caso, non c’è alcun riferimento all’anima animalista del veganismo, che pure è il senso della sua esistenza. Il problema è proprio questo.
Come mette in evidenza Righetti, l’integrazione commerciale della dieta vegana non è altro che un’integrazione di facciata, che consapevolmente ha scelto di includere solamente la sua componente alimentare, come dimostrano la pluralizzazione dei menù e le numerose alternative proposte dal mercato. E lasciare invece fuori la vera anima del movimento, ossia le sue componenti etiche e politiche. Non è stato integrato il veganismo, che protegge gli animali, ma l’individuo vegano che sceglie di non mangiarli. Il che è ben diverso.
Questo nascondimento dell’anima animalista del veganismo contribuisce al processo di disinnesco della sua carica sovversiva. La scelta individuale di essere vegani è accettata e sfruttata dal mercato, mentre quella politico-ideologica, che è essenzialmente contro-culturale, viene marginalizzata. Il veganismo è quindi allo stesso tempo integrato e neutralizzato nella sua carica politica e ideale, ridotto a scelta privata piuttosto che etica. Si costituisce quindi come una forma moralmente diluita, spogliata della sua identità e carica critica, ideale, politica (di matrice animalista).
[…] il mercato ne produca una simile forma, sostanzialmente spogliata della sua identità e della sua carica critica, ideale e politica, di matrice animalista. Il veganismo troverebbe allora posto nel mainstream soltanto come una scelta individuale di consumo accanto alle altre.
Nicola Righetti, Il veganismo tra mainstream e controcultura, in Micro e Macro Marketing 1/2018, pag. 117.
L’ingresso del veganismo nel processo della moda, così, se da un lato ne favorisce la diffusione, obiettivo desiderato dagli stessi appartenenti al movimento, allo stesso tempo rischia di produrre alterazioni nella sua rappresentazione sociale ad opera degli agenti del mercato, alterazioni indirettamente determinate dal fatto che questi ultimi perseguono obiettivi diversi da quelli del movimento vegan.
Il tutto si riconduce, quindi, a una scelta di puro marketing. Il mercato cerca di avvicinarsi ai valori dei consumatori, tendendo, qualora possibile, alla creazione di cluster di offerta tali da poter massimizzare il profitto, rivolgendosi al gruppo di acquirenti il più ampio possibile.
I prodotti vegan-friendly commercializzati nella grande distribuzione non sembrano, in effetti, mirati esclusivamente ad un target vegano-animalista, ma ad un più ampio target di consumatori che non ha necessariamente motivazioni animaliste e che, anzi, forse nemmeno le approva.
Nicola Righetti, Il veganismo tra mainstream e controcultura, in Micro e Macro Marketing 1/2018, pag. 122
E lo dimostra il fatto che i prodotti veg, nei supermercati, siano praticamente sempre collocati accanto a quelli «senza» (senza lattosio, senza glutine ecc.) o biologici. Questo, ancora una volta, segnala il frame entro cui il veganismo è inserito, ossia come dieta salutista, piuttosto che come pratica animalista.
Questo spiegherebbe i dati rilevati da Righetti attraverso un questionario online a carattere esplorativo. Il fatto che ci siano molti non vegani che acquistano prodotti veg è indice del fatto che questi prodotti possono essere significati diversamente da ciascun consumatore: vegetariano, salutare, biologico, senza lattosio, eccetera.
Eppure, se aprissimo la porta che porta a Christof, il creatore del Truman Show, noteremmo chiaramente come, nonostante oggi si assista alla diffusione di un veganismo prevalentemente basato su valori niente affatto contrapposti alla cultura dominante – come quelli salutisti e, in minor misura, quelli ambientalisti – esso sia un movimento originariamente controculturale. Infatti, è caratterizzato da valori morali che sfidano la comune concezione secondo cui l’uomo ha il diritto di disporre degli animali per i suoi scopi alimentari e non alimentari, ed è mosso da obiettivi politici che mirano a rivoluzionare, annullandoli, i rapporti di dominazione e sfruttamento fatti valere dagli uomini sugli animali.
Nonostante le controculture nascano in sfida alla cultura dominante, quando il mainstream le incorpora esse conoscono una diffusione che difficilmente potrebbero raggiungere altrimenti, ma allo stesso tempo perdono parte della loro forza antagonista. I mass media ne ridefiniscono il significato all’interno dei frame dominanti, e il mercato di massa si appropria dei loro simboli. Così, la critica inizialmente sferrata al sistema viene, almeno in parte, metabolizzata e neutralizzata dal sistema stesso. L’animale diventa una foglia. La diffusione del veganismo nei mercati di massa rischia così di essere entusiasticamente interpretata da taluni come il segno di una sempre più vicina vittoria dei diritti degli animali sull’industria della carne. Ma, secondo Righetti, questo non sarebbe altro che wishful thinking, o quantomeno una conclusione prematura. La diffusione del veganismo nel mainstream può essere più plausibilmente interpretata come indicatore del suo ingresso nel meccanismo della moda, che ne consente la diffusione grazie al potere dei mezzi di comunicazione ed economici dominanti, ma al prezzo di vedere disinnescato, almeno in parte, il suo potenziale «sovversivo» – in questo caso rappresentato dalla componente animalista – e di vedere alterato il suo significato originario, riadattato ai gusti del mercato di massa per trarne il maggiore profitto possibile.
L’indagine di Righetti deve obbligatoriamente farci riflettere. Il veganismo è solo uno dei tanti fenomeni sociali che possono essere indagati da questa prospettiva; lo stesso ragionamento, per esempio, si può applicare alla moda di tatuarsi o all’imperante sentimento “pride” e a tutto ciò che ne consegue (come il reclamo di desinenze più inclusive, l’hashtag della Ferragni #LoveFiercely e le Converse arcobaleno).
Quando apriamo la porta del mainstream, entriamo nel mondo di Truman. Il che non significa che, obbligatoriamente, ciò che vi è all’interno sia sbagliato o condannabile. In fondo Laura Linney era carina. Il punto è che il mondo di Truman è la creazione di qualcuno, qualcuno che ha avuto il potere di metterci di fronte a uno show. E uno show non è mai la realtà.
di Marta Gatti
Note
- Questi dati sono risultati da osservazioni libere condotte da Righetti sui prodotti vegan nei punti vendita della grande distribuzione organizzata in zona Verona e provincia.