Il bluewashing e la corporate social responsibility
Negli ultimi anni, il termine greenwashing, la pratica perpetrata dalle aziende per sembrare più ecosostenibili di quanto lo siano, è diventato conosciuto a tuttə. Vi è però un altro termine: il bluewashing, di cui si parla troppo poco rispetto alla rilevanza che ha.
Il termine bluewashing fu utilizzato per la prima volta agli inizi degli anni 2000 e si riferiva alle “aziende che hanno sottoscritto il Global Compact delle Nazioni Unite e i suoi principi, ma non hanno attuato alcuna riforma politica effettiva”1. In generale, si usa per fare riferimento a tutte quelle aziende (soprattutto le grandi multinazionali) che utilizzano slogan, pubblicità e altre forme di marketing in modo da far apparire le proprie azioni come conformi ai fattori ESG (ossia i fattori ambientali, sociali e di governance).
Nel 1999, Kofi Annan, l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, annunciò il Global Compact (firmato poi nel 2000): oggi conta più di 17.000 partecipanti in oltre 160 Paesi2 e ha l’obiettivo di incentivare le aziende ad adottare politiche osservanti la corporate social responsibility, o responsabilità sociale d’impresa. Per responsabilità sociale d’impresa (CSR) si intende tutte quelle forme di auto-regolazione attuate dalle aziende con l’obiettivo di contribuire in modo positivo sulla società attraverso iniziative filantropiche o di natura benefiche (un tipico esempio sono le cause pro bono svolte dai legali). L’aver firmato il Global Compact (anche se non è vincolante) è uno dei tanti modi che le aziende hanno per dimostrare il loro impegno delle aziende nel rispettare la CSR.
I fattori ESG, cioè ambientali, sociali e di governance, sono diventati centrali per la buona pubblicità delle aziende. Più si mostrano inclini agli ESG, più ci appaiono clementi nei confronti dell’ambiente e della società nel suo senso più ampio. Il termine ESG fu usato per la prima volta nel report del Global Compact del 2004: il report aveva come fine quello di mostrare alle aziende che l’integrazione dei fattori ESG poteva portare a risultati più favorevoli per le aziende e per la società. Si è, infatti, sviluppata una crescente consapevolezza e, soprattutto, un forte interesse verso tali fattori da parte sia degli shareholders che degli stakeholders. Ciò ha causato un incremento della domanda di aziende con buoni risultati sugli ESG. In Australia, uno studio del secondo anno di rendicontazione ai sensi del Modern Slavery Act ha rilevato che “il 56% degli impegni assunti dalle aziende nel loro primo anno per affrontare la schiavitù moderna è rimasto inadempiuto”3. L’uso (e l’abuso) dei fattori ESG nasce con un buon intento, ma è criticabile, in quanto le aziende spesso non sono trasparenti riguardo ai loro impatti ESG e i metodi utilizzati per misurare tali fattori (come gli ESG indexes o scores) tendono a sovrastimare le performance delle aziende, facendole apparire migliori di quanto lo siano effettivamente.
Anche se la responsabilità sociale d’impresa nasce con uno scopo benefico nei confronti della società, spesso le sue implicazioni non lo sono. In uno studio di Schaltegger e Hörisch (2017), su 432 aziende studiate, “la ricerca di legittimità sociale è la logica dominante dietro le strategie di sostenibilità aziendale” della maggior parte delle aziende4. Inoltre, lo studio di Macellari (2021) ha riscontrato la tendenza delle aziende UNGC LEAD5 a non divulgare le informazioni relative a impatti negativi all’interno dei report di sostenibilità aziendale (“più dell’80% degli eventi identificati non sono stati segnalati o sono stati segnalati solo parzialmente”)6. Come racconta Timothy McClimon in questo articolo per Forbes, l’uso della disinformazione nei confronti dei consumatori deve essere considerato un tipo di bluewashing.
Da un punto di vista legale, sul piano internazionale, le aziende non possiedono una personalità giuridica. Questo rende il lavoro delle organizzazioni internazionali (come le Nazioni Unite) più complicato: siccome le aziende non hanno una personalità giuridica a livello internazionale, le organizzazioni internazionali non le possono responsabilizzare sul piano giuridico. Inoltre, nel tempo si è anche cercato di rendere le grandi aziende responsabili penalmente per violazione dei diritti umani e per inquinamento ambientale (due tra le più grandi problematiche di queste imprese). Per poter rendere le imprese multinazionali (MNEs) perseguibili penalmente, la loro personalità giuridica deve essere basata sulla capacità giuridica derivante da trattati o dal diritto consuetudinario. Fino ad ora, “i trattati internazionali non hanno dotato le imprese multinazionali di personalità giuridica e l’assenza di obblighi in tal senso ha avuto un impatto negativo sulla performance non finanziaria delle imprese multinazionali”7. Ultimamente, si può notare una tendenza a cercare di rendere responsabili le multinazionali, soprattutto attraverso gli strumenti di soft law, ossia norme prive di efficacia vincolante diretta (come, appunto, il Global Compact). Tuttavia, nonostante il ricorso a tali strumenti, non si è ancora arrivati a formare attraverso il diritto consuetudinario la personalità giuridica delle imprese multinazionali (MNEs).
Questo “buco” nel diritto internazionale lo si può vedere direttamente leggendo le più autorevoli linee guida per la responsabilità sociale d’impresa: il UN Global Compact e le linee guida dell’OECD. In entrambi i casi, nessuna delle due contiene un preciso sistema di rendicontazione e, come ha dichiarato l’ONU, “non ha le risorse per monitorare la performance degli organismi [del UN Global Compact]”8. Sul piano internazionale è difficile credere che le imprese multinazionali possano diventare nel breve termine dei soggetti del diritto internazionale (si tenga in considerazione che neanche le ONG possiedono personalità giuridica nel diritto internazionale): è quindi più probabile che siano gli Stati stessi a cercare di arginare le lacune del diritto internazionale e di rendere perseguibili penalmente le aziende in caso di violazioni dei diritti umani o del diritto ambientale.
Un celebre esempio di bluewashing da parte di una grande multinazionale sono i vari scandali che coinvolgono Nike per quanto riguarda lo sfruttamento dei lavoratori. La multinazionale statunitense è uno dei tanti partecipanti del UN Global Compact già dal 20009. Fu proprio in questi anni che Nike dovette cercare di difendersi dalle accuse di manodopera infantile e di fornirsi di fabbriche che sfruttano i lavoratori in Asia (le cosiddette sweatshops). Nel 2001, fu pubblicato il report Still Waiting For Nike To Do It, il quale denunciava come “i lavoratori Nike continuano a faticare per ore eccessive in ambienti di lavoro ad alta pressione e non guadagnano abbastanza per soddisfare i bisogni primari dei loro figli”10. Inoltre, i lavoratori di diverse fabbriche erano costretti a lavorare fino a settanta ore settimanali, oltre che a subire umiliazioni davanti agli altri lavoratori e a essere minacciati di licenziamento nel caso non avessero adempiuto agli straordinari. Fu poi la stessa Nike, nel febbraio dello stesso anno, a rilasciare un suo report interno in veniva confessato “il ruolo dell’azienda nell’agevolare lo sfruttamento dei lavoratori”11.
Il bluewashing è, quindi, una tendenza relativamente nuova e che non deve essere sottovalutata sia da noi in quanto consumatori, ma anche dagli stessi azionisti. Il fatto che un’azienda si presenti come osservante dei diritti umani e dei fattori ESG non significa che effettivamente lo sia: spesso leggiamo di scandali in cui le vere azioni delle imprese multinazionali vengono portati allo scoperto. Probabilmente, in futuro vedremo nuovi tentativi da parte delle organizzazioni internazionali di cercare di arginare tali problematiche attraverso strumenti non vincolanti, in quanto le grandi aziende non si possono considerare soggetti del diritto internazionale aventi personalità giuridica.
Note
- Forbes: Bluewashing Joins Greenwashing As The New Corporate Whitewashing
- Participation | UN Global Compact
- Explainer: What is greenwashing and bluewashing, and why should we care about it? | Australian Human Rights Institute
- Exploring bluewashing practices of alleged sustainability leaders through a counter-accounting analysis
- “Ogni anno il riconoscimento Lead è per le aziende che si sono maggiormente impegnate nella promozione dei dieci principi del Global Compact, relativi ai diritti umani, al lavoro, all’ambiente e alla lotta alla corruzione, e che si sono distinte per il sostegno di iniziative a supporto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite” Global Compact LEAD 2020
- Exploring bluewashing practices of alleged sustainability leaders through a counter-accounting analysis
- Corporate Social Responsibility in International Law by Ilias Bantekas
- https://unglobalcompact.org/about/integrity-measures
- Nike, Inc. | UN Global Compact
- Nike accused of tolerating sweatshops | World news | The Guardian
- Nike accused of tolerating sweatshops | World news | The Guardian
Feeling Blue
Editoriale · L’Eclisse
Anno 3 · N° 9 · Gennaio 2024
Copertina di Maria Traversa.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Bianca Beretta, Matteo Capra, Michele Carenini, Ginevra Cesati, Anna Cosentini, Joanna Dema, Clara Femia, Eugenia Gandini, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Rosamaria Losito, Matteo Mallia, Erica Marchetti, Laura Maroccia, Alessandro Mazza, Marcello Monti, Edoardo Naggi, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Erika Pagliarini, Matteo Paguri, Lorenzo Ramella, Luca Ruffini, Gioele Sotgiu, Tommaso Strada, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani.