I tanti volti della maschera
Da sempre, il classico logo del teatro è una coppia di maschere, una sorridente e una triste, che rappresentano i due generi classici del teatro greco e di conseguenza la divisione primaria di ogni racconto: commedia e tragedia. In realtà, quanto spesso è effettivamente presente la maschera nella rappresentazione teatrale contemporanea? È molto più frequentemente associata al travestimento, inteso proprio come “celare”; di conseguenza, entra in scena legata alla creazione dell’equivoco come espediente narrativo che diventa motore della storia, oppure alla tradizione del carnevale e le feste folkloristiche? La maschera ha perso il suo ruolo di primo piano – pardon: di proscenio – ed è rimasta relegata alle strade, gremite di persone durante il Carnevale, o come ricordo dei tempi antichi nelle ricostruzioni contemporanee dei classici greci o romani. Com’è andata veramente?
Nel teatro greco del V secolo a.C., in realtà gli attori non sono stati i primi a indossare la maschera: era un elemento rituale proprio del coro, il primo fondamentale componente del teatro ateniese, devoto a Dioniso. L’attore la acquisirà attraverso un processo (prima truccandosi il viso, poi coprendolo di foglie per nascondere i tratti, e poi indossando le prime rudimentali maschere in lino e sughero). La progressione del mascheramento potrebbe essere indice del graduale inserimento dell’attore nell’azione tragica del coro.
Gli attori indossavano una maschera che copriva l’intero volto e che permetteva loro di interpretare più ruoli. La gestualità doveva essere essenziale: le mani non dovevano mai sovrapporsi alla maschera e un gesticolare eccessivo era visto come segno di una recitazione di poco valore. Gli attori tragici vestivano un costume solenne e privo di connotazioni storiche, che copriva tutto il corpo. Per la commedia, invece, il travestimento era grottesco: una tunica corta e imbottita e un fallo di cuoio di dimensioni esagerate appeso al collo. I tre attori indossavano maschere che caricaturavano persone note del tempo, abbinate a una recitazione più sgraziata, con toni esagerati e voce talvolta falsificata. Nel IV secolo a.C. con la commedia di Menandro, le maschere divennero grandi casse di risonanza, con lineamenti esagerati, e il costume divenne più ricco e complicato: spesso i colori identificavano l’età e il ceto sociale del personaggio, mentre i calzari erano diventati trampoli, per dare l’idea di esseri divini.
Jan Fabre, Mount Olympus Le due maschere, tragica e comica, del teatro latino. Mosaico del I secolo a.C. (Musei Capitolini)
Nel teatro romano continua la stretta connessione tra la professione dell’attore e la maschera. Secondo Tito Livio, le prime rappresentazioni drammatiche sarebbero cominciate a Roma nel 364 a.C. quando,
I primi attori furono chiamati dall’Etruria nel 364 a.C. quando, per placare gli dèi in occasione di una pestilenza, vennero chiamati dall’Etruria dei ballerini. [Livio] “Agli attori locali venne dato il nome di ‘istrioni’ […]”, histriones, un termine che deriverebbe dall’etrusco histeres. Un ulteriore legame tra le due culture è proprio la maschera: il termine phersu indica la maschera e in seguito indicherà anche l’attore. In realtà, la forma drammatica che gli etruschi esportarono a Roma fu il mimo, che non prevedeva l’uso di maschere, anzi. Dato che si fonda sull’immedesimazione e imitazione dell’oggetto rappresentato, era determinante l’individualità dell’attore, poiché ogni personalità interpretava a modo suo; di conseguenza, la nudità del viso era fondamentale per rendere l’espressività del volto. Perciò, è bene menzionare l’unica forma drammatica di questo periodo che comprendeva un uso preponderante della maschera: l’atellana. L’atellana era una forma drammatica popolare latina (il nome deriva da Atella, città crocevia di diverse etnie, tra cui quella etrusca, quindi solo di lontana “derivazione” dall’espressività histriones), caratterizzata dalla presenza di quattro tipi di personaggi fissi. Le maschere di Maccus, l’ingordo con la bocca semiaperta, Dossenus, il gobbo astuto e saccente, Bucco, grasso e sciocco e Pappus, il vecchio avaro, riportavano la rappresentazione scenica a un ambiente contadinesco. L’atellana continuerà a esistere per tutto il periodo repubblicano e anche durante l’epoca imperiale. Nel mimo, un’altra forma di intrattenimento romana molto popolare, era invece fondamentale la nudità del viso, per rendere visibile l’espressività del volto. D’altronde, l’attore di mestiere era di bassa estrazione sociale, e non aveva bisogno di nascondere la propria identità per proteggersi dall’infamia che segnava chi esercitava la sua professione.
Per molto tempo si è pensato che la maschera fosse uno strumento indispensabile, ma solo perché era usata nel teatro greco e si riteneva che il teatro latino, per importazione, avesse assunto in blocco l’intero sistema degli usi greci. Chi sostiene l’uso della maschera adduce a suo favore l’utilità dello strumento: si impiegano meno attori per molti personaggi e si semplifica il problema di far apparire in scena personaggi di identica fisionomia. Inoltre, è improbabile che i romani avessero scartato un elemento così caratteristico. Chi è contrario a questa supposizione, invece, prende esempio dalle commedie: i tempi previsti per i cambiamenti di ruolo erano almeno doppi di quelli previsti nelle commedie di Menandro, e mentre l’uso delle maschere avrebbe necessitato di tempi minori. Tutti gli studiosi però sono d’accordo nel dire che nei mimi non si utilizzavano maschere. Il costume era importante per il travestimento, frequente nelle commedie come fonte di ambiguità e ilarità. Il personaggio cambiava costume per ingannare gli altri, ma manteneva un elemento che lo rendesse riconoscibile agli spettatori; i sostenitori della maschera riconoscono proprio in quella l’elemento di riconoscimento.

Un passaggio fondamentale nella diffusione e proseguimento dell’uso della maschera in epoca medievale fu l’intervento della Chiesa. Il cattolicesimo condannava le maschere, in quanto deformavano l’immagine del soggetto: indossando un travestimento, si spezzava l’aspetto dell’uomo, creato invece “a immagine di Dio”. Al contrario, furono permesse per raffigurare il diavolo nelle sacre rappresentazioni, oppure nelle feste popolari. La maschera subì quindi un processo di demonizzazione e venne “ridotta” a gioco. Come tale, però, venne resa innocua e non più soggetta a censura.
Un altro esito significativo dell’incontro-scontro tra cristianesimo e concezione magica del mondo fu la trasformazione della festa dei folli, collocata nei 12 giorni tra Natale e l’Epifania. Era un periodo in cui il ritorno di esseri dall’altro mondo era personificato da maschere e travestimenti. I festeggiamenti erano rituali obbligatori per garantirsi salute, ricchezza e felicità nell’anno incipiente. La Chiesa tentò invano di estirpare queste pratiche pagane. Quando la loro festa ebbe dei problemi, i folli si aggregarono agli “innocenti” (il 6 gennaio Erode, “un altro folle”, aveva ordinato la strage degli infanti di Betlemme): bambini e folli avevano in comune il fatto di essere “privi di ragione”, perciò il loro comportamento non poteva essere fatto colpevole. D’altronde, il rovesciamento dell’ordine costituito aveva una corrispondenza cristiana nel detto “gli ultimi saranno i primi”.
Il corrispondente più popolare e diffuso della festa dei folli (anche se in periodo diverso) è sicuramente il Carnevale. Iniziava in data variabile a partire da Natale e terminava il Mercoledì delle ceneri. Poiché nei quaranta giorni di preparazione alla Pasqua la Chiesa prescriveva atti di penitenza e digiuno, si stabilì un periodo di generale ricreazione e ostentazione pubblica di tutti i comportamenti interdetti in quaresima. Soprattutto in Europa meridionale, il Carnevale rappresentava la maggior festa popolare, celebrata all’aperto, con banchetti canti e balli per le strade, travestimenti e maschere.
Il Carnevale rielaborava tradizioni e invenzioni diverse. Le maschere erano in relazione con gli spiriti degli Antenati, che presiedono alla fertilità dei campi e della società umana. I giovani celibi, per il loro stato intermedio tra infanzia e età adulta, venivano considerati dei vicini degli Antenati e per questo ne facevano le veci mascherandosi. La Chiesa, attraverso la condanna della credenza nel ritorno dei morti, tolse alle maschere la funzione mediatrice e rigeneratrice assegnata ai morti, ma essendo comunque permesse come raffigurazioni del diavolo, ebbero larga diffusione. Attraverso le nuove funzioni di tipo ludico ed estetico, trovarono poi nuova vita nella Commedia dell’Arte.

Data l’origine carnevalesca, le maschere della Commedia dell’Arte erano facilmente riconoscibili dal pubblico popolare, e permettevano all’attore di sviluppare le proprie capacità interpretative e di improvvisazione attorno a un centro stabile. L’operazione di improvvisazione è riuscita talmente bene che spesso il pubblico percepiva le maschere come personaggi che avevano una vita propria al di là di ciò che accadeva sul palco e i comici erano conosciuti con il loro nome d’arte, cioè quello della maschera che interpretavano. In questa tradizione i tipi fissi erano immediatamente riconoscibili, e per questo le maschere della commedia dell’arte sono riconducibili a tre grandi tipologie: i servi, gli esponenti della mentalità popolare e contadina e i motori comici dell’azione; i vecchi, borghesi, la cui supponenza e l’interazione con i servi erano fonte della maggior parte delle situazioni comiche; gli innamorati, personaggi giovani attorno a cui venivano costruite le vicende serie. In realtà, solo gli innamorati erano privi di maschere, e usavano un linguaggio aulico, che si contrapponeva al dialetto di servi e vecchi.
Partendo da questi tipi, la commedia era l’espressione più piena delle mitologie della fertilità che venivano celebrate nel periodo di carnevale.

Dunque, la maschera attraversa diverse fasi, che ne modificano la natura e la funzione. Nel teatro greco, essendo la rappresentazione drammatica indissolubilmente legata al rito e all’adorazione di Dioniso, essa ha una funzione rituale inseparabile dall’atto drammatico. Le due principali espressioni drammatiche, tragedia e commedia, avevano rispettivamente funzione catartica e apotropaica (o spesso anche satirica). L’uso della maschera è legato per ragioni pratiche al basso numero di attori, ma soprattutto al fortissimo legame con Dioniso e la presenza divina. In epoca romana, la rappresentazione assume in maniera consistente una dimensione di intrattenimento (dovuta alla politica imperiale del panem et circenses) e, visto anche che questa pratica era stata adottata dall’ambiente greco, per adattarsi si è perso completamente il valore rituale, oltre che l’obbligo di frequenza, che per i greci era legato alle Dionisie. L’intrattenimento del circo, con le lotte dei gladiatori, le corse delle bighe, perfino le naumachie, è utile nel controllare e sfogare le passioni dei romani, una sorta di “catarsi”, ma legata alla violenza cruda (che invece nella tragedia greca non era mai esplicita). Qui, perso il contatto con Dioniso, non è più necessaria la maschera; rimane nella forma “grezza” dell’atellana, quasi una prima identificazione di tipi fissi in ottica di parodia.
Nel Medioevo, la maschera è condannata dalla Chiesa come vile distorsione della “perfetta” immagine dell’uomo, voluta da Dio. Sopravvive alla censura totale solo quando è giustificata come rappresentazione del demoniaco e nella festa popolare del carnevale (che giustificava i suoi eccessi come ultimo “sfogo” prima della lunga privazione della Quaresima). A Carnevale, puoi essere chi vuoi, e man mano si costruiscono i pilastri della maschera italiana classica, che conosciamo ancora oggi in varie declinazioni (Arlecchino, Pulcinella, Pantalone, Colombina…). La Chiesa, però, ha effettuato una divisione incolmabile (e quando mai?): la maschera non riavrà più la strettissima connessione col divino che i Greci avevano. Nel tempo, i drammaturghi usano le maschere come tipi e archetipi sociali e morali, finché in età contemporanea la psicanalisi non ne rimetterà in discussione il significato, letterale e metaforico, scoprendo l’individualità soggettiva stessa come “maschera”. Ovviamente, ce ne sarebbe da dire in difesa della maschera, povera bistrattata e ridotta a ludus della gente. Posso però affermare una cosa con certezza: non abbiamo smesso di usare le maschere. Forse per istinto primordiale, ma ci siamo troppo affezionati.

[Fonte: C.Bernardi, C.Susa, Storia essenziale del teatro, Vita e Pensiero, Milano 2005]