“Marghe, che hai?”
“Dai vieni!”
Mi prese per mano e mi portò con sé nel campo appena fuori dalla porta. La mano di mia sorella maggiore era forte e calda attorno la mia, gelida. Camminavamo tra i fili d’erba, lei tenendosi il vestito per non inciampare. Nonostante i suoi sedici anni, sembrava già una donna e io il suo soldatino, che doveva proteggerla dalla notte.
“Guarda in cielo e dimmi se le vedi.”
“Cosa? Quella?” “Non la lucciola. Stelle cadenti, dieci agosto… hai presente?”
“Non ti capisco.”
“Te sta zet, che tci ancoura un murgantoun.”
“Afferrato, se guardo il cielo… la luna e le stelle, comandante.”
Alzando lo sguardo alla volta celeste, osservai la notte avvolgere tutto. Sembrava che ogni forma di vita lasciasse che l’invisibile oscurità imprimesse, nel proprio lato più vulnerabile, le tracce della sua presenza; i silenzi erano distrutti solo dal canto delle cicale.
Passò un quarto d’ora, senza dire nulla. Mi voltai e vidi quel visetto deluso.
“Marghe, esprimi un desiderio, io prendo la mira.”
E tirai una sassata alle stelle.
Osservai un sorriso trasformarle il volto e una ruga accentuarsi sulla fronte.
“Grazie. Rimani sempre un bambino, non diventare mai grande.”
“Marghe, una stella!”
Gliela donai e con lei nacque un desiderio, mentre moriva. La cosa buffa è che piovvero altre stelle. Io ne presi due. Per la prima ho desiderato di rimanere sempre un fanciullino, per non perdere Marghe, per la seconda di diventare come mio padre.
“Non smettono più di cadere, sta lacrimando, San Lorenzo.”
Mi sedetti e lei mi strinse, mentre l’odore di verde copriva ogni cosa. I nostri sogni, i brividi che ci percorrevano, il buio profondo illuminato solo dalla pioggia di stelle, la luna profumavano di terreno bagnato. Il vento, intanto, suonava i rami di tamarisco o, come già allora mi piaceva chiamarlo, col suo nome latino: myricae…
Prendo il mio libro di greco e lo sfoglio. La cattedra di professore di liceo mi è sempre piaciuta molto di più di quella all’Università di Bologna. Era più bello vedere quegli occhi che ancora non sapevano niente delle “lingue morte” e insegnare che hanno ancora un po’ di vita.
Loro potevano capire meglio il musico fanciullino di quanto potessero quei tanti universitari che ho visto in questi ultimi anni. Ed è così difficile inoltrare nelle loro menti (degli universitari!) una visione del mondo che vada oltre alla semplice parola e che sia un suono, un “chiù”, o l’odorino amaro del fiore che amavi o il ricordo della morte.
La morte…
“Mamma, quando torna papà?”
“Papà non torna.”
Lanciai uno sguardo a mia sorella, impietrita: aveva capito tutto. Le cadde di mano la poesia per lui.
L’anno dopo sarebbe morta anche lei.
Gli anni sono passati. Quel “desiderio” è sempre impresso nella mia mente, quella disperata ricerca nella “mancanza di stelle”. Spero di essere stato il fratello che voleva Margherita e l’uomo che è stato per me mio padre, per la mia famiglia. Forse, nessuno penserà mai che tutta la mia vita sia stata un sogno, quel sogno.
“Fradèl, ancora la tosse…”
“Non ti preoccupare. Mariù, Mariù, ti spaventi sempre per troppo poco…”
“Cosa scrivi?”
“Una storia, una storia di un desiderio profondo.”
“Zvanì, Zvanì.”
Ora chiudo gli occhi e sono lì accanto a mia sorella. Nulla è mutato. Lei è stretta a me, siamo seduti, percepiamo ancora l’odore d’erba. Sento una grande gioia e un gran dolore, tornato al villaggio dei morti. “La nube che vedo più nera è quella più rosa nell’ultima sera”. Il tramonto muore fino a trasformarsi in notte. Il vento suona ancora i rami di tamarisco o myricae…
E se guardo il cielo… la luna e le stelle.
5 aprile 1912
Giovanni Pascoli
di Arianna Galli Writer
Arianna Galli Writer, poetessa, scrittrice e artista, studia Letterature Straniere, Comunicazione, Media e Culture Digitali all’Università Cattolica di Milano.
Per lei la letteratura deve essere sempre provocatoria e ribellarsi agli schemi dell’asettica e monotona società contemporanea. I temi fondamentali che affronta sono il senso dell’esistenza, il coraggio della scelta, il senso di morte, dolore e vuoto spirituale del mondo contemporaneo e l’amore che può anche far male, ma che fa rinascere e soprattutto vivere nella società in cui la gente ormai solo esiste.