La Resistenza sul grande schermo, tra censura e strumentalizzazione
Per rompere il ghiaccio con una battuta e semplificare la questione al massimo, potremmo dire che la relazione tra cinema italiano e Resistenza è molto simile a quella tra me e il ragazzo di cui ero “follemente innamorata” in terza superiore: si sono parlati un paio di volte e la cosa sembrava promettere bene, sono addirittura usciti, hanno scoperto di avere in comune la passione per la letteratura, ma poi si sono persi di vista subito dopo (anche se qualche volta Facebook ricorda all’uno l’esistenza dell’altra).
Insomma, dire che il cinema non abbia raccontato la Resistenza italiana sarebbe falso: i due capolavori di Roberto Rossellini, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) vi fanno riferimento esplicitamente e innumerevoli sono gli adattamenti per lo schermo di romanzi e racconti di ex-partigianə, da La ragazza di Bube (1963, Luigi Comencini, dal romanzo di Carlo Cassola), a La lunga notte del ’43 (1960, Florestano Vancini, da un racconto di Giorgio Bassani) al più recente Il partigiano Johnny (2000, Guido Chiesa, da Beppe Fenoglio).
Tuttavia, il cinema della Resistenza non è mai diventato un genere a sé, né ha mai riscontrato il successo di pubblico necessario a spronarlo ad una produzione originale più solida. Come scrive Alberto Crespi nel suo Storia d’Italia in 15 film (Economica Laterza 2018), i film sulla Resistenza sarebbero potuti diventare i nostri western, eppure questo non è mai successo.
Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici. In primo luogo, è importante far presente che non molti registi hanno partecipato alla lotta clandestina e che anche quelli che vi hanno preso parte sono stati per molto tempo restii a parlare della propria esperienza. Alcuni hanno cercato di rielaborarla, di emblematizzarla, inserendo espliciti riferimenti in film apparentemente incentrati su tutt’altro, come nel caso di Se sei vivo spara (1967), uno spaghetti western di Giulio Questi in cui i banditi violenti e autoritari sono vestiti di nero e gli indiani ribelli non possono non ricordare i partigiani.
Inoltre, come accennato sopra, i film sulla Resistenza e, in generale, sulla guerra non hanno mai attirato molto pubblico. Mentre la critica italiana (di sinistra) e mondiale celebrava il nostro Neorealismo, il botteghino per Rossellini, De Sica, Visconti e De Santis chiudeva sempre più in perdita. Forse abituati ai film di regime – da me ribattezzati “et circenses” per la loro tendenza a mostrare una versione ideale ed edulcorata dell’Italia del ventennio e a proporre trame amene e scacciapensieri – o forse per una generale mentalità diffusa nel dopoguerra mirante a lasciarsi il passato alle spalle, gli spettatori si sono sempre mostrati insofferenti a film come Roma città aperta, fischiato, o Ladri di biciclette (1948, Vittorio De Sica), disertato, i quali volevano riportare l’attenzione sulle effettive conseguenze del fascismo.
Il boom economico sancisce definitivamente il rifiuto degli italiani per i film “pesantoni”: si affermano la commedia all’italiana e tutta una schiera di generi d’intrattenimento, come i musicarelli, tratti dai successi musicali del momento e con la partecipazione di facce note del mondo della musica, da Gianni Morandi a Caterina Caselli.
Tutto ciò è sintetizzato ed esemplificato magistralmente da Dino Risi ne I mostri (1963), nella scena in cui una coppia neo-arricchita è al cinema a vedere un film sulla Resistenza e, mentre sullo schermo scorrono immagini di violenza e morte, di tedeschi che giustiziano partigiani poco più che ventenni, lui fuma e dice a lei, che sbadiglia annoiata: «Ecco, vedi: il muretto della nostra villa lo vorrei proprio come quello. Semplice: solo con le tegoline sopra».
Ma torniamo per un secondo a quel cinema che, invece, la Resistenza l’ha raccontata: il Neorealismo. Alcuni storici e critici del cinema individuano, più che un cinema della Resistenza, un cinema resistente, e lo fanno coincidere proprio con la corrente neorealista, per la sua volontà intrinseca di porre una linea netta tra cinema fascista e cinema post-fascista. Se dal punto di vista teorico-estetico questa tesi è condivisibile, sul piano etico-storico fa un po’ storcere il naso, vista la sostanziale continuità lavorativa di divi e autori prima e dopo la Liberazione. Davanti e dietro alla cinepresa, gli esempi si sprecano: dal neo-pacifista Alessandro Blasetti, prima regista di punta del regime e poi realizzatore del filo-partigiano Un giorno nella vita (1946), all’idolo della critica socialista Vittorio De Sica, un tempo star dei “telefoni bianchi”, fino ad arrivare al più sovversivo di tutti (o che almeno veniva considerato tale), Roberto Rossellini, che aveva all’attivo tre film di propaganda prima di Roma città aperta. Lo stesso concluderà la sua esperienza neorealista già nel 1950, quando, con Francesco giullare di Dio, comincerà a dedicarsi a temi democristiani, in cui si ritroverà assai più che nella veste di “rosso” che la stampa e la censura avevano voluto cucirgli addosso.
Con questa osservazione non si vogliono sminuire o tacciare di ipocrisia e collaborazionismo i registi citati (assoluti giganti della nostra filmografia nazionale), né si vuole dimenticare la relativa libertà ideologica che ha caratterizzato l’ambiente cinematografico durante il regime, che, più che interessarsi alla propaganda, era disposto, in nome di una supremazia qualitativa e quantitativa sul resto d’Europa, a chiudere un occhio sulle ideologie politiche dei suoi cineasti. Preme, tuttavia, fare luce su un paradosso, quello del condono democristiano e della retorica “Italiani brava gente, vittime recalcitranti di un regime imposto da altri”, che, non solo in campo cinematografico, ha prodotto dei fenomeni tanto interessanti filologicamente quanto potenzialmente pericolosi sul piano socio-culturale. D’altro canto, come era solito ripetere mio nonno: «I dibattiti su fascismo e antifascismo rispuntano ogni 25 aprile solo perché abbiamo vinto noi. Se avessero vinto loro, avremmo tutti la stessa opinione».
Parlando di politiche di perdono e di perdita collettiva della memoria, non posso non citare la terza, e forse più importante, ragione per cui la Resistenza non è mai riuscita a svilupparsi come genere nazionale, ovvero la censura. Come si sono impegnati a ricordare ai cineasti Andreotti prima e Scalfaro poi, dal 1949 «i panni sporchi si lavano in famiglia»: via dai cinematografi ogni riferimento alla condiscendenza del popolo al fascismo, via gli «imbarazzanti eccessi del neorealismo», via ogni possibile collegamento tra lotta partigiana e rivoluzione proletaria, e, soprattutto, via gli eventi più incresciosi per l’esercito italiano, come la confusione provocata dall’8 settembre ’43, che Luigi Comencini racconta amaramente (ma sotto la copertura della commedia all’italiana e dell’intoccabile Alberto Sordi) in Tutti a casa (1960).
Fu proprio in seguito al pugno di ferro della censura cinematografica e al tentativo di alleanza della DC con il Movimento Sociale Italiano che il cinema riportò sullo schermo la Resistenza, per cercare di risvegliare l’anima assopita del Paese e per ricordare alla politica chi avesse fatto che cosa. Nel corso degli anni Sessanta, purtroppo, il tema resistente viene sempre più politicizzato, fino ad essere snaturato, anche a discapito della qualità dei film stessi.
Negli ultimi anni, il nuovo calo di popolarità della Resistenza (a parte le dovute eccezioni, come L’uomo che verrà, film del 2009 di Giorgio Diritti, o Una questione privata, 2017, dal romanzo di Fenoglio, ultimo film dei fratelli Taviani, che si erano già cimentati nel tema con La notte di San Lorenzo del 1982) è forse sintomo di una serie di fattori ugualmente preoccupanti.
Da una parte, la Resistenza viene vista come un fenomeno circoscritto a un certo periodo storico e quindi “conclusa” e il suo portato è interpretato come una sensibilità diffusa, condivisa da tutti (di nuovo la retorica degli “Italiani brava gente”) e quindi “scontata”. Dovrebbe essere inutile ricordarlo qui, eppure ancora una volta sottolineiamo come solo una minima parte della popolazione abbia preso la via della montagna, e come, ancora oggi, siano frequenti i tentativi di accostare singoli episodi di violenza delle truppe partigiane alla sistematica incarcerazione e allo sterminio di massa operati dai fascisti nei confronti di oppositori politici e altre persone non gradite. Sì, anche in Italia c’erano i campi di concentramento.
D’altra parte, stiamo assistendo a una serie di rigurgiti neofascisti sempre più convinti e sempre meno celati. Anni di condanne, sempre troppo tiepide, agli episodi neofascisti e di mancate operazioni di bonifica dei falsi miti su fascismo e antifascismo hanno portato a relegare la Resistenza e l’importanza dell’antifascismo ai trafiletti dei libri di storia o ai servizi di Rai Tre visti da pochi nostalgici di un’epoca in cui il requisito minimo e comune a tutte le figure istituzionali era quello di essere fermamente antifascisti.
Vorrei concludere questo articolo segnalandovi che, quando si dice che i film sulla Resistenza sono pochi, si intende naturalmente un “pochi” relativo all’elevatissimo numero di film prodotti in Italia ogni anno dal 1945 a oggi. I film sulla Resistenza ci sono, alcuni sono molto belli, altri sono diventati simboli: la scena di Pina/Anna Magnani che corre dietro al carro dei nazisti che stanno portando via suo marito è una delle più famose del nostro cinema, seconda solo a Sylvia/Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi in La dolce vita (1960, Federico Fellini).
Includo perciò i link all’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e alla lista di film stilata dalla sezione di Lecco dell’ANPI, in cui sono inclusi film notevoli, di cui però non ho parlato in questo articolo per non renderlo ancora più lungo.
Sottolineo, inoltre, come io abbia analizzato solamente il cinema più commerciale, ovvero i lungometraggi a soggetto: i documentari sulla Resistenza sono numerosi e molti sono reperibili online.