Premessa
Carnevale, nel suo spirito più puro, è un tempo che si adatta notevolmente agli intenti della nostra rivista. All’epoca della prima diffusione del Cristianesimo in Occidente, questa celebrazione era l’occasione per operare un momentaneo sfogo liberatore, un ribaltamento dei ruoli sociali: ciò che era alto veniva trascinato in basso, chi non aveva niente poteva godere della carne del padrone, alimento da sempre simbolo di ricchezza e potere sociale. Non dissimilmente, da quasi due anni L’Eclisse si propone come sguardo “altro” su una cultura canonizzata e come lume su correnti sotterranee – per dirla alla De André, “ostinate e contrarie” – alla stessa.
La tradizione di indossare una maschera o un costume deriva proprio da questa concezione medievale della festa di Carnevale, dalla possibilità di sfiatare le emozioni negative date dal duro lavoro quotidiano e dalle privazioni, scatenandosi in festeggiamenti libertini in cui ogni precetto sociale veniva meno (“ogni scherzo vale”), prima di tornare al rigore assoluto imposto dalla Quaresima.
La maschera, però, non nasce con Carnevale, né muore con la fine del Medioevo: usata già nei riti magico-religiosi delle società preistoriche (l’unica figura umana sulle pareti della grotta di Lascaux indossa una maschera da uccello), la maschera era un elemento essenziale del teatro greco, come esplorato a fondo nell’articolo di Vittoria Tosatto. La sua funzione immedesimante trattiene ancora una forza suggestiva, che ha portato artistǝ, filosofǝ e letteratǝ a continuare a pensare al suo ruolo sociale e ai suoi valori simbolici: da Pirandello a Gillian Wearing – a proposito della quale vi rimandiamo all’articolo di Greta Beluffi – in particolare il Novecento si è non solo posto la domanda di chi o che cosa si celi sotto una maschera, ma di che cosa possa rivelarci la maschera stessa di chi la porta.
Il concetto di “maschera”, quindi, ha assunto una serie di significati più o meno letterali, espandendo il suo campo semantico ben oltre il travestimento rituale o ludico. Al giorno d’oggi, la maschera porta con sé, nell’immaginario comune, l’idea della finzione, spesso dell’inganno, della tromperie più o meno malevola. Perciò, Matteo Paguri ha scelto di analizzare la sottile linea d’ombra che separa la pubblicità ingannevole dalla rielaborazione artistica, nello specifico riguardo alla differenza tra i trailer cinematografici e i corrispondenti film. È lecito mostrare in un messaggio promozionale scene che vengono poi tagliate al montaggio definitivo, o che addirittura sono state girate solo per il trailer? Allǝ nostrǝ lettorǝ l’ardua sentenza. Nel frattempo, vi auguriamo una
Buona lettura,
La Redazione