Lo sport (non) è politica
Sono da poco finiti i campionati europei di calcio e, dopo la vittoria dell’Italia, gli occhi del mondo sono ora puntati sui Giochi Olimpici di Tokyo. Con una risonanza mediatica globale, questi eventi sono più di semplici manifestazioni sportive: dal 776 a.C., anno della prima Olimpiade, possiamo subito mettere a fuoco come lo sport e la politica abbiano da sempre avuto uno stretto legame tra di loro.
Innanzitutto, in occasione delle Olimpiadi, vigeva una tregua sacra tra le póleis in conflitto tra di loro, in modo che la manifestazione potesse svolgersi in un clima festoso e il più pacifico possibile. Tuttavia, il contesto di provvisoria tranquillità celava un’estrema competizione, per non dire guerra, tra gli atleti gareggianti: l’importante era vincere, non partecipare, tant’è che per l’atleta sarebbe stata meno dolorosa la morte che la sconfitta. Solo la vittoria e il successo individuale avrebbero potuto eternare la fama dell’atleta, che avrebbe goduto di felicità, gioia e gloria, bene supremo degli uomini. La glorificazione dell’uomo, elevato a divinità, fu uno dei motivi per i quali, nel 393 d.C., fu posta fine alle Olimpiadi, in seguito all’editto anti pagano di Teodosio I: i giochi olimpici, infatti, furono considerati alla stregua di riti pagani e, dunque, immorali.
Bisogna poi tenere a mente che, durante le Olimpiadi, i politici si accordavano per pronunciare le orazioni con il fine di celebrare la superiorità della propria pólis. Ne è un esempio il “Panegirico”, la celebre opera di Isocrate, pubblicata in occasione delle Olimpiadi del 380 a.C.: nel suo discorso, Isocrate auspica una nuova alleanza tra le città greche, con a capo Atene, di cui egli esalta il valore degli abitanti e l’autoctonia, oltre al fatto di essere la città favorita dalle divinità; ma, soprattutto, sottolinea che proprio ad Atene si è sviluppata la forma migliore di governo che una città potesse avere: la democrazia. Questa nuova alleanza tra le città greche dovrebbe scongiurare definitivamente il rischio di una nuova invasione persiana, ma ciò è possibile solo con una riconciliazione tra Atene e Sparta. Quest’ultima, tuttavia, stipulando proprio con i Persiani un accordo, ha condannato, agli occhi di Isocrate, il popolo greco alla rovina.
Questo incipit ci serve per mettere a fuoco sia che lo sport è sempre stato intriso di messaggi politici sia per sfatare il mito secondo il quale era “bello il tempo dell’antica Grecia, quando la politica non entrava nello sport e quando addirittura si interrompevano le guerre durante le Olimpiadi”.
Ad oggi, infatti, il legame tra sport e politica sembra più stretto che mai. Ripercorriamo insieme gli avvenimenti più noti nella storia dello sport, che ci hanno fatto capire che sì, lo sport è (anche) politica.
Impossibile non citare la vittoria di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Per Hitler, i Giochi Olimpici erano l’occasione perfetta per mostrare il fasto e la potenza del Terzo Reich. Il successo alle Olimpiadi avrebbe potuto garantire al Führer un’ottima propaganda, in quanto la vittoria avrebbe reso evidente agli occhi del mondo la superiorità della “razza” ariana. Per questo motivo, possiamo definire le Olimpiadi del 1936 come “una grande operazione di regime”: Goebbels, ministro per la propaganda, considerava lo sport come il miglior mezzo per mostrare una nazione forte, organizzata e unita.
Il 4 agosto 1936, Jesse Owens vinse la medaglia d’oro nel salto in lungo davanti al tedesco Luz Long, l’atleta migliore che il Terzo Reich poteva vantare. È vero che Hitler non si congratulò con lui, così come non si congratulò con nessun altro atleta che non fosse tedesco, ma è interessante considerare che nemmeno Rooseve si congratulò con l’atleta afroamericano e cancellò addirittura l’appuntamento con Owens, temendo forse una reazione da parte degli stati del Sud. Inoltre, in un’intervista, il campione americano raccontò del suo ritorno in patria quando ancora vigeva la segregazione razziale: «Quando sono tornato nel mio Paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Dovevo usare l’ascensore di sevizio, invece di quello riservato agli ospiti bianchi dell’albergo. Non potevo vivere dove volevo. Allora, qual è la differenza?»
Le parole di Jesse Owens delineano un quadro della situazione politica e sociale americana alquanto complessa. È in questo clima di tensione che, 32 anni dopo, gli atleti Tommie Smith e John Carlos, arrivati rispettivamente primo e terzo nella gara dei 200 metri, alzano il pugno al cielo con il capo abbassato. Siamo negli anni delle proteste per i diritti civili delle persone nere negli USA, per cui i due atleti, con questo semplice ma potentissimo gesto, esprimono la loro solidarietà e partecipazione alla causa del movimento dell’Olympic Project for Human Rights e, più in generale, delle Pantere Nere. Il loro gesto ebbe gravi conseguenze per entrambi, in quanto furono sospesi dalla squadra, espulsi dal villaggio olimpico e, una volta tornati in patria, subirono numerose minacce di morte.
Il gesto del pugno alzato è tornato ad essere protagonista sui campi sportivi da circa un anno, in seguito alla morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso durante un controllo da parte di alcuni agenti della polizia, dei quali uno ha bloccato Floyd al suolo, premendogli il ginocchio sul collo per nove minuti, mentre l’uomo urlava “I can’t breathe!” (non riesco a respirare).
In Italia, uno degli sportivi più conosciuti che ha da sempre preso posizione contro il razzismo è certamente Romelu Lukaku, l’attaccante dell’Inter, che anche durante gli Europei si è fatto portavoce, insieme ai suoi compagni del Belgio, di un importante messaggio: quello dell’antirazzismo, scagliandosi contro ogni forma di discriminazione. Lukaku, già nel giugno 2020, dopo la ripresa della serie A, aveva mostrato il suo appoggio alla causa del movimento BLM, ma, durante gli Europei, assieme ai suoi compagni, ha dato vita a quello che si potrebbe definire come “take the knee debate”. Infatti, molti sono stati critici nei confronti della nazionale belga e del fatto che i suoi giocatori si inginocchiassero prima dell’inizio della partita. Qualcuno ha urlato alla “dittatura del politicamente corretto”, esaltando coloro che, invece, preferivano non inginocchiarsi come “difensori del pensiero libero”. Per questo semplice ma potente gesto, sono stati molti ad indignarsi: tra questi, il ministro degli Interni dell’Inghilterra, Priti Patel, che ha obiettato che si trattasse di un gesto “politico”, e il premier ungherese Viktor Orban, che sostiene che la lotta contro il razzismo «non ha posto su un campo sportivo», anzi il fatto di inginocchiarsi è una «provocazione per i residenti locali” (…) “poiché l’Ungheria non si è mai occupata della tratta degli schiavi».
Un pensiero apparentemente più unanime sulla questione sembra provenire dagli Stati Uniti e, in particolare, dall’NBA: in occasione della ripresa ufficiale del campionato, interrotto a causa della pandemia, i giocatori, insieme all’arbitro e agli allenatori, si sono inginocchiati al momento dell’inno, mostrando tutta la loro solidarietà al movimento Black Lives Matter, dimostrando così che lo sport non è solo sport, ma concerne vita sociale e politica. Nel giugno 2020, il giocatore LeBron James ha lanciato la campagna “More than a vote” in occasione delle elezioni negli USA, schierandosi apertamente contro il presidente uscente Donald Trump. Con la sua campagna, LeBron cerca di promuovere l’importanza del diritto di voto che riguarda tutti e tutte, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione, dal sesso, dall’etnia e dalle possibilità economiche.
In questi ultimi mesi, lo sport è stato anche teatro di una campagna in favore della comunità LGBTQ+. In occasione degli Europei di calcio, è stata la nazionale tedesca a rendersi portavoce della comunità, a partire dal capitano Manuel Neuer, che è sceso in campo con la fascia arcobaleno al braccio per tutte la partite giocate, rischiando, tra l’altro, di essere multato dalla UEFA. Di grande impatto è stata anche la richiesta del sindaco di Monaco di Baviera di “tingere” lo stadio con i colori arcobaleno in occasione della partita contro l’Ungheria. La risposta della UEFA è stata secca e tempestiva: «Comprendiamo l’intenzione di inviare un messaggio per promuovere la diversità e l’inclusione, cause da sempre sostenute dalla Uefa che ha lanciato numerose campagne su questi temi, ma l’Uefa è un’organizzazione neutrale a livello politico e religioso. A causa del contesto politico della richiesta, un messaggio in risposta alle decisioni prese dal parlamento ungherese, proponiamo date differenti per l’illuminare lo stadio con i colori dell’arcobaleno». Anche in questo caso, il tutto è stato ridotto ad una mera questione politica, quando, dal mio punto di vista, si tratta semplicemente di umanità.
Per quanto riguarda l’orientamento sessuale e l’identità di genere, nello sport ci sono ancora diversi tabù da sfatare. Nei primi di febbraio 2020, a Bruxelles è stato ospitato un evento dal titolo “Sport VS Omofobia: una partita da vincere”,in cui hanno preso parte il calciatore svedese Albin Ekdal, in forza alla Sampdoria, e la calciatrice dell’Inter Chiara Marchitelli. Il primo ha sottolineato che «Tutti dovrebbero sentirsi liberi di fare coming out, nella vita e nel calcio. Sfortunatamente, nel nostro sport non è così: solo otto giocatori hanno dichiarato di essere omosessuali. Molti altri vorrebbero farlo, ma evitano, per paura delle reazioni negative». Reazioni negative non solo da parte dei tifosi (spesso protagonisti di tristi episodi di razzismo, omotransfobia, sessismo e violenza), ma anche da parte di compagni e colleghi. Chiara Marchitelli ha inoltre affermato che «Nello sport non conta quali sono le preferenze sessuali degli atleti, ma quello che gli atleti fanno in campo». Può sembrare una frase fatta, banale, ma per molti non lo è ancora: infatti, troppo spesso dagli spalti giungono insulti legati al presunto orientamento sessuale degli atleti, come se non essere eterosessuali e cisgender sia una colpa, una vergogna da portare addosso e, per questo motivo, una legittimizzazione a essere insultati.
A dimostrazione di quanti passi debbano fare ancora l’Italia e la sua politica, è bastata la scelta del CIO, che ha designato come portabandiera olimpica la pallavolista Paola Egonu.
Anche in questo caso, si è gridato alla dittatura del politicamente corretto: secondo qualcuno, infatti, Egonu non è stata scelta per meriti sportivi, ma perché è donna, nera e fidanzata con una ragazza. A sintetizzare questo “pensiero”, ci ha pensato il giornalista Mario Adinolfi, già tristemente noto per le sue infelici uscite pubbliche, che su Twitter ha scritto: «Paola Egonu diventa portabandiera olimpica perché incarna un cliché e non per meriti sportivi, ci sono almeno 30 atleti nella delegazione italiana con un curriculum più valido della Egonu, ma con la colpa di essere bianchi o eterosessuali. Egonu è un triste inno al conformismo.» Forse Adinolfi e quelli che la pensano come lui non sanno che Egonu, a soli 22 anni, ha già vinto uno scudetto e due Champions League e che la scelta del CIO non è esclusivamente una scelta politica!
D’altronde, chi sostiene che sport e politica non vadano mischiati, forse non ha ben chiaro che lo sport oggi è (ma in realtà è sempre stato) veicolo di aggregazione, mezzo per ribadire l’universalità di diritti e di principi, che oggi non sono ancor pienamente affermati, come l’eguaglianza.
Lo sport non deve essere propaganda (e su questo siamo tutti d’accordo), ma non si può scindere dalla politica, perché, come scrisse Thomas Mann, «l’apoliticità non esiste. Tutto è politica».
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E pur si muove!
Editoriale · L’Eclisse
Anno 1 · N° 4 · Luglio 2021
Copertina di Francesco Fatini.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Petra Amantea, Greta Beluffi, Oscar Benedetti, Tommaso Brambilla, Benedetta Chinnici, Anna Cosentini, Chiara Cresta, Francesco Fatini, Alice Fenaroli, Arianna Galli Writer, Eugenia Gandini, Chiara Gianfreda, Alessandra Giovanetti, Andrei Daniel Lacanu, Nikolin Lasku, Eleonora Legnazzi, Silvia Loprieno, Matteo Mallia, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Alice Santamaria, Sara Saponaro, Francesca Cecilia Straface, Vittoria Tosatto, Marta Urriani, Margherita Verri, Adriano Zonta.