Per un pollo
Attenzione: in questo articolo si parlerà di disturbi del comportamento alimentare (DCA). Se hai bisogno di sostegno o conosci qualcuno che pensi possa aver bisogno, puoi contattare il Numero Verde SOS Disturbi Alimentari - 800 180969, attivo 24 ore su 24 dal lunedì al venerdì. Per maggiori informazioni visita il sito del Ministero della Salute: Disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.
Il salone di casa mia è occupato da un grande tavolo nero. Capita spesso che su di esso si accumuli uno strato di polvere.
Avevo 17 anni, ero alta un metro e settantotto centimetri e pesavo quarantasei chili.
Quel pomeriggio mia madre aveva trovato i tortellini che avrei dovuto mangiare per pranzo nel cestino di camera mia. Non era la prima volta che buttavo del cibo quando ero sola a mangiare e lei non poteva controllarmi. Di solito, però, lo impacchettavo e lo buttavo nei cestini per strada, cosicché non avrebbe potuto trovarlo. Era stata l’ennesima sfuriata e io ero distrutta, fisicamente e mentalmente: me ne ero andata di casa senza dire niente a nessuno, non avevo nemmeno portato dietro il telefono. Non essendo esperta in fughe da casa, scelsi di andare nel posto che preferisco quando mi sento giù: la Feltrinelli. Dopo tre ore a sfogliare libri e confrontare vinili, decisi che era passato abbastanza tempo e tornai indietro con il disco The cry of love di Jimi Hendrix. Non dimenticherò mai il mio rientro: mia madre aveva le lacrime agli occhi, un misto di rabbia, sconsolatezza e delusione, anche mia sorella piangeva nel vedermi così. Ma fu il compagno di mia madre a salvarmi e non lo ringrazierò mai abbastanza. Usò lo strato di polvere accumulatosi sul tavolo per disegnare un pollo e mi disse che era quello di cui avevo bisogno, avevo bisogno di nutrimento. Ero arrivata a un limite che non potevo oltrepassare, e quel disegno era esattamente ciò di cui avevo bisogno, un simbolo del mio cambiamento nella sua semplicità e concretezza. Piansi tutta la sera, chiusa in camera, con Jimi Hendrix al massimo volume sul giradischi. Ricordo come mi guardai allo specchio, cercando di capire come ero finita in quella situazione. Chiudevo il mio bicipite tra pollice e indice per vedere se fosse abbastanza piccolo da entrare in quel cerchio sottile, e lo era anche di più (è uno di quei gesti che penso non spariranno mai, come il tastarsi le anche per sentire se sporgono).
Scrissi sul mio diario queste parole: “…posso cambiare città, paese, continente? Posso essere un’altra persona? Quand’è che ci rendiamo conto che ne abbiamo abbastanza? Che quello che ci è successo è semplicemente troppo? Ma si può? Quando uno dice ‘cambio’, è veramente libero di farlo?”.
Cambiai.
Il mio DCA (disturbo del comportamento alimentare) mi ha portata a pensare di voler morire, pur di non vivere nel mio corpo. Mi ha portata a odiare me stessa per prima e poi la mia famiglia, i miei amici e tutti coloro che pensavano di potersi permettere di giudicare il mio corpo. Mi portava ad allenarmi più volte al giorno tutti i giorni: a volte per ottimizzare i tempi tenevo i libri di scuola aperti mentre rimanevo in plank.
Correvo fino a che non sentivo più le gambe e alternavo poi docce gelide a bagni bollenti. Mi pesavo almeno tre volte al giorno facendo accuratamente attenzione al fatto che nessuno della mia famiglia se ne accorgesse. Cercavo compulsivamente su Google quale fosse il mio normopeso in rapporto alla mia altezza e quanti chili avrei dovuto perdere per raggiungere il massimo di sottopeso. Cercavo anche quante calorie bruciasse qualsiasi attività svolta durante il giorno, dal camminare al lavarmi i denti e controllavo se fossero superiori a quelle del poco cibo mangiato.
Mi guardavo allo specchio e pensavo di non essere mai abbastanza magra, di non avere gli addominali abbastanza pronunciati, che lo spazio tra le mie cosce non fosse sufficientemente ampio. Perdevo capelli costantemente e non mi sono più ricresciuti come prima. Anni di amenorrea.
Mangiavo solo pere, kiwi e Pavesini per settimane, per poi abbuffarmi con tutto il cibo che trovavo in cucina. I giorni in cui mi strafogavo erano devastanti, perché durante i successivi non avrei più potuto mangiare nulla per i sensi di colpa.
Mentivo spesso ai miei genitori dicendo che sarei uscita a cena con le mie amiche, mentre il più delle volte le raggiungevo più tardi. A loro dicevo l’opposto.
Mentivo: sempre, su tutto quello che riguardava il cibo e l’allenamento. Dicevo che sarei uscita con le mie amiche e invece passavo ore in palestra.
Tutto questo mi portava ad essere sempre stanca, dormivo diverse ore al pomeriggio per poi passare le notti in bianco a pensare a che cosa avrei mangiato per colazione e quali allenamenti avrei fatto. Ero estremamente irascibile, stressata, dovevo avere sotto controllo ogni singolo aspetto delle mie giornate.
Scrissi anche: “Anoressia. Non diresti mai che capiterà a te. Mai. Mi ricordo quando avevamo studiato i problemi alimentari alle medie. Quelle immagini dello scheletro che si guarda allo specchio e vede una cicciona. Ecco io sono così. Ma mi ripeto che devo farcela. Greta tu sei forte abbastanza per superare questo e altro”. Il mio DCA mi ha fatto scoprire una forza immensa, solo mia, la forza di perdonarsi e di accettarsi. Ringrazio la me del passato per aver avuto il coraggio di scrivere nero su bianco tutte le proprie debolezze, perché la consapevolezza di aver raggiunto il punto più basso è anche consapevolezza di sapere che si ha la capacità di tornare su. Soprattutto ringrazio me stessa ora, perché continuo a farlo sempre.
Mi sono chiesta innumerevoli volte che cosa mi avesse spinto a voler raggiungere i quaranta chili sulla bilancia. Raccontare del proprio disturbo alimentare è estremamente complesso perché estremamente complessi sono i fattori che lo determinano. Nel farlo, tralascerò tutti i problemi familiari che avevo dovuto sopportare in quel periodo.
La prima cosa che feci dopo il giorno del pollo disegnato fu cancellare il mio profilo Instagram. Non ne creai più uno se non due o tre anni dopo, quando sentivo di aver raggiunto un grado di consapevolezza diversa nel rapportarmi a determinati modelli. Gran parte della mia malattia infatti derivava dal voler raggiungere un certo obiettivo.
Credevo che allenandomi tutti i giorni e non mangiando sarei riuscita ad ottenere i risultati che mi avrebbero permesso di inserirmi nell’equazione “magrezza uguale felicità”, presentata come assoluta dalla società. È innegabile quanto ancora sia radicata questa ossessione per il fisco perfetto, magro ma non troppo, allenato ma non tanto da essere paragonato a quello di un uomo, pancia piatta e tette grosse, gambe sottili e sedere alto e tondo. Non se ne esce. Basta aprire un social come TikTok in cui è esploso il format “What I eat in a day”, composto da video in cui ragazze magrissime filmano le due verdurine che hanno mangiato durante la giornata. Leggere i commenti di ragazze che chiedono di sapere il conto delle calorie totali è preoccupante. Così come era stata preoccupante la challenge che prevedeva di attorcigliarsi il filo delle cuffiette attorno alla vita per misurare se fosse abbastanza stretta. Quest’anno il trend è la “Boiler summer cup”, una sfida tra ragazzi che consiste nell’approcciare la ragazza più grassa: più peso, più punti.
Essere immersi in una cultura dell’immagine che stigmatizza il grasso e adora fisici irraggiungibili è estremamente deleterio e l’incremento di adolescenti che soffrono di DCA lo dimostra, come riporta SkyTg24 in un articolo del 15 marzo 2022 (giornata dedicata alla consapevolezza dei disturbi del comportamento alimentare): “In Italia sono oltre 3 milioni le persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Problemi di peso, cibo e immagine corporea, che, se non opportunamente trattati, possono trasformarsi in disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, anoressia e bulimia sono la prima causa di morte per malattia tra i 12 e i 25 anni.”
Questo tipo di disturbo è totalizzante; uscirne richiede uno sforzo fisico e mentale immane, perché corpo e mente devono tornare ad allinearsi. Ma la capacità di reagire deriva solo da un cambiamento interiore. Io ero convinta che chi mi diceva che ero dimagrita troppo lo facesse per invidia, perché la mia magrezza era l’obiettivo che io ero riuscita a raggiungere, al contrario loro. Non potevo essere aiutata da nessun altro, eravamo io e la malattia.
Nuda davanti allo specchio misuro centimetro dopo centimetro i frammenti della mia vulnerabilità rispetto a un'immagine che altri hanno deciso perfetta. Non riconosco più me stessa ma il riflesso di un'altra, consumata e persa.