Super-stitio
Al di là degli dèi, solo il punto G
In questi giorni ho riflettuto molto sul termine “superstizione” e, più ci penso, più non sono sicura di averne colto il senso profondo. La parola deriva dal latino super, che significa “sopra”, e dal verbo stare, “trovarsi”: qualcosa quindi che sta sopra di noi ed è al di là della nostra conoscenza. Il fatto che questo qualcosa si trovi in uno spazio non meglio determinato, o definito, ci spinge a riempire questo stesso spazio di credenze, derivate dalla nostra ignoranza. Io interpreto la parola superstizione nel suo senso più generale, tanto nell’accezione di queste opinioni, quanto considerando il qualcosa che le ha fatte nascere.
A questo discorso è legato anche quello dei tabù, ovvero tutto ciò che è oggetto di divieto, senza fondamento oggettivo, o di cui si preferisce non parlare.
Cosa vi viene in mente? La religione? Il paranormale? La stregoneria?
Io ho pensato al punto G: ci si chiede se esista o meno, in quanto rientra in un ambito che per secoli è stato oggetto di tabù, e le credenze a riguardo superano le certezze.
Fin dall’antichità, e poi complice la morale cristiana, la sessualità è stata vissuta colpevolmente e sottoposta a una clandestinità al limite del morboso: si poteva parlare di sesso nei limiti dell’ambito familiare e fin tanto che lo scopo fosse quello della riproduzione. Ovviamente il fatto che il sesso fosse reso proibito, lo rendeva ancora più attraente: quello che non conosciamo, o ci viene precluso, esercita su di noi il fascino dell’ignoto.
Ma se per gli uomini, in un modo o nell’altro, il piacere poteva essere sempre raggiunto, in una società patriarcale come la nostra il piacere femminile è rimasto avvolto dall’aura della superstizione. Quest’ultima è legata alla dimensione sacra e misteriosa che storicamente è stata legata alla procreazione: già nella cultura romana, il pudore era considerato una virtù femminile, da cui dipendeva, in parte, la stabilità della famiglia, allora nucleo essenziale della società, mentre se parliamo di cultura greca, l’ideale di creatura perfetta è quello dell’uomo kalòs kai agathòs, bello e buono, atletico, divino ed eroico: il suo corpo viene idealizzato e quello della donna considerato come un uomo a cui manca qualcosa. Insomma, si parla poco delle donne e, men che meno, del loro piacere.
Con l’avanzare del tempo le cose non sono cambiate: la donna-angelo se ne sta oltre il mondo terreno, «tanto gentile e tanto onesta […] quando altrui saluta», mentre l’uomo “se la fa un po’ con chi gli pare” e a nessuno verrà mai in mente di comporre sonetti sulla sua pudicizia. La donna riveste il ruolo di madre di famiglia, creatura da proteggere, e il suo piacere è subordinato a quello dell’uomo.
Va menzionata un’eccezione trecentesca, rappresentata dal Decameron di Giovanni Boccaccio. Riporto una parte dell’introduzione alla Decima novella della Seconda giornata:
«…essi, andando per lo mondo e con questa e con quella ora una volta ora un’altra sollazzandosi, s’immaginan che le donne a casa rimase si tengan le mani a cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe.»
Parafrasata in un italiano più comprensibile del fiorentino di metà Trecento, suonerebbe all’incirca così: “loro (i mariti), girando per il mondo e andando a letto con una donna di qui e un’altra di là, si immaginano che le mogli rimaste a casa stiano lì a far nulla, come se noi (sottinteso “uomini”), che pure nasciamo e cresciamo in mezzo a loro, non conoscessimo di cosa abbiano desiderio.”
Non penso siano necessarie ulteriori spiegazioni: le donne hanno i loro desideri e gli uomini lo sanno bene. Boccaccio prosegue nella narrazione specificando quanto sia grande la stupidità di tali mariti, e la novella che si accinge a raccontare ne è la dimostrazione. In breve, il protagonista ha preso in moglie una donna molto più giovane di lui e l’ingenuo non è in grado di soddisfare i bisogni di lei. Uno sugar daddy con poco sugar, insomma. Sintetizzando il più possibile, la giovane viene rapita da un altro uomo: un dolcissimo rapimento (merito della capacità di lui di soddisfare le voglie della donna) che la spinge a non voler più tornare dal marito (e come biasimarla?). Ma vi rimando alla lettura completa della novella, che a me fa sempre sorridere.
Purtroppo però, non tutti la pensavano come Boccaccio.
Parte del problema stava anche nella scarsissima conoscenza dell’anatomia femminile: la scoperta della clitoride si data alla metà del Cinquecento, ma il primo studio sulla fisiologia sessuale femminile venne pubblicato solo nel 1966, da Master e Johnson.
Il punto più basso della mia storia viene toccato nel 1905 con la pubblicazione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, in cui Sigmund Freud teorizza il concetto psicoanalitico di “invidia del pene”. Il nome parla chiaro, anche se cercherò di sintetizzare il concetto: Freud pensa che dai tre ai cinque anni tutta l’attenzione dei bambini di entrambi i sessi sia concentrata sul pene ma, visto che la bambina si rende conto di non possederlo, sviluppa una fantasia inconscia di essere stata castrata. Noi donne quindi vivremmo nella dipendenza dal sesso maschile: il desiderio femminile viene tutto ridotto al desiderio di un pene che ci sarebbe stato tolto, non si sa bene né quando né come.
Il punto di svolta arriva nel 1971, con un saggio della scrittrice e critica d’arte (nonché mio spirito guida personale) femminista Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale.
In questo scritto, Lonzi individua i luoghi del piacere femminile (la clitoride) e maschile (il pene). Da questa differenza deriva il fatto che la soggettività della donna sia autonoma rispetto a quella dell’uomo. La scrittrice, quindi, ribalta il dogma secondo cui è la vagina l’organo della sessualità femminile: questa convinzione sarebbe all’origine di quella che definisce l’ “angoscia femminile”, derivata dalla sottomissione alla personalità maschile, in quanto vi sarebbe coincidenza tra momento della procreazione e momento del piacere. Ma le donne sono capaci di un piacere che prescinde dalla penetrazione e può prescindere dal rapporto col pene.
«Il patriarcato ha negato l’esistenza della clitoride, e ha portato a costruire un’immagine della donna come inferiore e seconda all’uomo, negandole la propria soggettività. Quindi il piacere femminile si inserisce in un discorso più ampio, divenendo la questione alla base dello scontro tra potere patriarcale consolidato e la nascente soggettività femminile.»
La vagina diventa il totem della sottomissione femminile e la clitoride il tabù, lo scandalo di una sessualità femminile che non ha bisogno dell’uomo. L’identità della donna si avviluppa in questa proibizione ancestrale, cercando in ogni epoca di adattarsi. Ma questo adattamento non è indolore, né compiuto definitivamente. Emergono allora due tipi psicoanalitici: la donna vaginale e la donna clitoridea.
E oggi?
Oggi ringraziamo chiunque abbia contribuito a smantellare il tabù della clitoride, sputiamo su Freud e la sua invidia del pene, soprattutto perché il tema è tornato attuale nel periodo della pandemia. Come avremmo potuto, anche noi ragazze, sopravvivere a due anni di lockdown, senza l’invenzione del succhiaclitorde?
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