La couvade
Studio umanista fra antropologia e superstizione
L’Aptenodytes Forsteri, comunemente conosciuto come pinguino imperatore, è il più alto e pesante fra tutte le specie di pinguini. Sono animali estremamente sociali e vivono in Antartide, una delle zone più rigide e fredde del pianeta. Fra i tanti motivi di cui potrei scrivere per tessere le lodi del pinguino imperatore, c’è una caratteristica, del suo comportamento, che risulterà molto utile per introdurre al meglio l’argomento di questo articolo: il pinguino imperatore è la sola specie di pinguino in cui la cova dell’uovo viene effettuata dal maschio della coppia. Questa cova esclusiva del padre avviene perché, dopo la deposizione dell’uovo, la madre è troppo debole per poter covare e ha bisogno di nutrirsi. Così affida l’uovo al compagno, che se ne prenderà cura per due mesi circa, il tempo necessario affinché la madre possa stare lontana nell’oceano e riprendersi.
Ci si chiederà a questo punto per quale motivo ci siamo messi a parlare di pinguini e cova delle uova. Ebbene la cova, in questo caso non delle uova, è un comportamento ben studiato anche in ambito antropologico ed etnografico, dove assume sfumature completamente diverse.
Partiamo dal termine fondamentale: couvade. Per couvade, termine presente in antropologia fin dalla fine dell’Ottocento, si intende tutta una serie di pratiche, rituali e superstizioni che, in varie parti del mondo e in culture lontanissime fra di loro, fanno sì che si impadronisca del parto e della nascita colui che normalmente ne è escluso, ossia il padre.
Facciamo subito un esempio per chiarire il concetto. Verso la fine dell’Ottocento, nei Caraibi, si osservava, fra gli indigeni, un costume sconosciuto e curioso ad occhi europei: subito dopo aver partorito, la madre tornava a lavorare, mentre il marito rimaneva a letto e riceveva le visite di parenti e amici, come se fosse stato egli stesso a partorire. Il padre, oltretutto, nei mesi precedenti la nascita, si sottoponeva ad una dieta rigida e restrittiva, estendendo su sé stesso i tabù alimentari che si applicavano alle donne incinte.
Secondo il parere degli studiosi che maggiormente si sono occupati del fenomeno, questo comportamento mimetico avrebbe la funzione di sottolineare il ruolo determinante del padre nel momento della nascita, poiché spetterebbe al padre il compito di trasmettere l’anima al nascituro, il cui corpo invece è responsabilità della madre. Questa idea di generazione e “trasmissione delle parti” è ben presente già nelle fonti antiche: in Eumenidi, Eschilo ci dice chiaramente come Clitemnestra debba essere indicata solo come una nutrice di Oreste, figlio che dipende unicamente dal padre.
L’esistenza della couvade presuppone una fiducia in un legame “simpatico” tra padre e figlio. Numerose sono le opere che ne discutono, e numerosi sono gli esempi di questo comportamento.
Johann Jakob Bachofen, nella sua enorme opera sul matriarcato, affronta anche il tema della couvade. Lo studioso svizzero pone l’accento non tanto sul padre che rimane a letto dopo il parto della moglie, quanto sull’imitazione paterna dell’atto di partorire. Questa imitazione sarebbe, secondo Bachofen, una primordiale tecnica di adozione atta a sottolineare la prevalenza del ruolo maschile su quello femminile, e di conseguenza segnerebbe il passaggio da una società matriarcale ad una patriarcale. La Grecia classica è l’esempio più evidente di una società in cui l’individuo è prima “figlio di un padre”, e solo secondariamente è anche “figlio di una madre”. Buona parte della mitologia classica non presuppone neanche l’esistenza di una madre: Atena nasce per partenogenesi dalla testa di Zeus, solo per volontà di Zeus stesso; Dioniso nasce, a seconda della versione del mito, direttamente dalla coscia di Zeus, oppure viene partorito da Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe, e, in seguito alla morte di quest’ultima, ricucito nella coscia di Zeus, che ne porta a termine la gestazione. La mitologia classica rende evidente come solo Zeus, una divinità quindi maschile, possa decidere di formare una nuova vita senza l’ausilio di alcuna donna; quando a provarci è sua moglie Era, offesa per la nascita completamente patrilineare di Atena, nascono Efesto e Tifone, due divinità deformi e mostruose, rifiutate dalla loro madre divina.
Non tutti gli studiosi concordano con la visione di Bachofen sulla priorità di stabilire la superiorità paterna su quella materna. Secondo Sir James Frazer, probabilmente fra i più grandi studiosi di antropologia della storia, questi processi rituali avrebbero, come scopo primario, quello di alleviare le sofferenze della madre, per trasferirle su una “finta madre”, ossia il padre o un’altra figura maschile.
Esistono numerosi esempi di imitatio naturae in cui il padre finge di partorire, assistito dalla comunità, solo in caso di complicanze durante il travaglio.
Presso i Daiachi, popolazione indigena del Borneo, esisteva, agli inizi del ‘900, una procedura messa in atto solo qualora ci fossero dei problemi durante il parto. Venivano chiamati degli sciamani, figure a metà fra medici e depositari delle magie antiche. Uno di loro entrava nella casa della partoriente, gli altri rimanevano fuori. Lo sciamano, all’interno della casa, avvolgeva un pezzo di stoffa sul ventre della madre e lo annodava, mentre all’esterno un secondo sciamano, che fungeva da “finta madre”, si posizionava una pietra sul ventre e interpretava i dolori del travaglio. Ogni movimento del bambino veniva riprodotto anche sulla pietra, fino a quando i due parti, quello reale e quello inscenato, non fossero avvenuti nello stesso momento.
Analogamente, in alcune zone dell’India meridionale si registra l’esistenza di alcuni gruppi nomadi i cui usi al momento del parto comprendono la messa in scena da parte del padre, che alle prime doglie si veste con gli abiti della moglie e attende la nascita del figlio in isolamento.
Gli esempi potrebbero essere molto più numerosi, ma è importante a questo punto interrogarsi sulle motivazioni che spingono questi comportamenti. Edwin Sidney Hartland, nella sua opera The legend of Perseus (1894), trovava incoerente l’idea di Frazer secondo la quale questi rituali fossero compiuti per il benessere della donna; secondo Hartland, la cui opinione, al lettore contemporaneo, potrebbe sembrare pesantemente viziata da una certa pruderie vittoriana e da certe regole di buon costume ormai desuete, sarebbe assurdo concepire l’istituzione di tutta questa serie di usanze rituali intorno ad una cosa quotidiana come una donna che partorisce. Lo studioso inglese infine sostiene che l’unico motivo a spingere questo comportamento sia l’evidenziare il legame strettissimo che esiste fra padre e figlio. La couvade è molto spesso inoltre un fenomeno comunitario, non relegato al singolo nucleo familiare, e in cui partecipano anche persone sconosciute ed esterne. Quindi, sempre seguendo questa teoria, si chiarisce che la couvade, intesa genericamente come “rituali attorno al parto”, nasca a seguito di una corretta e scientifica interpretazione del rapporto fra concepimento e nascita, poiché si riconosce una responsabilità, non solo biologica, ma anche morale, al padre, oltre che alla madre; è assente in quelle società in cui è diffusa la credenza che la discendenza si trasmetta solo per via materna. Tutte le società hanno avuto una qualche tipologia di rituale dedicato, che si è via via estinto con il progredire scientifico e tecnologico della popolazione; di questi rituali rimangono tuttavia dei “relitti”, tra cui Hartland fa rientrare il battesimo cristiano, una cerimonia in cui non sono coinvolti solo i genitori biologici, ma anche figure esterne come padrini e madrine, ai quali viene richiesto di fungere da exemplum vitae per l’infante, che si accinge ad entrare nella comunità dei fedeli.
Anche la psicanalisi del ‘900 dedica un certo interesse al tema, e certi studiosi di stampo freudiano riconducono la mimesi del parto all’invidia profonda e inconscia che i padri provano per la capacità delle madri di generare la vita.
La couvade, da cui deriva anche una sindrome psicologica o psicosomatica, in cui si ravvisano negli uomini comportamenti e alterazioni fisiche ed ormonali tipici della gravidanza, rimane un insieme di credenze ed usanze estremamente interessante, poiché legate ad un momento, sia privato che comunitario, ovviamente comune a tutte le culture, ossia quello del parto. Il parto, a sua volta, è strettamente legato alla sfera sessuale degli individui, e anche per questo permeato da credenze popolari e tabù linguistico-comportamentali, poiché nella mentalità di innumerevoli culture la sessualità è sempre vicina alla violenza, anche solo a livello inconscio. La sessualità ha a che fare con la violenza, sia nei suoi aspetti immediati e fisici, come i dolori del parto o come lo stupro, sia nei suoi aspetti a lungo termine, come le malattie, sia in quelli emotivi e psicologici, come l’adulterio e l’incesto. Basti pensare, a titolo esemplificativo, a tutte le credenze e usanze che ruotano intorno al sangue mestruale, che viene visto come qualcosa di pericoloso e impuro: in primis, perché si tratta di sangue, che è sempre impuro quando scollegato dai sacrifici rituali; in secundis, perché legato alla sfera sessuale e della riproduzione, teatri di “disordine” costante, anche nelle società più armoniose. Nelle parole di René Girard, il sangue mestruale è materializzazione di violenza, e con questa scusa «si effettua un transfert della violenza, si stabilisce un monopolio di fatto a scapito del sesso femminile».1
Per quanto le usanze riferite alla couvade possano sembrare peculiari al lettore contemporaneo e occidentale, sarebbe indegno ritenerle solo come “attrazioni esotiche” e relegarle al comportamento superstizioso di società primitive: la couvade ha invece a che fare con gli aspetti più inconsci e privati delle persone; tratta di nascita e di morte, di sesso e di violenza, di mimesi e di empatia, e tratta della storia dell’umanità.
Lo studio antropologico della couvade non è uno studio di un costume puramente a livello etnografico, compiuto magari anche con un certo piglio di superiorità eurocentrico, ma è invece uno studio umanista, perché non c’è niente di più umanista dell’indagine sugli individui.
di Luca Ruffini
Bibliografia
- Girard, R., 1972. La violenza e il sacro. Milano, Adelphi
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