Basato su una storia vera. Perché il true crime ci affascina
Il genere d’intrattenimento true crime, cioè racconti più o meno aderenti alla realtà basati su fatti criminali, spesso violenti, realmente accaduti, ha visto negli ultimi anni un aumento esponenziale della sua popolarità. L’interesse del pubblico verso storie di crimini e indagini, sangue e giustizia, non è nuovo: alcuni ritengono che il primo “giallo” della letteratura sia l’Edipo Re di Sofocle.
Neanche il true crime strettamente inteso sembrerebbe un’invenzione recente. Alcuni classici del genere includono A sangue freddo di Truman Capote (1966) e Helter Skelter di Vincent Bugliosi (1974) e storie di crimini vengono drammatizzate e trasmesse tramite fiabe, componimenti poetici e pamphlet almeno a partire dall’era elisabettiana. Tuttavia, basterà scorrere velocemente il catalogo di una qualsiasi piattaforma streaming per accorgersi della quantità di documentari e serie TV su assassini seriali e casi irrisolti.
Verrebbe da pensare che nessuno voglia volontariamente ascoltare e riascoltare questi fatti terrificanti, resi ancor più tali dal fatto di non essere frutto dell’immaginazione un po’ morbosa di uno sceneggiatore o di un romanziere, ma di essere accaduti veramente, a persone in carne e ossa. Eppure, il mercato dell’intrattenimento non smette di proporre contenuti true crime, non solo sotto forma di libri, serie e documentari, ma sempre di più anche tramite podcast, video su Youtube e persino TikTok e videogiochi. Che cos’è che attrae così tante persone (e sempre più giovani)?
Innanzitutto, dobbiamo distinguere due modi in cui il true crime può essere ed è stato raccontato nel corso del tempo. Il primo modo è freddo e distaccato, empirico; il secondo è più sensazionalistico, si concentra su dettagli macabri e sulla storia personale, le emozioni e le reazioni delle persone coinvolte (e affini: la famosa intervista al vicino di casa). Il secondo metodo narrativo, chiaramente, è più concentrato ad ottenere un coinvolgimento emotivo del lettore o spettatore, eppure, in entrambi i casi, il risultato è inevitabilmente la spersonalizzazione delle vittime e dei carnefici, che diventano “personaggi” in una storia. Una storia terribile, certo, ma non un fatto che ci coinvolge personalmente, quindi qualcosa che possiamo riporre in un cassetto nascosto della mente per addormentarci tranquilli.
Tuttavia, secondo un sondaggio di YouGov condotto tra il 29 agosto e il 5 settembre 2022, il 50% degli americani consuma materiale true crime (un terzo di questi almeno una volta a settimana) e il 61% pensa che il genere aiuti ad empatizzare con le vittime. Un’altra statistica interessante riguarda il genere degli appassionati: il 58% sono donne, le quali si interessano di gran lunga più degli uomini a crimini violenti, specialmente legati all’omicidio o a violenze sessuali. Secondo Civic Science, la fascia d’età più interessata al true crime è quella dei Millennials e dei Gen X (quindi le persone tra i 18 e i 54 anni).
Resta dunque la domanda: cosa ci spinge ad accendere il televisore su un documentario a proposito del delitto di Perugia, invece di uno su qualche nuova scoperta scientifica? Perché guardare la serie su Elizabeth Holmes e la Theranos, piuttosto delle migliaia di altre disponibili sul nostro catalogo digitale? La risposta può sembrare sdolcinata e banale, ma è l’unica possibile. Il true crime ci affascina perché è true, appunto, parla di esseri umani veri e delle azioni che hanno compiuto. Ci conferma che quella paura irrazionale, che ci coglie tornando a casa la sera e che ci porta a stringere le chiavi in pugno, non è ingiustificata e non siamo paranoici. Di più, il true crime è l’apoteosi dell’offerta del genere giallo in generale, il motivo per cui Sherlock Holmes e Poirot continuano a vendere anche secoli dopo essere stati scritti: il true crime ci offre la verità, la risposta a tutti i nostri “perché” – perché una persona può arrivare ad ucciderne un’altra? Perché capita così spesso?
Nel XIX secolo, la furia positivista portò alla creazione di nuove figure professionali, come il criminologo e lo stesso poliziotto. Si cominciò a concentrarsi sui vari “perché” dei crimini più efferati e vennero creati musei nei quali esporre cimeli e resoconti psicologici dei più bruti criminali. Il pubblico di massa accolse caldamente la novità, principalmente perché si diffuse l’idea che saperne di più su questi orribili delitti avrebbe diminuito le probabilità di rimanerne vittime. Conosci il nemico e salvati, insomma – ed ecco spiegato come mai sono principalmente le donne a consumare true crime. Il pubblico è sempre più assetato di storie criminali e pian piano l’appeal diventa la possibilità di avvicinarsi al male più estremo, agli angoli oscuri della mente umana, liberando la scarica di adrenalina che la paura provoca nel nostro cervello, ottenendo allo stesso tempo appagamento quando viene fatta giustizia. Dopotutto, la vittima potremmo essere noi ed è estremamente rassicurante pensare che, ogni tanto, la giustizia fa il suo corso e i colpevoli vengono condannati. In questo senso, le reazioni chimiche che si scatenano nel nostro cervello guardando true crime sono assimilabili a quelle relative all’assunzione di sostanze alteranti.
Il discorso sul true crime però, si complica quando analizziamo più a fondo il modo in cui i media (ivi compresi giornali e telegiornali) raccontano i crimini. Secondo il sociologo Ian Cummings, infatti, la contemporanea narrazione mediale tende a creare, per i serial killer e gli altri “mostri”, un’identità equiparabile a quella delle celebrità: dall’uso di soprannomi unici e facilmente identificabili alla dettagliatissima cronaca dell’infanzia del mostro, la sua identità pubblica si distingue e si offre alla feticizzazione. Non sono rari i casi in cui “fan” un po’ troppo sfegatati di certi crimini compiono atti di dubbia moralità, dal collezionare oggetti appartenuti al criminale in questione, allo scrivergli lettere in carcere, allo sposarlo. Senza arrivare a questi livelli, la morbosa fascinazione per il carnefice sposta l’attenzione del pubblico e la sua empatia, divergendo i riflettori dalla vittima e dai suoi cari. Non a caso, una delle critiche che più spesso riceve il true crime è quella di essere insensibile e di costringere le vittime a rivivere il loro trauma, glorificando invece l’assassino o il violentatore di turno.
Altri problemi del consumo massiccio di true crime includono l’emulazione (in verità assai rara) di crimini parecchio famosi, come la sparatoria nella scuola di Columbine, e l’aumento dell’allarmismo in alcune categorie di spettatori. Certo, è importante evitare situazioni pericolose o saper riconoscere i segni di una relazione sbagliata, ma dobbiamo ricordare che i crimini trattati da documentari e serie true crime sono l’eccezione alla regola. Un esempio sono i documentari che trattano di aggressioni a sfondo sessuale ad opera di sconosciuti, come la serie originale Netflix Unbelievable (peraltro molto consigliata, NdA). Per quanto casi come quelli trattati nella serie siano traumatici ed eclatanti, la maggior parte delle violenze sessuali si consuma tra le mura domestiche o comunque per mano di una persona legata alla vittima, mentre “l’uomo del vicolo” è statisticamente poco più di una leggenda.
Bisogna, insomma, saper usufruire di questo tipo di intrattenimento in modo critico, specialmente quando si tratta di adattamenti romanzati (ma anche i documentari contengono inevitabilmente dei bias di fondo). È importante tenere sempre a mente che, per quanto un’indagine sia appassionante e piena di colpi di scena, dietro al nostro podcast preferito ci sono delle persone come noi, che hanno sofferto immensamente. È fondamentale ricordarsi che non stiamo solo leggendo una storia di un maestro del noir, ma che il Ted Bundy in questione, così avvolto dal fascino del male, ha commesso atti indicibili e il nostro interesse nei suoi confronti non può sfociare nell’ossessione o nel cattivo gusto (ha fatto scalpore il trend di TikTok del 2021 del fare tutorial di trucco con in sottofondo audio tratti da casi di cronaca nera). Il true crime può aiutare ad empatizzare con le vittime, a raccogliere fondi per aiutare le loro famiglie e, in alcuni casi, anche a chiudere casi irrisolti, ma può anche desensibilizzare rispetto alla violenza e, nel caso delle produzioni hollywoodiane, rischia di sfociare nella monetizzazione del dolore delle persone. Siate spettatori, lettori, ascoltatori consapevoli, sempre.